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La Russia in epoca post-sovietica: limiti e prospettive della transizione politica

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La caduta dell’Unione Sovietica nel 1991 ha segnato uno snodo fondamentale per la storia della Russia, che nell’arco di pochissimi anni ha dovuto far fronte ad una triplice transizione, economica, politica e valoriale, che ha segnato in modo tragico il primo decennio di vita della Russia post-sovietica. Nei primi anni Duemila, la nuova leadership russa, guidata da Vladimir Putin, ha provato a ricostruire un nuovo patto sociale, sulla base di una maggiore attenzione alle esigenze della popolazione e di un maggiore accentramento del potere decisionale. Ciononostante, la transizione politica ed economica Russa non può dirsi conclusa ed anzi molti autori hanno segnalato come in entrambe le dimensioni Mosca sia arretrata nell’ultimo decennio, assumendo caratteri spiccatamente autoritari.

Gli anni Novanta: il decennio perduto

Nel settembre 2021 l’Istituto Levada Center, uno dei centri di ricerca russi indipendenti più autorevoli, ha condotto un’indagine dedicata al tema “Democrazia, Socialismo e Riforme economiche”, chiedendo agli intervistati se si considerassero e in che misura democratici, socialisti e favorevoli alle riforme economiche di stampo liberale. Dai risultati della ricerca, in modo forse non imprevedibile, è emersa chiaramente una disaffezione verso la democrazia liberale e il percorso riformista avviato negli anni Novanta. In particolare, solo il 44% degli intervistati si è definito di valori democratici, con sensibili differenze in base alla distribuzione per età della popolazione, il 50% dei giovani (18-24 anni) si è infatti definito di orientamento democratico, a fronte del 41% della popolazione over 55. Passando alla seconda sezione del sondaggio, dove è stato chiesto agli intervistati se si ritenessero persone di orientamento socialista, solo il 18% della popolazione intervistata si è definita tale, ancora una volta con differenza piuttosto chiara nella distribuzione per età dei pareri: solo l’11% degli under 24 si sono definiti socialisti o “di sinistra”, a fronte di un 24% registrato nella popolazione over 55. Guardando all’ultima serie di quesiti, quella dedicata alle riforme economiche, solo il 32% degli intervistati si definisce favorevole alle riforme dell’economia russa, con un picco del 39% nella fascia 18-24 anni e un minimo del 29% nella fascia over 55. 

I dati riportati in precedenza, per quanto sintetici e ovviamente suscettibili di errori statistici, mostrano un quadro piuttosto chiaro: se il socialismo e in generale politiche progressiste non sembrano essere proposte convincenti per l’opinione pubblica russa, la democrazia liberale e le riforme di mercato sono viste con cautela dalla popolazione, che sembra non riconoscersi nel modello occidentale di democrazia. Tali dati non devono però stupire l’osservtaore, soprattutto sulla base della tragica esperienza degli anni Novanta, durante i quali, la transizione dal socialismo alla democrazia è stata pagata duramente della popolazione. 

