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TematicheMedio Oriente e Nord AfricaLa Russia e il fattore saudita

La Russia e il fattore saudita

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Nel novembre scorso è fallito l’ennesimo ciclo di negoziati incentrato sulla questione del nucleare iraniano che ha visto nuovamente coinvolte le potenze del cosiddetto gruppo 5+1 e Teheran. Il nuovo obiettivo prefissato, a conclusione dei colloqui, è stato quello di raggiungere un accordo entro giugno 2015 dato che, secondo le dichiarazioni ufficiali, sarebbero state risolte molte delle questioni un tempo oggetto di difficile mediazione tra i Paesi occidentali, l’Iran e i suoi alleati sino-russi.

E’ da tempo nota l’intenzione statunitense di pervenire ad una soluzione tombale su questa spinosa questione internazionale, ambizione spesso posta direttamente in opposizione alle mire geopolitiche regionali dei partner americani del Golfo Persico. In tal senso è in realtà risaputo che mentre l’amministrazione americana, “commissariata” dal Pentagono a seguito dell’incapacità della Casa Bianca di rispondere in maniera efficace alla crisi politico-militare che ha scosso l’Iraq nel corso dell’estate, avrebbe comunque ricercato un accordo di qualche tipo con il regime degli Ayatollah per potersi disimpegnare dallo scenario mediorientale e concentrarsi verso obiettivi di più ravvicinato interesse domestico, l’Arabia Saudita e i Paesi del Golfo, dal canto loro, avrebbero visto come fumo negli occhi una qualunque forma di ricomposizione che avesse rafforzato il già importante ruolo iraniano nella regione, sancendo di fatto una collaborazione formale (informalmente già in essere) tra Stati Uniti e Teheran sull’Iraq e, di fatto, sulla Siria, il tutto a pieno vantaggio del regime di Assad, il quale, secondo alcuni, non sarebbe stato finora oggetto di particolari attenzioni da parte degli USA proprio per evitare di “spiacere troppo” all’Iran stesso.

Una situazione certamente paradossale, dato che sia l’Iran che il regime siriano sono notoriamente alleati della Russia di Putin, i cui interessi tuttavia collidono con quelli di Washington in Ucraina e, più in generale, in Europa orientale. Se da un lato le contraddizioni e gli errori della politica estera americana non ci stupiscono più da quando nel 2011 il presidente Obama iniziò ad incespicare su una “primavera araba” dietro l’altra, dall’altro ciò che appare abbastanza probabile è che, di fronte al rischio concreto di vedere Washington e Teheran sorprendentemente uniti a braccetto nello scenario internazionale, con tutte le imprevedibili e sconvolgenti conseguenze geopolitiche del caso, Riyad abbia dato un perentorio ultimatum agli Americani, nei termini di: “o noi o loro”.

Di fronte ad un tale diktat, Washington, folgorata sulla via di Damasco, è stata evidentemente costretta a riconoscere il ruolo chiave che i Paesi arabi ancora svolgono sullo scenario geostrategico mediorientale e globale, a cominciare dal controllo da questi esercitato sulle più importanti riserve petrolifere mondiali, e non si può certamente escludere che qualcuno abbia fatto notare agli USA che l’eventuale accordo con l’Iran avrebbe potuto costituire un eccellente cavallo di Troia per Putin, il quale aveva già approfittato della debolezza politica americana in Medioriente per aggredire impunemente l’Ucraina nell’anno ancora in corso.

Voci relative ad un programma nucleare segreto, tenuto in piedi in maniera occulta dall’Iran, a dispetto delle rassicurazioni espresse pubblicamente da Teheran in merito alla natura pacifica delle proprie ambizioni atomiche, hanno sicuramente agevolato la scelta di Washington di non spingere oltre l’acceleratore dei negoziati e di preservare la propria alleanza strategica formale con il mondo sunnita, almeno per il momento, dato che comunque l’incognita del temuto accordo sul nucleare iraniano continuerà ad incombere su Sauditi ed alleati anche nei mesi a venire, consci del fatto che Washington e Teheran condividono la sponsorizzazione politica dell’attuale governo di Baghdad.

