I rapporti tra USA e Russia, che dopo l’implosione dell’URSS sembravano avviati verso una sostanziale alleanza o quanto meno una guardinga collaborazione dando ragione alle teorie di Francis Fukuyama sulla fine della storia e sul definitivo trionfo delle democrazie capitalistiche di tipo occidentale con a capo gli Stati Uniti, da qualche tempo sono tornati problematici.
La crisi ucraina è stato un fattore di forte acceleratore di questo ritorno ad una forma mitigata di guerra fredda fra le due potenze, ma complessivamente, per come si sta svolgendo e per le scelte politiche e culturali del presidente Putin, ha mostrato anche molto altro. Intendo dire che non si tratta solo di una questione geopolitica per il controllo delle fonte energetiche e con esse per assicurarsi l’egemonia planetaria per i prossimi decenni, e nemmeno solo una manovra strategica a lungo raggio in vista delle questioni che inevitabilmente si porranno per gli Usa in rapporto alla Cina. O meglio, posto che tali questioni esistono e sono fondamentali, dietro lo scontro fra potenze economiche e militari, appare ora chiaro che esistono forti tensioni di ordine culturale e antropologico che sono alle fondamenta di questo scontro.
In qualche modo sembra tornato il tempo, ovviamente con contenuti specifici molto diversi, dello scontro fra due opposte Weltanschauung. Insieme al confronto politico/militare esiste una guerra culturale di lunga prospettiva, condotta con armi incruente ma non meno distruttive sul terreno loro proprio.
La rinascita delle religioni nella Russia post-sovietica
Secondo un articolo del 20 ottobre 2012 del sito de La Stampa «Vatican Insider», ripreso dall’UCCR (Unione Cristiani Cattolici Razionali), “la percentuale di credenti in Russia è ora superiore a quella nel periodo precedente la rivoluzione bolscevica: si professa credente l’88% della popolazione ed il 79% fa parte della Chiesa Ortodossa (il restante 9% è composto da musulmani, ebraici, cattolici e protestanti). Comparando questi dati con quelli appena successivi alla caduta del regime risulta che più di un russo su due, negli ultimi vent’anni, avrebbe riscoperto la fede”.
Il fenomeno ha una enorme portata, sottovalutata dalla stampa ma non dagli analisti più avvertiti della Casa Bianca.
In primo luogo è in controtendenza rispetto alla generalità dei paesi occidentali, dove la religione appare sempre meno sentita. Ma non solo. Spesso in questi paesi, come in Italia, ci si dichiara cattolici passivamente, per abitudine familiare o semplicemente perché si è battezzati, senza che a questa dichiarazione seguano comportamenti coerenti con la fede dichiarata, la quale viene anzi contraddetta nella pratica o adattata al proprio stile di vita e alle proprie credenze, quasi fosse una fede «fai da te».
I russi che si dichiarano religiosi dopo settant’anni di ateismo di stato, operano invece una scelta personale attiva che, viste le posizioni esplicitamente tradizionaliste della Chiesa Ortodossa russa sulle questioni etiche e antropologiche (aborto,fecondazione artificiale, eutanasia, omosessualità) significa consapevole adesione ad esse, indipendentemente dalla pratica religiosa concreta.
Il fatto che il risorgimento religioso sia avvenuto dopo settant’anni di ateismo e di ostacoli alla professione di fede, ci dice due cose su cui riflettere.
Quella più evidente e scontata è che il sentimento religioso è profondamente radicato nella natura umana. Rimosso, ostacolato, sbeffeggiato in ogni modo come residuo superstizioso destinato a scomparire con l’avanzare del progresso scientifico ed economico, ecco che invece riemerge prepotente proprio nel paese che più lo aveva osteggiato, anche tramite legge. E, ancor più significativamente, in generazioni nate e cresciute già nell’epoca comunista ed atea, immemori quindi della tradizione religiosa precedente la rivoluzione bolscevica.
L’ideologia che con maggiore determinazione e pretese teoriche puntava all’eliminazione del sentimento religioso, lo aveva bensì rimosso dalla superficie ma non intaccato in profondità.
