Sono trascorsi ventisei anni dal genocidio in Rwanda, ed oggi il paese appare come è un esempio di prosperità socioeconomica e di attrattiva finanziaria nel continente africano. Per gli standard del continente, il Rwanda è un paese piccolo sia nella sua estensione territoriale che per popolazione, anche se con solo 12 milioni di abitanti ha una densità abitativa alta, di 426 abitanti per chilometro quadrato; a paragone la Nigeria con un territorio 36 volte più ampio e una popolazione di 200 milioni di abitanti ha una densità abitativa di 221 abitanti per chilometro quadrato, pari a poco più della metà di quella del Rwanda.
Il genocidio del 1994 non fu il primo evento del genere nel paese, dall’indipendenza nel 1962, in forme diverse e a fasi alterne, si erano susseguiti tre periodi di scontri interetnici. Fomentati da un settantennio di risentimento etnico, costruito dai belgi a partire dal 1919 fino all’indipendenza del paese nel 1962 ed oltre, creando una supremazia dei Tutsi rispetto agli Hutu, i quali attuarono nel 1994 il genocidio e chi tra questi si oppose o cercò di mediare e moderare la situazione seguì la stessa sorte dei Tutsi, in un uragano di violenza che in soli 100 giorni fece circa un milione di morti. Una realtà etnica ed etnografica antica che rispecchiava una realtà fatta di popolazioni stanziali, gli Hutu, e seminomadi, i Tutsi, agricoltori i primi ed allevatori i secondi, i quali per secoli si erano riconosciuti in una monarchia che di fondo univa e governava il paese. Non molto differente da innumerevoli altre realtà continentali le quali attraverso antenati comuni e strutturazioni tribali riuscivano a contenere e mitigare i classici attriti tra due realtà, quella agricola e quella pastorale. L’azione di disarticolazione etnica attuata dai belgi non fu certo cosa nuova, d’altronde l’intero sistema coloniale giocava sul classico dividi et impera di romana memoria, aggiungendo quella certezza di superiorità “razziale” europea che era maturata nel corso dei secoli passando dall’Imperialismo del XVIII-XIX secolo al colonialismo del XX secolo. I danni sono ovviamente sotto gli occhi di tutti e forse il genocidio ruandese rappresenta l’apice e la coda della violenza, del trasformismo etnico, dell’aggressività e della mancanza di scrupoli del sistema coloniale e post-coloniale. D’altronde ciò si può leggere nella storia stessa del Rwanda, come detto a più riprese in forme diverse, scontri interetnici nel corso del tempo hanno creato forme diverse di diaspora, che hanno coinvolto sia Tutsi che Hutu, in un inseguirsi e distruggersi a vicenda, spingendo migliaia di individui a fuggire oltreconfine, in Congo, in Burundi, in Uganda in Tanzania e fuori del continente stesso, in Europa e non solo.
Lo stesso attuale presidente del Rwanda, Paul Kagame è figlio di tale diaspora, personaggio molto discusso in passato ed in parte ancora oggi, considerato da molti suoi connazionali uomo di carattere e di forte carisma, sembra essere riuscito ad unificare il paese sotto i valori di nazione e di riconciliazione. Dopo la sua elezione a Presidente della Repubblica nel 2000, Kagame sembra essersi risolutamente votato all’unità nazionale, cercando e riuscendo ad evitare le ripercussioni delle violenze dei 100 giorni del 1994, tanto che in molti nel paese pensano che sia stato l’uomo che abbia evitato la vendetta e la guerra civile. Ha puntato alla crescita economica del paese e al benessere sociale, favorendo ingenti investimenti stranieri non solo in campo economico ma anche in scuola e sanità, trasformando il paese in modo radicale e chiedendo l’aiuto di tutti i connazionali ed in particolar modo degli emigrati, che si definiscono Rwandesi della diaspora. Ambiente, salute, istruzione, risorse rinnovabili, alimentazione, ma anche banche, diversificazione della produzione industriale e modernizzazione di questa. Anche se in parte dipendente da aiuti internazionali (ONU, UNCHR, OMS), di fatto il RWANDA appare come la Svizzera d’Africa grazie ad crescita economica annua del 6% ed una politica di attrattiva finanziaria con molteplici banche internazionali che hanno aperto succursali nel paese.
In ciò la diaspora ha avuto uno spazio di particolare importanza, e più volte Kagame ha invitato gli uomini e le donne al rientro nel paese ad investire la propria istruzione, esperienza e capacità nel paese natio. In effetti il Rwanda necessita di insegnanti, ingegneri, sanitari, tecnici specializzati, figure con esperienza che purtroppo il genocidio ha cancellato in buona parte. Progetti sanitari, finanziari, economici, ingegneristici, ambientali proposti dalle persone della diaspora vengono tenuti in alta considerazione, spesso incentivando anche economicamente gli stessi, affinché attraverso questi possano giungere nel paese forze nuove, investimenti stranieri, ma soprattutto persone altamente formate che possano contribuire alla crescita. Università estere, enti sanitari, associazioni senza scopo di lucro vengono incentivate a partecipare a progetti e facilitate, se sono elementi della diaspora, a fare da canale di ingresso. Oltretutto la diaspora è anche fonte di importante rimessa economica, che ammonta a 180 milioni di dollari nell’ultimo decennio, e solo in Europa vivono circa mezzo milioni di ruandesi. Con una età media che oscilla tra i 40 ed i 50 anni di età, sono distribuiti tra il Belgio, la Francia, l’Olanda e il Regno Unito. Posseggono una elevata istruzione e in percentuali molto alte che giungono ad oltre il 70% si impegnano in attività in favore del paese di origine, con attività locali attraverso sostegno finanziario per l’acquisto di libri, di materiale scolastico, di vestiario, di farmaci, di dispositivi elettronici, ma anche attraverso corsi di mentoring e consultazioni a distanza in vari campi, dalla finanza alla medicina. Forte è anche la volontà di rientro in patria: circa il 50% dei membri della diaspora europea esprime un progetto di rientro a lunga scadenza; il 25% un progetto a breve scadenza; e circa il 20% e molti dei giovani nati all’estero esprimono il desiderio di non rientrare ma di partecipare in qualche modo ed attivamente al progresso del paese.
Sembra insomma che la spinta di Kagame al progresso e alla riconciliazione funzioni, nonostante le contraddizioni che possono apparire nel paese e più volte denunciate da vari organi internazionali riferendosi alla libertà di informazione, o ai risultati delle votazioni presidenziali, sia del 2010 che del 2017 che rispettivamente hanno portato il 93% ed il 98% dei consensi a favore di Kagame.
A favore vi sono diversi importanti elementi di positività; l’indice di corruzione percepita (2016) che pone il paese al quarto posto in Africa e cinquantesimo nel mondo (per fare un paragone l’Italia è sessantesima), con un salario medio di 200 $ e la tempistica per aprire una attività di soli 6,5 giorni, ma in particolare una disoccupazione stabile intorno al 3%.
Tutto ciò porta a riflettere se il Rwanda possa essere considerato un esempio virtuoso applicabile al resto del continente, oppure una realtà locale svincolata dal continente stesso sull’esempio della Svizzera in Europa? Solo il tempo potrà dirlo.