Vittima sacrificale del mancato accordo sul nucleare iraniano è stato il Segretario alla Difesa americano “Chuck” Hagel, divenuto da tempo critico dell’obamismo in politica estera. Il fallimento dei negoziati con Teheran, condotti da una Casa Bianca posta sub tutela dal Pentagono, unito agli scarsi progressi bellici contro l’ISIS, nonché a conseguenti errori di valutazione in tema di alleanze e strategie sul terreno in Siria, ha nuovamente riportato in auge il presidente Obama, il quale ha così colto la palla al balzo per ricondurre il Pentagono all’ordine e silurare, provocandone le dimissioni, lo stesso Hagel, senza tuttavia scontentare certi ambienti del Pentagono che indubbiamente non condividevano la posizione più interventista e, evidentemente, minoritaria di Hagel, il quale avrebbe richiesto una politica più muscolare in tutto il Medioriente e, forse, meno incline all’ “appeasement”.

In tal senso è risultata vincente, almeno per una volta, la strategia obamiana, la quale, sfruttando il duro colpo inflitto dal fallimento dei negoziati iraniani ai sempre più disorientati “falchi” americani, è riuscita a squalificare  politicamente il Pentagono, sottraendogli quell’autorità morale e politica che per lunghi anni aveva evidenziato l’inconsistenza di parte delle strategie intraprese dalla Casa Bianca. Ciononostante la decisione di Washington di recedere, almeno temporaneamente, dalla firma di una obliqua, per quanto ancora assolutamente probabile, “entente cordiale” con l’Iran potrebbe essere stata indotta anche da altri fattori. Assai curiosamente, a partire dal giugno 2014, più o meno in concomitanza con l’invasione  dell’Iraq da parte delle milizie dell’ISIS (fatto, almeno in apparenza, senza alcuna correlazione), il prezzo del petrolio ha iniziato a declinare sui mercati internazionali, fatto di per sé positivo per i Paesi fortemente dipendenti dalle importazioni di petrolio, ma negativo per gli stati (e le organizzazioni come la stessa ISIS) che traggono dalla vendita degli idrocarburi buona parte delle proprie entrate finanziarie, come la Russia, il Venezuela e, potenzialmente (viste le sanzioni in atto), l’Iran stesso.

In particolare la Federazione Russa, già colpita dalle sanzioni occidentali imposte a causa del suo diretto coinvolgimento nella crisi ucraina, se in un primo momento aveva dimostrato di saper parare il colpo delle restrizioni economico-finanziarie di Unione Europea e Stati Uniti, col tempo ha, al contrario, iniziato ad accusare sempre maggiori difficoltà derivate dalla rapida diminuzione del prezzo del barile, la quale ha cominciato a mettere in seria crisi sia il bilancio moscovita che le conseguenti aspirazioni globali del Cremlino. Non è un caso se lo stesso Putin nel corso dell’autunno abbia iniziato pubblicamente a dichiarare, mettendo da parte il linguaggio della diplomazia, che il prezzo del petrolio, se da un lato risentiva del rallentamento dell’economia mondiale (in particolare presso quei Paesi appartenenti al cosiddetto gruppo dei BRICS), dall’altro stava subendo una manipolazione di tipo politico.

La recente decisione dell’OPEC, organizzazione a guida saudita, di non tagliare la produzione del petrolio per arrestare ed invertire l’andamento del costo dell’oro nero, ha infine inferto il colpo decisivo all’economia russa, fortemente dipendente dalle entrate derivate dalla vendita degli idrocarburi, causando il panico sui mercati e la caduta a rotta di collo del valore del rublo (già in difficoltà a causa della guerra in Ucraina), oltreché iniziando a minare profondamente le fondamenta del potere di Putin e del suo entourage politico, sempre più pressato dagli oligarchi russi, presso i palazzi del potere moscoviti. Il ruolo di Riyad e dei Paesi del Golfo in tale frangente appare indubbiamente in tutta la sua potenza. E’ indubbio, per quanto Sauditi ed alleati lo neghino, che i Paesi arabi abbiano giocato la carta del petrolio per colpire Mosca in quello che è l’attuale scontro sullo scacchiere del Vicino Oriente tra mondo sunnita e mondo sciita, quest’ultimo spalleggiato platealmente dalla Russia di Putin.