Qui si pone un apparente paradosso. Il buon senso comune, questa volta in accordo con le previsioni così dette scientifiche, avrebbe detto il contrario.
Decenni di propaganda atea avrebbero dovuto estirpare definitivamente nel popolo la religione, o quantomeno conquistarlo ad un materialismo pratico e relativista simile a quello vissuto in gran parte dell’Occidente. Unificazione del mondo sotto il dominio politico, economico e culturale dell’occidente capitalistico con alla testa gli USA, era ciò che tutti si attendevano dopo la caduta del comunismo.
Occorre quindi chiedersi il perché mentre nelle «società liquide del consumo», come Baumann definisce quelle occidentali, la secolarizzazione della società civile e l’espulsione della religione dalla sfera pubblica per confinarla in un ambito sempre più privato e personale, è un fatto quasi compiuto e senza particolari traumi apparenti, anzi con il consenso di parte rilevante del mondo cattolico anche nelle sue espressioni politiche, in Russia si verifichi l’opposto.
Credo ci possa aiutare a tentare una spiegazione, il fatto che, già a metà del 1800, si sviluppò in Russia un acceso dibattito intorno al nichilismo che aveva affascinato le generazioni di giovani intellettuali di provenienza piccolo borghese in polemica con la società dell’epoca. Nichilismo è un termine declinabile in termini filosofici, morali o politici che non sono interamente sovrapponibili. In senso generale significa “la negazione di tutto ciò che, posto all’esterno delle sfera delle scienze naturali, non può essere percepito dai cinque sensi”.
Valga, per quanto ci riguarda, la definizione arrivata fino ai nostri giorni, datane da Turgenev nel romanzo Padri e figli (1862):
— Un nichilista — proferì Nikolaj Petrovic — viene dal latino nihil, nulla, per quanto posso giudicare; dunque questa parola indica un uomo, il quale… il quale non ammette nulla?
— Di’ piuttosto: il quale non rispetta nulla, riprese Pavel Petrovic.
— Il quale considera tutto da un punto di vista critico, osservò Arkadij.
— E non è forse lo stesso? Domandò Pavel Petrovic.
— No, non è lo stesso. Il nichilista è un uomo che non s’inchina dinanzi a nessuna autorità, che non presta fede a nessun principio, da qualsiasi rispetto tale principio sia circondato.
Ne discende la contiguità fra il nichilismo e l’utilitarismo, che rimane la sola motivazione possibile dell’agire umano.
Se in senso politico il nichilismo russo si traduce in correnti rivoluzionarie antizariste, in senso filosofico punta alla dissoluzione di ogni tradizione e di ogni principio religioso nonché etico e morale, per approdare a una sorta di anarchismo culturale ateo e materialista.
Ora, mi sembra abbastanza facile riconoscere come nichilisti i tratti fondamentali del capitale che, per giungere al suo begr, deve proprio negare ogni forma a lui precedente che possa limitarne la riproduzione infinita, lasciando sussistere solo la forma merce come unico mediatore dei rapporti fra gli uomini. È in forza di ciò che Diego Fusaro, sulle orme di Marx, parla di «nichilismo della forma merce».
Nella Russia di metà ottocento, l’affermarsi di questa corrente di pensiero generò una potente reazione, coagulatasi intorno alla rivista Russkij Vestnik, diretta da M. N. Katkov, alla quale collaborarono, fra gli altri, Tolstoj, Dostoevskij e lo stesso Turgenev. Per Katkov, “L’unica possibilità di contrastare il nichilismo è far interessare i giovani alle riforme in atto — è il periodo delle grandi riforme alessandrine, tra cui, come si è detto, l’abolizione della servitù della gleba. Si tratta cioè di avvicinare i figli alle operazioni d’ingegneria sociale volte al rafforzamento del sistema autocratico, fondato sui valori nazionali positivi della religione, della politica, dell’economia e della cultura» e «il nihilismo è una goccia di veleno il cui unico antidoto è costituito da un programma pedagogico-sociale espressamente antinihilista volto al rafforzamento degli interessi positivi (religiosi, economici, culturali, politici) della società, in cui la politica del governo nel determinato periodo storico sia diretta a maggiore libertà e tolleranza”.
