La visita alla Santa Sede del Vice Presidente di Taiwan, Chen Chien-Jen, e la centralità di Taiwan nei delicati negoziati sulle libertà religiose in Cina.
Da tre decenni ormai si gioca una estenuante partita a scacchi tra il Vaticano e Pechino, un confronto e uno scambio in cui si alternano aperture e bruschi dinieghi, ottimistiche aspettative e “docce gelate” (la incessante repressione di Vescovi, Sacerdoti e credenti “fedeli” al Papa e le nuove norme, ancor più restrittive delle precedenti, varate dalla Conferenza statale sulle religioni tenutasi, dopo 15 anni, lo scorso aprile a Pechino), nonché sgarbi diplomatici (ad esempio l’aver ignorato il telegramma di saluto inviato dal Papa al Presidente Xi – una formalità che avviene con tutti i Capi di Stato dei paesi sorvolati dall’aereo del Pontefice – durante un suo viaggio in Asia.
Il mondo intero guarda con attenzione al delicato rapporto tra la Santa Sede e la Repubblica Popolare Cinese e Papa Francesco, come i suoi predecessori, non ha mai nascosto il desiderio della Chiesa Cattolica di aprire nuovi canali comunicativi con la Cina per dare spazio e respiro ai 10 milioni di cattolici cinesi.
Gli Stati Uniti stanno monitorando i colloqui tra Pechino e il Vaticano molto attentamente. Il nucleo centrale della politica estera di Obama, il Pivot to Asia, potrebbe essere influenzato dalla costruzione di inediti rapporti tra Cina e Santa Sede. Ma è soprattutto a Taipei che tali colloqui vengono seguiti con particolare sensibilità per gli ipotizzati sbocchi all’orizzonte, peraltro ancora vago e incerto.
La stabilità delle relazioni tra Taiwan e il Vaticano non sembra essere in discussione e la visita, da domani, del Vice Presidente Chen Chien-jen, in occasione della cerimonia per la Canonizzazione di Madre Teresa di Calcutta, ne è l’ultima conferma. Il Presidente Tsai Ing-wen, insediata in Maggio alla guida di Taiwan, ha tra l’altro più volte invocato la necessità del dialogo per ricercare un consenso sino-taiwanese sui molti temi che interessano e coinvolgono le “due sponde dello Stretto di Taiwan”, inclusa la delicata questione dei rapporti tra Cina e Vaticano.
Su questa linea, l’evidente peculiarità delle relazioni internazionali della Santa Sede è stata sottolineata, alla vigilia della partenza per Roma del Vice Presidente Chen, dal Vice Ministro degli Esteri di Taipei, Wu Chih-chung: “Il Vaticano non è uno Stato come gli altri e non pone i propri interessi nazionali sopra ogni cosa. Anzi, lavora incessantemente per la libertà religiosa e la promozione della fede cristiana”.
La stessa scelta della nomina a Vice Presidente di Chen Chien-jen è emblematica dell’importanza che il Presidente Tsai attribuisce alle relazioni tra Taiwan e la Santa Sede. Chen, infatti, è un cattolico praticante in un paese dove il cattolicesimo è seguito appena dal due per cento della popolazione ma, soprattutto, è ben conosciuto in Vaticano. Egli ha ricevuto nel 2010 l’Ordine di San Gregorio Magno e, nel 2013, l’Ordine del Santo Sepolcro di Gerusalemme ed è un esponente molto attivo e stimato della comunità cattolica taiwanese che, pur piccola, conta una decina di Vescovi ed è molto attiva nel campo educativo e sanitario. La sua capacità di dialogare con la Santa Sede sembra essere uno dei punti di forza della nuova politica estera taiwanese. Amico e collaboratore di lunga data di Tsai Ing-wen non ha mai fatto politica attiva in senso partitico, pur avendo già ricoperto ruoli importanti in precedenti Governi, e infatti non è mai stato iscritto al Democratic Progressive Party (DPP) vincitore delle ultime elezioni presidenziali e parlamentari. Tutti questi fattori, unitamente anche alla rilevante cooperazione di Taipei con molti paesi cattolici dell’America Latina – cooperazione che coinvolge spesso le strutture di solidarietá sociale e sanitaria promosse dalle Chiese locali, che Tsai e Chen hanno visitato nei viaggi delle scorse settimane a Panama, Paraguay e Repubblica Dominicana- hanno certamente contribuito alla sua scelta nel ticket che poi ha vinto le elezioni.