Le crescenti e prevaricanti ingerenze iraniane (e russe) in Iraq ed in Siria hanno evidentemente suggerito ai Paesi del Golfo che se si voleva mettere in crisi la strategia iraniana in atto ai danni del mondo sunnita occorreva innanzitutto togliere il terreno sotto i piedi ai protettori principali di Teheran, ovvero i Russi. Così facendo gli Arabi del Golfo, pur ricavando minori introiti dalla vendita del petrolio, hanno posto una spada di Damocle sulla Russia e, di conseguenza, sui suoi alleati mediorientali. Certamente prezzi del petrolio in caduta libera – i Sauditi già si dicono pronti a tollerare addirittura un prezzo di 20$ al barile – danneggiano allo stesso modo il nuovo “fracking” americano che necessita di alti prezzi alla vendita per rimanere conveniente.

Da questo punto di vista il mondo arabo sta compiendo una lotta su due fronti che indubbiamente non è esente da rischi nel medio e lungo periodo. Tuttavia se da un lato Sauditi ed alleati stanno provando a mandare fuori mercato la nuova industria petrolifera statunitense, nonché canadese (sabbie bituminose), dall’altro, nonostante tale livello dei prezzi risulti sfavorevole per i produttori americani, gli USA non stanno ostacolando, almeno per il momento, le politiche ribassiste dei Paesi del Golfo, dato che entrambi gli attori internazionali necessitano di mettere in crisi le “petrocrazie” che hanno aspirato negli ultimi lustri a dettare legge a livello globale, a cominciare dalla Russia di Putin fino ad arrivare al Venezuela neobolivariano (finanziatore del regime cubano, a sua volta burattinaio delle varie derive “neorivoluzionarie” centro e sudamericane dei primi anni dieci del XXI secolo – si veda il caso di ALBA) e all’Iran degli Ayatollah.

Oltre a ciò gli Americani ritengono che se l’attuale costo del “fracking” appare ancora piuttosto alto per risultare conveniente con bassi prezzi alla vendita, nel medio e lungo periodo i costi di estrazione si ridurranno notevolmente, di fatto riportando gli idrocarburi ottenuti tramite tale tecnica innovativa pienamente in seno ad una totale convenienza economica. Non si può ulteriormente escludere che il tentativo saudita di colpire il petrolio americano non funga, fra le altre ragioni in essere, da ricatto nei confronti del governo statunitense in merito allo scarso impegno e alle relative deviazioni della politica “a stelle e a strisce” rispetto le istanze geopolitiche dei Paesi del Golfo.

La Russia è stato il Paese certamente più colpito dalle manovre saudite sui mercati internazionali. Putin dovrà indubbiamente fare i conti con i problemi strutturali di una economia russa fortemente dipendente dalla vendita degli idrocarburi e pertanto particolarmente vulnerabile dall’andamento, naturale o strumentale che sia, dei prezzi di gas e petrolio sui mercati internazionali. Nell’immediato la Banca Centrale Russa sarà costretta, come già avvenuto attraverso mosse finanziarie assunte nottetempo e dettate dalla disperazione, ad intaccare le riserve di valuta estera per sostenere il valore del rublo e supportare il sistema bancario ormai in pieno affanno oltreché le necessità creditizie delle aziende nazionali. E’ in tal senso evidente che è appena iniziata una guerra di logoramento, di nervi e di liquidità nella quale la Russia rischia di giungere al termine di questa sfida completamente prosciugata. Si tratta in definitiva di uno scontro che ovviamente non potrà durare in eterno, visto che i soggetti economici in ballo e gli attori in gioco presto o tardi si troveranno di fronte alla scelta o di subire i danni di questo conflitto fino alle estreme conseguenze o di “cambiare tattica” per porre fine a questa costosissima lotta all’ultimo sangue.

Che cosa farà Putin? Indubbiamente lo stesso presidente russo sta già facendo i conti con il mondo degli oligarchi, un tempo suoi fedeli alleati, i quali di giorno in giorno vedono liquefarsi il proprio potere economico come neve al sole  a causa della perdita di valore delle moneta nazionale, della relativa inflazione, della prossima recessione economica e di un parallelo isolamento internazionale che ha già posto la Federazione Russa, a causa della sfiducia economica indotta dalle sanzioni, in una posizione difficilmente desiderabile per un qualunque uomo d’affari. Da questo punto di vista Putin potrebbe essere indotto a scendere a più miti consigli e cercare un accomodamento sui fronti caldi dell’Ucraina e del Medioriente, una sconfitta onorevole che gli potrebbe addirittura consentire di mantenersi in sella ancora per un bel po’ di tempo. Tuttavia Putin stesso potrebbe tentare di giocare la carta del “tutto per tutto”, eventualmente da un lato continuando a fare buon viso e cattivo gioco come finora accaduto in Ucraina, e dall’altro provando a diversificare l’economia russa, allacciando vitali e faustiani rapporti commerciali con la vicina Cina.