Nel primo decennio di vita della Russia post-sovietica, il paese ha infatti attraversato una complessa fase di transizione che ha riguardato tanto le istituzioni politiche quanto quelle economiche, in un contesto di contemporanea dissoluzione di una grande narrazione che potesse sostituire il marxismo-leninismo come elemento unificatore della nazione. La Russia attraversò quindi una triplice transizione (politica, economica e valoriale) che portò il paese sull’orlo del collasso, le cui conseguenze si vedono ancora oggi nell’opinione pubblica. Nel corso del decennio, la presidenza Eltsin gestì questa complessa fase di passaggio dando la precedenza alle riforme economiche, che furono avviate già dal 1992, lasciando indietro le riforme politiche che si consolidarono solo alla fine del 1993, quando fu approvata mediante referendum la nuova costituzione russa, passando per i tragici eventi del bombardamento della Casa Bianca di Mosca. Il varo della nuova costituzione, che diede un’architettura presidenziale al sistema istituzionale russo, non portò però alla stabilità, in virtù delle gravi conseguenze sociali delle riforme economiche. Le elezioni del 1995 segnarono un nuovo momento di crisi, con l’affermazione del Partito Comunista della Federazione Russa e del Partito Liberal Democratico (in realtà ultranazionalista), aggravato dalla conclusione della prima guerra cecena nello stesso anno. L’anno successivo, Boris Eltsin riuscì a riconfermarsi al Cremlino grazie al sostegno di quelli che saranno poi definiti gli oligarchi, che negli anni precedenti avevano preso possesso delle principali aziende di stato sovietiche, rendendo evidente la debolezza della Presidenza rispetto agli altri attori istituzionali e no coinvolti nella gestione dello Stato. Negli ultimi della leadership di Eltsin, la crisi economica del 1998 obbligò il governo a dichiarare default parziale sul debito e l’anno successivo, sulla scia della crisi kosovara e delle drammatiche conseguenze del default, la Duma di Stato votò la messa in stato di accusa del leader del Cremlino, che pur riuscendo a superare il voto, il 31 dicembre 1999, rassegnò le dimissioni nominando come Presidente ad interim il suo Primo Ministro Vladimir Putin. 

Gli anni Novanta sono oggi ricordati come uno dei momenti più drammatici della storia russa recente. Inflazione, disoccupazione, criminalità e fragilità istituzionale divennero i trattati caratterizzanti questo periodo, accompagnati da un significativo calo delle condizioni di vita della popolazione, non solo in termini economici, ma anche sanitari e personali, si pensi che nel 1990 l’aspettativa di vita alla nascita era di 69 anni, mentre nel 1995 di 65, per arrivare al 2000 con 66 anni quando in Italia si superavano i 79.  

L’avvento di Vladimir Putin e la nuova visione della Russia

Al momento della sua ascesa al Cremlino, Vladimir Putin era una figura pressoché sconosciuta ai più, con un passato nel KGB e una rapida carriera civile tra le fila del gruppo dirigente del sindaco di San Pietroburgo Anatolij Sobčak. Fin da principio Putin agì perseguendo tre obiettivi primari sul fronte politico interno: ricostruire la coesione nazionale, gestire l’andamento economico e rafforzare la centralità di Mosca nei rapporti interni alla Federazione. Rispetto al primo obiettivo, questo fu portato avanti attraverso la pacificazione forzata della Cecenia e del Caucaso settentrionale, che rappresentavano la più grande sfida all’unità del paese. Ulteriormente, Putin fece del sostegno della Chiesa Ortodossa un punto centrale della propria politica, ricostituendo di fatto una nuova sinfonia tra “il trono e l’altare”, ricucendo anche lo strappo con la Chiesa Russa all’estero, ovvero la Chiesa ricostituitasi all’estero all’indomani della rivoluzione di ottobre. Il nazionalismo divenne quindi un elemento centrale della narrazione del Cremlino, sebbene esso non abbia mai assunto caratteri spiccatamente xenofobi o etnici, preferendo invece una visione civica della nazione russa. Sul fronte economico, il nuovo leader varò una politica tendenzialmente conservatrice, volta a proteggere lo Stato dai contraccolpi economici delle riforme del decennio precedente, che non furono cancellate ma rimodulate, sfruttando i proventi derivanti dall’esportazione di petrolio e gas naturale i cui prezzi in crescita alimentarono la ripresa russa nei primi anni Duemila. Il Cremlino ha quindi applicato una politica fortemente protezionistica, creando non solo “campioni nazionali” nei settori strategici ma anche limitando l’esposizione del paese sul mercato del debito e dei capitali, consolidando una riserva strategica in valuta pregiata, oro e materie prime funzionale a resistere ad ogni tempesta economica. La lotta agli oligarchi dei primi anni Duemila è stata quindi un corollario naturale di tale approccio, con l’obiettivo di riportare sotto il controllo pubblico le principali aziende del settore estrattivo e degli armamenti, sebbene tali iniziative non abbiano intaccato la struttura oligarchica del capitalismo russo che è stato piegato alle esigenze dello Stato. L’ultimo obiettivo, la centralizzazione del potere decisionale e la normalizzazione dei rapporti interni alla Federazione, è stato perseguito, in una prima fase, eliminando l’elezione diretta dei governatori regionali e consolidando anche a livello locale il ruolo del partito del potere, Russia Unita. Ulteriormente, il Cremlino ha proceduto limitando le competenze delle autorità regionali, soprattutto nelle aree politicamente più sensibili come l’ordine pubblico e la gestione delle aziende partecipate dallo Stato. 