Il confronto tra il Vaticano e Pechino si presenta, dunque, assai complesso come testimoniano i decenni di inconcludenti negoziati, dall’epoca del Cardinale Casaroli ad oggi. Va ricordato che la Santa Sede ha sempre dichiarato di non voler stabilire relazioni diplomatiche con paesi che non consentono la libertà di espressione religiosa e questo, insieme alle modalità di consacrazione dei Vescovi (la Cina proibisce per legge le nomine di “funzionari” cinesi emanate da autorità straniere), è il punto centrale della difficile trattativa.
Anche in altri paesi la questione della nomina dei Vescovi ha sollevato notevoli problemi ma non sono mancati i casi in cui la controversia è stata pragmaticamente superata (come avviene da anni in Vietnam pur nella assenza di rapporti diplomatici con la Santa Sede) attraverso colloqui che portano a una scelta di Vescovi condivisa da entrambe le parti.
La situazione in Cina, invece, è molto più complicata: ci sono ancora Vescovi e numerosi religiosi, fedeli al Papa e alla Chiesa di Roma, agli arresti in carcere, ai domiciliari o addirittura spariti, e una lunga sequela di Vescovi “ordinati” dall’Associazione patriottica – organismo sottoposto al ferreo controllo della Agenzia statale per gli affari religiosi – in assenza del mandato della Sede Apostolica. Questi Vescovi “patriottici”, tra l’altro, non godono del rispetto e della stima della popolazione cattolica.
Nella sua bimillenaria storia la diplomazia vaticana è riuscita a superare ostacoli di ogni genere, nei più diversi scenari geopolitici, attraverso lunghe concertazioni e trattative. Il punto più delicato della attuale contesa tra la Santa Sede e Pechino, oltre le pur rilevanti ma superabili questioni formalistiche e diplomatiche, risiede nella libertà di espressione del clero e dei fedeli cattolici.
Con la loro mentalità marxista-leninista, e con il sempre vivo e preoccupante ricordo delle conseguenze del “combinato-disposto” Papa Giovanni Paolo II-Gorbaciov che, insieme a Reagan, portò alla fine del comunismo sovietico e dei suoi satelliti, nonchè con la memoria della tragedia di Tien An Men, la nomenclatura cinese considera la libertà religiosa – tra le molte altre libertà tuttora strettamente proibite – un vero e proprio pericolo per la stabilità politica del regime.
Inoltre, un eventuale accordo tra le due parti dovrà anche occuparsi della “Chiesa di regime” che Pechino ha costruito negli anni. Già Papa Benedetto XVI aveva definito la struttura ecclesiastica parallela, organizzata dal governo cinese, come “inconciliabile con la dottrina cattolica”. Essa però, ramificata in tutto il paese, rappresenta un centro di potere che, nonostante la sua consistenza marginale nell’immenso “oceano” cinese, si oppone alle ipotizzate aperture nel timore di perdere, come sarà inevitabile, ruolo, potere e privilegi.
Un segnale interessante e inedito, infine, che conferma la centralità di Taiwan nel triangolo religioso-politico tra Pechino e la Santa Sede, è confermata dall’assenza di proteste cinesi in occasione della visita del Vice Presidente taiwanese. In passato ogni evento analogo tra Taipei e Vaticano era stato accompagnato dalle rimostranze di Pechino
È forse anche questo un segno che le relazioni del Vaticano con Taiwan non appaiono come un problema, anzi vi è la possibilità che i negoziati tra Cina e il Vaticano possano rivelarsi, con le parole del Vice Ministro degli Esteri Wu Chih-chung, una “win-win situation” sia per Taipei sia per Pechino.