La Cina, dal canto suo, condividendo nemici comuni a quelli dell’ingombrante vicino russo, probabilmente sarebbe a sua volta pronta a lanciare un salvagente al Cremlino, tuttavia il prezzo da pagare a Pechino forse potrebbe risultare fin troppo alto per Mosca per essere tollerato. E’ evidente che la Cina potrebbe fungere da spalla per Putin a patto di strappare contratti di fornitura energetica straordinariamente vantaggiosi per l’ex “Celeste Impero”, di fatto riducendo di molto i margini sia per l’erario russo e per la stessa Gazprom. Parimenti la Cina con ottime probabilità pretenderebbe, in cambio di un suo appoggio nel consesso internazionale, il libero accesso ai mercati centro-asiatici, in particolare quelli energetici, di fatto scalzando via la Russia da quello che Mosca ritiene da secoli essere il proprio giardino di casa nonché la propria riserva energetica strategica privata.

Alla fine Mosca, ridotta a mero gregario del governo di Pechino, rimarrebbe con il classico cerino in mano, avendo pagato molto più del dovuto le proprie ambizioni imperiali, di fatto vanificate da una Cina che pare non abbia ancora dimenticato le conseguenze politiche della storica battaglia del Talas di epoca medievale. I rischi per il presidente Putin sono indubbiamente molteplici e non si può addirittura escludere che Mosca, qualora si adoperasse per mettere convenientemente in quiescenza la guerra in Ucraina, possa contemporaneamente cercare in qualche modo di alimentare un nuovo conflitto o rinfocolarne qualcuno in essere, possibilmente non  direttamente correlabile a manovre geopolitiche russe, per incrementare l’instabilità internazionale e conseguentemente spingere i prezzi del petrolio verso l’alto.

Dal canto loro gli Americani, per quanto possano sicuramente beneficiare dei rovesci finanziari moscoviti, non stanno mietendo particolari successi sul campo di battaglia. A Kobane i guerriglieri curdi, coadiuvati dalle truppe dell’Esercito Libero Siriano (FSA), sono per il momento riusciti a tenere testa ai miliziani dell’ISIS, impedendo la caduta totale della città. Tuttavia la notizia, più che vertere sulla resistenza opposta dai curdi e dalla coalizione internazionale alle bande di Al-Baghdadi, risiede nel fatto che l’ISIS, nonostante i raid della coalizione a guida americana, tutt’ora sia riuscita a mantenere sotto il proprio controllo un’ampia fetta dell’abitato, generando numerosi dubbi sulla concreta efficacia della strategia politico-militare adottata dagli USA in Siria.

Nello stesso Iraq si sono riscontrati scarsi successi sul terreno (la recente avanzata curda nei pressi della regione di Sinjar rappresenta forse la vittoria più importante finora ottenuta) e tutti fondamentalmente conseguiti grazie all’intervento sul campo di battaglia sia delle truppe curde, vere protagoniste della controffensiva anti-ISIS in corso, sia delle milizie filoiraniane sostenute  da Teheran. In tale scenario l’apporto iraniano appare assolutamente determinante sia per la tenuta del governo di Baghdad, sia al fine di  dotare il governo iracheno di una vera e propria forza armata nazionale, scarsamente identificabile, allo stato attuale, dalle cosiddette truppe regolari, già battute e disperse dall’ISIS nel corso dell’invasione di giugno. Gli Americani da questo punto di vista appaiono consapevoli del fatto che occorrerà diverso tempo per ricostituire l’esercito iracheno, nonostante gli USA stessi l’avessero già teoricamente rimesso in piedi nel corso della lunga occupazione statunitense del Paese.