La centralizzazione del potere a Mosca e la normalizzazione dei rapporti interfederali sono stati accompagni dalla stabilizzazione del rapporto tra il Cremlino e la Duma di Stato, mediante l’organizzazione di un vero e proprio partito del potere, funzionale a mantenere la coerenza dell’azione di governo nel parlamento e nelle periferie della Federazione. L’affermazione della “verticale del potere”, ovvero di un modello organizzativo della Stato incentrato su una rete di relazioni formali e informali funzionali al perseguimento degli obiettivi dell’azione di governo, è stato l’elemento fondamentale dei primi due mandati di Vladimir Putin, ponendo le così le basi per la costituzione della “Democrazia sovrana” russa come alternativa alla democrazia liberale tentata negli anni Novanta. Su queste basi il Cremlino ha quindi costruito il proprio consenso e un vero e proprio nuovo patto sociale al fine di offrire stabilità sociale ed economica in cambio dell’accettazione di un regime neo-patrimoniale incentrato su una élite che amministra la cosa pubblica in virtù di regole informali innestate sulle procedure legali. 

I nodi ancora aperti

Per quanto il regime di Vladimir Putin possa apparire solido e monolitico esso è in realtà il frutto di un fragile equilibrio tra i diversi gruppi di pressione che agiscono sulla Presidenza, che si dice siano tanti quanti le torri del Cremlino. Tali gruppi non sono però realtà unitarie e spesso fazioni minori agiscono in competizione tra loro portando alla defenestrazione di figure eminenti e apparentemente solide dell’élite russa. Inoltre, dopo 20 anni di Presidenza, Vladimir Putin è un leader “vecchio”, in parte anagraficamente ma anche e soprattutto politicamente. La nascita di movimenti di opposizione come quello guidato da Alexey Navalny segnala il bisogno, almeno delle fasce più giovani della popolazione, di un cambiamento, che ancora non riesce ad esprimere un leader o un’alternativa all’attuale presidente ma che percepisce una disaffezione verso l’attuale leadership. 

La Russia attuale potrebbe quindi apparire come l’Unione Sovietica della seconda metà degli anni Settanta, quando il relativo benessere degli anni di Brezhnev nascondeva la stagnazione politica ed economica che avrebbe poi portato al collasso dell’URSS. Di conseguenza dall’inizio del 2020, quando furono annunciate le riforme che consentirebbero a Vladimir Putin di restare alla testa del paese fino al 2036, il confronto tra gli osservatori e tra le stesse forze politiche interne alla Russia si è spostato verso la successione dell’attuale leadership. La successione è infatti oggi un tema ricorrente al quale però gli osservatori non sanno dare risposta: se una nuova figura non è stata ancora annunciata, nessuno degli attuali componenti della sua élite appare sufficientemente forte da prendere l’eredità di Vladimir Putin. Attualmente, la soluzione più probabile appare una soluzione “alla kazaka”, con un arrocco del leader a favore di un successore “tecnico”, una strategia che consentirebbe a Putin di rimanere influente nella politica russa, senza però avere incarichi di governo e conservando il ruolo di “padre della patria”. 

Indipendentemente dall’esito della successione, appare evidente che il sistema putiniano potrebbe sopravvivere al suo creatore, divenendo un modello di gestione del potere indipendente dalla figura che si insedierà al Cremlino.

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