Accade dunque che in Russia prenda forma una corrente di pensiero che contrasta il nichilismo e «il falso dio dei valori occidentali che dalla Russia esige vittime umane». Tutto ciò, oltre che cogliere in profondità l’anima del popolo russo, contribuisce ad immunizzarlo, per così dire, dallo spirito del tempo e dall’influenza culturale dell’occidente democratico, materialista e capitalista.
Credo che senza cogliere questa particolarità dello spirito e della cultura russi sarebbe difficile spiegarsi l’improvviso risorgere della religione nel post-comunismo. Ma sarebbe potuto non bastare in mancanza di un altro fattore, peraltro anch’esso originato dalla stessa fonte.
Il regime sovietico fu dichiaratamente ateo e materialista, ma non nichilista nel senso di negazione di ogni forma, di ogni verità, di ogni autorità, di ogni struttura solida del potere politico e della società civile. Si dette, al contrario, una sua forma, una sua struttura, una sua liturgia, sue organizzazioni che tendevano all’affermazione in positivo dei valori della rivoluzione bolscevica. Una complessa impalcatura, anche spettacolare, che spesso copiava quella della Chiesa, fatta non solo per acquisire consenso popolare al regime, ma per cogliere e accogliere un anelito forte del popolo: la ricerca di un senso.
Ad una Chiesa rivolta al trascendente, sostituiva una Chiesa terrena. Al Dio del cielo opponeva un dio ateo, allo spiritualità della religione opponeva un materialismo non meno religioso, conservandone le forme e riempiendo di contenuti opposti un recipiente simile. L’opposto di quanto già avveniva in Europa e nell’occidente, dove l’economia si stava già affermando come autonoma dalla politica determinandone gli indirizzi. Va da sé che quello sovietico era un tentativo destinato nel lungo termine all’insuccesso perché, in quanto ateo e materialista, incapace di dare una risposta soddisfacente a quella domanda di senso. Va da sé che, costituendo una forma di «comunitarismo coatto», come lo definisce Costanzo Preve, il regime si trasformò ben presto in stato di polizia e si macchiò di crimini orrendi e tragici, con aspetti insieme anche grotteschi, come racconta Solgenicyn in Arcipelago Gulag. Tuttavia un merito gli va riconosciuto. Fu un regime di comunitarismo, coatto e distorto, ma pur sempre una forma di comunitarismo in opposizione all’individualismo atomistico che si affermava in Occidente. La liturgia del regime ha evitato la dissoluzione di ogni forma, ed anch’essa ha costituito un importante fattore della resistenza russa alla penetrazione incondizionata del sistema di valori occidentali. Anche grazie a quelle liturgie, il popolo russo ha potuto rimanifestare come per incanto la sua anima spirituale profonda. D’altronde, che così sia stato è dimostrato dal fatto che Stalin, dopo aver distrutto tutti i quadri del partito e dell’esercito a lui contrari, per prepararsi a fronteggiare il nazismo non esitò a fare leva proprio sui valori tradizionali di patria e nazione russa con un afflato quasi religioso. Nel film di Eisenstein del 1938, Alexander Nevskj, gli invasori teutoni sono rappresentati come frutto dell’alleanza ibrida fra la Chiesa romana e l’aquila germanica, è in ciò consiste l’elemento propagandistico e falso del film che tuttavia va contestualizzato nel periodo storico. La rappresentazione del popolo in armi mobilitato sotto la guida del principe Nevskj, differisce si nell’estetica dei soggetti rappresentati e nei valori che quella stessa estetica veicola, ma non differisce però nella rappresentazione formale dei due eserciti che si fronteggiano. Il popolo, per poter combattere efficacemente il nemico, deve credere fortemente in alcuni valori fondamentali, e viene organizzato e posto sotto il comando dei suoi condottieri sullo sfondo simbolico delle cupole delle chiese ortodosse. Cioè necessita di una forma. E che quei richiami alle tradizioni fossero stati efficaci, lo dimostra il sacrificio dei soldati e dei civili nel combattere l’invasione delle armate hitleriane. L’assedio di San Pietroburgo e la battaglia di Stalingrado ne sono diventati i simboli.