A tal scopo gli USA stanno effettivamente progressivamente incrementando la presenza di soldati americani in Iraq, dell’ordine di alcune migliaia, al fine di accelerare l’addestramento di nuove unità dell’esercito iracheno, dato che secondo la dottrina Obama i soldati americani non devono partecipare direttamente ad azioni di guerra. A loro volta gli stessi peshmerga, il cui eroismo è universalmente riconosciuto, difficilmente potranno giustificare agli occhi del proprio popolo che sta pagando un tributo di sangue altissimo, il proseguimento dell’avanzata laddove le stesse rivendicazioni territoriali curde terminano, di fatto rendendo indispensabile l’utilizzo di un esercito regolare iracheno che veda sia la componente sciita che sunnita parimenti rappresentate. Non a caso la vicinanza sullo scenario iracheno, per quanto informale, tra USA ed Iran (quest’ultimo impegnato sempre più spesso con proprie forze terrestri ed aeree in aree irachene a ridosso del proprio confine, per non parlare di forze speciali e consiglieri militari ampiamente dislocati in area mesopotamica), spiace ai Paesi del Golfo, come poc’anzi detto, e, allo stesso modo, non piace neppure ad Israele, il quale, assai vicino, per motivi di opportunità legati alle ambizioni nucleari iraniane, alle posizioni geopolitiche dell’Arabia Saudita, sta indubbiamente parteggiando per la causa della rivolta siriana, intrattenendo rapporti con gruppi ribelli, anche con quelli che gli Americani considerano alla stregua di nemici, come Al-Nusra, coadiuvando, in un certo qual modo, il loro stazionamento a ridosso del confine con la Siria in funzione anti-Iran ed anti-Hezbollah.

La stessa Turchia, per quanto da un lato, dopo aver preso atto dell’inutilità di conservare il completo isolamento di Kobane a fronte degli aiuti americani paracadutati a favore dei curdi asserragliati in città, abbia concesso il libero transito verso la Siria al “minore dei mali”, ovvero alle milizie curde irachene, con le quali intrattiene da tempo rapporti di relativa ed interessata collaborazione e, più recentemente, di cooperazione in tema di addestramento militare, e dall’altro abbia promesso al governo iracheno un aiuto sostanziale contro l’ISIS, rimane defilata rispetto le azioni della coalizione internazionale a guida americana, nell’attesa di veder soddisfatte le proprie istanze relative al rovesciamento del regime di Assad.

Gli stessi stati europei che bombardano l’ISIS in Iraq tutt’ora non sembrano voler compiere il medesimo passo in Siria, ben sapendo che il territorio siriano rappresenti il punto focale di un vasto scontro fra sfere di influenza globali nel quale importanti Paesi come Francia e Regno Unito stanno giocando un ruolo di primo piano assieme ai Paesi arabi. Di queste e di altre complicanze gli Americani sembrano non preoccuparsi eccessivamente, per quanto la frammentazione che contraddistingue la coalizione internazionale costituita con il fine  di combattere l’ISIS stia minando l’efficacia dell’azione politico-militare nella regione contro un’organizzazione che, da un punto di vista strutturale, assai assomiglia alla mitologica Idra di Lerna.

Una stanchezza, quella americana, che si è resa ben evidente anche sullo scenario ucraino, per quanto in tal caso fossero proprio gli Americani stessi, o, perlomeno, una parte dell’establishment politico ed amministrativo USA, il primo motore dell’opposizione geopolitica alla Russia putiniana emersa in questi ultimi anni, un’opposizione che però necessita del ruolo forte della pressione economica europea (i cui obiettivi non sempre sono coincidenti con quelli di Washington sia in termini economici che geopolitici) per diventare veramente efficace. Ciò appare vieppiù vero nel momento in cui sembra che gli Americani ancora non abbiano deciso, dopo la fin troppo “lunga stagione” degli equipaggiamenti “non letali”, se rifornire o meno di adeguate dotazioni militari l’esercito ucraino, pur avendo acconsentito, a livello parlamentare, a dare il via libera a tale possibilità. Ciò che invece si mostra evidente è come la spesa miliare degli ex-Paesi facenti parte del Patto di Varsavia, ora nella Nato, stia progressivamente lievitando, a tutto vantaggio dell’industria bellica europea ed americana.