La Russia di Putin
Cerchiamo ora di descrivere sinteticamente, con lo scopo di delinearne i contorni e ricavarne il ruolo che la Russia intende svolgere sulla scena internazionale, i principali capisaldi della politica putiniana.
Putin si presenta come il campione del multipolarismo, in contrasto alla concezione geopolitica che accetta l’egemonia unipolare degli Stati Uniti e della Nato, intorno ai quali si dovrebbe costruire il nuovo ordine mondiale. Per Putin, al contrario, questo dovrebbe essere centrato su rapporti paritari tra i principali blocchi continentali e sub continentali. Perciò ha stretto rapporti strategici, politici ed economici, da un lato con Brasile, India e Cina (BRIC), ma anche con altri paesi centroasiatici attraverso la Shangai Cooperation Organization (SCO), l’Indonesia, il Venezuela e Cuba. In Medio Oriente, ha invece eletto come partner privilegiati l’Iran e la Siria. Verso L’Europa, l’atteggiamento russo è quello di insistere sui comuni interessi economici per favorirne l’autonomia dagli USA, mentre netta e senza esitazioni è l’opposizione al tentativo statunitense di costituire una cintura di Stati aderenti alla Nato intorno alla Russia, ritenuti una minaccia diretta, non diversamente da quanto fecero gli Usa ai tempi dei missili sovietici installati a Cuba.
Le forze armate russe, dopo la riforma del 2008, sono state ridotte quantitativamente mentre lo sforzo si è concentrato sulla preparazione e sulla specializzazione dei quadri ufficiali e sottufficiali. Dopo il ripiegamento successivo al crollo dell’Urss, Putin ha proceduto ad un nuovo riarmo, di cui sono espressione la modernizzazione degli armamenti e la ripresa di importanti esercitazioni militari nel mare Artico, nel Mediterraneo, ad anche in Atlantico.
Sul piano amministrativo c’è stata una svolta in senso centralistico (nomina presidenziale dei governatori degli ottantanove soggetti federali e loro suddivisione in sette distretti economici diretti da plenipotenziari nominati da Mosca). Lo scopo è quello di un maggior controllo dell’immenso paese per frenare le spinte centrifughe ed anche per combattere meglio la criminalità mafiosa e la corruzione, piaghe decennali in Russia. Fra luci ed ombre, i risultati sembrano positivi a giudicare dalla diminuzione del tasso di criminalità.
Sul piano dell’azione di polizia, la repressione del terrorismo di matrice islamica è stata fermissima, così come l’intervento militare a difesa dell’integrità dello Stato minacciata dalle rivendicazioni autonomistiche su base etnica come in Cecenia.
L’economia è un aspetto particolarmente interessante della politica di Putin, non solo per i risultati, ma per il modo con cui sono stati ottenuti, in controtendenza al credo del liberismo incontrollato come condizione della crescita economica. Dopo la gravissima crisi postsovietica e la fase di liberalizzazione incondizionata che consentì la concentrazione di un immenso potere economico nelle mani dei così detti oligarchi (vero e proprio contropotere anche politico rispetto alla Stato), negli ultimi otto nove anni l’economia ha ripreso a crescere a grandi ritmi, con la sestuplicazione del PIL (dal 22° al 10° posto nel mondo, più 72%), con la crescita dei redditi di due volte e mezzo e la triplicazione dei salari.
Lo Stato si è riservato un ruolo centrale e strategico di indirizzo. Ha nazionalizzato le imprese degli oligarchi meno inclini a piegarsi alle direttive centrali, anche arrestandone o esiliandone alcuni, ha incentivato la creazione di grandi aggregazioni industriali di interesse strategico (aeronautica, cantieristica, nucleare, nanotecnologie). Il tutto allentando decisamente la pressione fiscale a livelli inferiori alla maggior parte dei paesi europei, e attuando misure protezionistiche per scoraggiare le importazioni e la delocalizzazione e, al contrario, attrarre investimenti stranieri. La Russia di oggi si può insomma definire come un paese capitalistico a economia mista, dove le logiche del mercato, quando non coincidono cogli interessi nazionali, sono ad essi subordinate.
La politica culturale della Russia è chiaramente orientata verso la difesa e lo sviluppo delle concezioni tradizionali in termini di famiglia naturale, di procreazione artificiale, di limiti al diritto d’aborto, culminata nel forum moscovita del settembre 2014, a cui hanno partecipato 1500 persone da 45 paesi diversi, dal titolo «La famiglia numerosa e il futuro dell’umanità».
Non poteva perciò mancare l’accusa di oscurantismo e naturalmente, in relazione alle legge che proibisce la propaganda omosessuale verso i minori, di omofobia. Accusa falsa e tendenziosa perché quella legge non proibisce affatto una libera relazione omosessuale fra adulti. La sua portata e i suoi obbiettivi sono altri. Per stare sul concreto, ad esempio, nelle scuole russe non potrebbe mai essere stato letto, come invece è accaduto al liceo Giulio Cesare di Roma, quel passo del romanzo di Melania Mazzucco, Sei come sei, in cui si descrive minuziosamente e con compiacimento un rapporto orale omosessuale fra due ragazzi.
Non manca chi fa rilevare come queste posizioni di Putin, e come vedremo fra poco anche il modo con cui concepisce il rapporto fra Stato e Chiesa, non siano tanto il frutto di sincere convinzioni avallate da personale coerenza, quanto dovute piuttosto a convenienza politica, all’intuizione che sarebbero paganti sul piano elettorale e della popolarità. Non possiamo saperlo, naturalmente, ma anche così fosse, «chi siamo noi per giudicare?». Parlano i fatti e le decisioni pubbliche, ed a quelle dobbiamo attenerci.
Alla fine del Luglio 2013, in occasione del 1025° anniversario della conversione del popolo russo al cristianesimo, Putin riconobbe in un discorso tenuto a Kiev, che se la Russia era diventata una grande potenza, il merito non era da attribuire ad uno Zar, ad un partito o ad una guerra, bensì al Cristianesimo. Parole che bene servono a fare capire il rapporto di stretta vicinanza e collaborazione fra lo Stato e la Chiesa ortodossa. Il patriarca di Mosca Kirill appare spesso in cerimonie pubbliche accanto a Putin, al quale ha sollecitato più volte la difesa dei cristiani in altri paesi del mondo, e col quale condivide la concezione che il cristianesimo e la religione sono parte integrante dell’identità nazionale, da difendere e tutelare. La legge che introduce l’obbligo di un esame di lingua, storia e diritto russi per gli immigrati che vogliano ottenere un permesso di soggiorno, è orientata in questo senso, senza che ciò significhi discriminare le altre confessioni religiose. Putin, attento al fatto che un vastissimo paese multietnico non può essere governato pacificamente in presenza di tensioni religiose, nella legge che introduce l’obbligatorietà dell’insegnamento della religione nelle scuole, ha lasciato ampie possibilità di scelta ai cittadini che per i loro figli possono optare per «fondamenti di cultura religiosa» o «fondamenti di etica pubblica», o in alternativa, corsi su una delle religioni più presenti nel paese, il cristianesimo ortodosso l’Islam, l’ebraismo o il buddismo. Fra queste non figura il cattolicesimo, ed è un errore anche dal punto di vista storico perché all’epoca della rivoluzione d’ottobre i cattolici assommavano ad oltre un milione e mezzo, ma non manca l’attenzione al dialogo fra le Chiese di Mosca e Roma. Complessivamente, lo Stato riconosce ampia libertà di culto e non intende interferire nelle attività delle organizzazione religiose. Secondo Putin “gli Istituti educativi religiosi devono avere gli stessi diritti delle scuole pubbliche, incluso l’accesso a fondi governativi. Questo vale anche per i salari degli insegnanti”.