Il recente ritorno del presidente Obama “dai giochi forzati nel campo da golf” ha già prodotto due risultati che si sposano perfettamente con il modo di pensare “presidenziale” in tema di politica estera.

Il primo è stato l’annuncio della riapertura delle relazioni diplomatiche con Cuba e della prossima conclusione dell’embargo: un’ottima idea in funzione anti-russa (visti i frequenti approcci economico-militari moscoviti nell’area) ed anti-venezuelana (l’andamento del prezzo del petrolio deve aver preoccupato non poco L’Avana) se non fosse stata prontamente trasformata nell’ennesima trovata pubblicitaria che se, a livello mediatico, ha accarezzato le orecchie di tutti i mezzi di informazione globali, anche grazie alla cassa di risonanza rappresentata dal ruolo di Papa Francesco, a livello pratico si dovrà scontrare con la prossima maggioranza repubblicana al Congresso.

La seconda, e ben più maldestra della prima, mossa ad effetto della Casa Bianca è stato l’utilizzo strumentale del hackeraggio nordcoreano compiuto ai danni della Sony, relativo al controverso film “The Interview”, un episodio fondamentalmente “sospetto” dato che gli Stati Uniti posseggono tutti gli strumenti per escludere la rete internet della Corea del Nord dal resto del mondo (come poi effettivamente messo in atto dagli USA stessi, anche se per poche ore) e per prevenire simili attacchi contro il suolo statunitense. In tal senso sembrerebbe, ad una disincantata analisi della realtà, che prima si sia preferito cercare lo scandalo per mettere il presidente Obama sotto la benigna luce dei riflettori e poi si sia proceduto a “controbattere” al regime nordcoreano attraverso un azione di hackeraggio contro le infrastrutture informatiche del Paese, certamente generando più visibilità per Obama e per le mire elettorali del Partito Democratico, oltreché per la campagna pubblicitaria della Sony Pictures Entertainment, che per il prestigio morale e politico degli Stati Uniti, in particolare dal momento in cui è ben noto che nel caso dell’improbabile remake del celebre film “Red Dawn”, gli USA si siano ben guardati dall’attaccare direttamente il loro reale competitore nell’area del Pacifico, la Cina, Paese detentore di una parte non irrilevante delle fortune economiche americane e finanziatore di un nuovo canale marittimo in Nicaragua, in via di realizzazione ed in diretta competizione con quello di Panama (sempre che il progetto si dimostri concretamente realizzabile…).

Ciò ovviamente non vuole sminuire il grado di minaccia che il regime nordcoreano rappresenta a livello regionale (e non solo), tuttavia la mossa dell’amministrazione americana assomiglia più ad un gesto di piccolo “cabotaggio” che ad una seria azione di stampo politico-strategico volta a dimostrare la propria superiorità al transoceanico vicino cinese.

A dire il vero, in tale prospettiva, i più che ragguardevoli progressi dell’economia americana emersi recentemente all’onore delle cronache, dopo anni di risultati non all’altezza delle aspettative, non stridono in maniera così plateale con una politica estera in parte ridimensionata, dato che, seppur nell’era del divisivo e, a questo punto, sfortunatissimo presidente Obama, il quale ha visto nuovamente (ed incredibilmente) scoppiare tensioni di carattere razziale negli USA, gli Americani devono aver compreso che, come ha insegnato l’era Bush, il ruolo di poliziotto del mondo può essere eccessivamente costoso da sopportare a fronte di “presunti benefici politici” assai dispendiosi da mantenere, soprattutto quando le banche americane sono ancora sommerse da titoli tossici e i redditi reali stentano parimenti a decollare.

La stessa asserzione proveniente dagli Stati Uniti tendente a giustificare la necessità di un proprio disimpegno dal Medioriente per focalizzarsi maggiormente sull’area pacifica, in particolare a fronte del raggiungimento di una sostanziale autosufficienza energetica in Patria (il cui eventuale surplus sta in tutti modi cercando la strada dell’Europa, come la Germania e la Russia sanno bene), in parte collide con le recenti dichiarazioni del governo giapponese il quale paventava la possibile totale assenza di portaerei americane nell’Estremo Oriente, notoriamente permeato da tensioni regionali, nel corso del 2015 per un periodo di circa quattro mesi, una vacanza in parte dovuta a problemi legati ad un bilancio federale che ha recentemente visto la propria coperta finanziaria diventare troppo corta nel settore della Difesa.

A dimostrazione della necessità di un sempre maggior impegno dei partner americani a livello militare, in particolare a fronte di un’America che deve fare i conti con i propri problemi interni, ha recentemente suscitato l’attenzione dei media la notizia che il Regno Unito, dopo quasi cinquant’anni dal proprio “ritiro” ad “Est di Suez”, abbia annunciato la riapertura di una base navale nel Bahrein, il piccolo stato mediorientale nel quale, guarda caso, la politica attendista delle forze americane (ricordiamo che il Bahrein è sede della V flotta USA) nel corso delle manifestazioni occorse in seno alla cosiddetta “Primavera araba” ha spinto l’Arabia Saudita e i Paesi del Golfo, nonché altri alleati internazionali, ad iniziare a prendere in mano le redini della situazione regionale.

La realizzazione della base navale britannica, finalizzata a proteggere gli interessi  e i cittadini di Sua Maestà nel Golfo ed in grado di ospitare le nuove portaerei in dotazione alla Royal Navy, verrà quasi interamente finanziata dalla locale casa regnante sunnita, a lungo pressata dalla turbolenta maggioranza sciita che costituisce la parte preponderante della popolazione di questo piccolo ma ricchissimo regno. Tale mossa non deve essere particolarmente piaciuta all’Iran e ai suoi alleati, dato che l’annuncio della riapertura della base navale inglese ha scatenato tutta una serie di proteste nel Paese inscenate dalla parte più politicizzata dalla componente sciita. Ciò che infatti sottende tale mossa geopolitica, come in parte dichiarato dallo stesso ministro degli esteri britannico Hammond, è che la Gran Bretagna e la Francia intendano assumere un ruolo di maggior rilievo nella sicurezza del Medioriente, nei fatti nel tentativo di incominciare a coprire i vuoti lasciati dagli Stati Uniti che tanto danno hanno causato alla regione.

La stessa Francia, la quale ha recentemente riaffermato la sua supremazia nella cosiddetta Françafrique messa in discussione dalla Cina, già da tempo sta percorrendo in lungo ed in largo il Golfo Persico per cercare di guadagnarsi l’appoggio economico delle ricche monarchie del Golfo e, oltre ad aver già aperto una base militare congiunta negli Emirati Arabi Uniti nel 2009, sta facendo affari d’oro con l’Arabia Saudita in campo militare, ad esempio in scenari quali il Libano (presso il quale lo stesso Regno Unito, posto all’inseguimento di Parigi, ha fornito al governo un sistema di torri di difesa in funzione anti-ISIS da porre sul confine siriano). Da questo punto di vista il Regno Unito ha sicuramente interpretato la mossa francese come una sorta di prevaricazione a cui far seguire una “risposta”, rispetto una regione presso la quale Londra ritiene di avere dei diritti di “primogenitura”, pur sapendo quanto sia necessario scendere a patti con la Francia per gestire il clima di instabilità che permea ormai vaste aree globali, spesso di importanza strategica sia dal punto di vista economico che energetico per entrambi i Paesi europei.

La riapertura della base navale nel Bahrein, oltreché riaffermare il nuovo impegno britannico nella regione (accompagnato da una maggiore presenza militare in Iraq con l’invio di centinaia  di uomini e decine di mezzi in seno al programma di addestramento delle forze irachene), potrebbe costituire una nuova testa di ponte per esperienze analoghe a livello planetario, suggerendo già la possibilità di ripristinare basi permanenti in Paesi quali la Nigeria e l’Egitto (Paese soggetto all’interessamento moscovita presso il quale gli Americani hanno dovuto accettare il nuovo corso voluto dall’Arabia Saudita ed alleati, parzialmente riaprendo il rubinetto degli aiuti militari) e potenziare insediamenti militari tutt’ora esistenti come quello presso il sultanato del Brunei.

In particolare riaffermare una propria presenza stabile nel Pacifico potrebbe rappresentare un fatto di natura vitale per la politica estera e per il commercio britannico, soprattutto in considerazione delle difficoltà incontrate nei rapporti con la Cina che si sono recentemente confermate nei fatti relativi ai disordini di Hong Kong.

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