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Quale sarà il ruolo internazionale degli Stati Uniti? Dialogo con Alessandro Colombo

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Gli Stati Uniti rappresentano ancora una “nazione indispensabile”? Nel suo discorso ai cadetti dell’accademia militare di West Point, Barack Obama ha parlato di due approcci che si scontrano sulle principali crisi internazionali in corso, la Siria e l’Ucraina. Se i realisti non credono che i loro effetti negativi si riverberino direttamente sugli americani, tanto da non far contemplare l’ipotesi di un’escalation militare, gli interventisti di destra e di sinistra denunciano come Washington le stia ignorando a suo rischio e pericolo. Secondo il presidente, invece, seppur l’isolazionismo non rappresenti un’opzione sul tavolo, non tutti i problemi richiedono una soluzione militare, né questa può costituire l’unico metro di misura della leadership americana nel mondo. Il ricorso alla forza è ritenuto plausibile dall’Amministrazione Obama solo nel caso in cui venga messo in discussione l’interesse nazionale, giustificando in questo caso anche politiche unilaterali. In assenza di una minaccia concreta agli interessi americani, viceversa, la soluzione militare dovrebbe essere legata ad una soglia di accesso più alta e prendere inderogabilmente forma in un contesto multilaterale, mentre nella fase precedente si dovrebbero prevedere una serie azioni collettive fondate sulla rinnovata mobilitazione degli alleati (pressioni diplomatiche, piani per lo sviluppo, sanzioni economiche, applicazione del diritto internazionale, isolamento politico).

Il presidente, dunque, ha provato a fornire una risposta nuova a una domanda ricorrente dalla fine della Guerra fredda. Pur senza assumere una posizione netta rispetto alle principali tendenze tra cui tradizionalmente oscilla la politica estera americana – l’isolazionismo e l’interventismo – ha prestato il fianco alle critiche di quanti sospettano che, dietro la declamazione di proposizioni teoriche generali trasversalmente condivisibili, si celi la volontà di circoscrivere il raggio degli impegni degli Stati Uniti. Per avere una chiave di lettura coerente e originale sulla parabola della politica estera americana, la redazione di Geopolitica.info ha incontrato il Prof. Alessandro Colombo, ordinario di Relazioni internazionali all’Università Statale di Milano.

Prof. Colombo, l’eventualità di una riduzione della proiezione internazionale degli Stati Uniti rappresenterebbe una posizione così eccentrica da far ipotizzare un declino della leadership conquistata con la sconfitta dell’Unione Sovietica o – senza evocare l’ormai lontana dottrina Monroe – trova precedenti anche in passaggi storici recenti, tanto da ridimensionarne la portata effettiva?

In effetti è possibile indicare almeno tre momenti nell’ultimo secolo in cui la cosiddetta “riluttanza” ha preso forma, assecondando una tendenza sempre presente tra i cittadini statunitensi: 1) al termine della Grande guerra, quando Washington preferì non invischiarsi nel gioco delle potenze europee; 2) dopo la Seconda guerra mondiale, quando solo a causa delle ferree logiche dell’emergente sistema bipolare la presidenza Truman scelse la via dell’impegno internazionale, nonostante le pressioni in senso contrario dell’opinione pubblica e di buona parte della classe politica; 3) alla conclusione della Guerra fredda, quando durante le presidenze Bush sr. e Clinton si parlava – sia nel mondo politico, che in quello accademico – della necessità di “incassare i dividendi della pace”, che altro non significava se non la volontà di ricollocare le risorse dei tax payers americani spese all’estero per soddisfare i bisogni crescenti all’interno dei confini nazionali. In questa fase, più rilevante ai fini del nostro ragionamento sulle scelte odierne di Washington, Bill Clinton sconfisse George H.W. Bush alle elezioni del novembre 1992 ribaltando, dal punto di vista teorico, la nomizzazione della guerra in Iraq. La sua risposta all’operazione desert storm condotta dall’antagonista nel 1991 fu la promessa di un domestic storm volto a risolvere anzitutto i problemi nazionali. Allo stesso modo George Bush jr. vinse le presidenziali del 2000 al termine di una campagna caratterizzata dalla promessa di una rinnovata attenzione per la sfera domestica, denunciando come il Paese avesse passato gli anni Novanta alle prese con le crisi esplose in Europa a causa del crollo dei regimi comunisti.

La tendenza alla “riluttanza” – che appare ricorrente anche nei discorsi di Obama – sembra essere compensata, tuttavia, dalla percezione della necessità dell’impegno internazionale americano.

Anche in questo caso nessuna novità. La politica estera americana, a differenza di quanto accade in Europa, ha sempre associato la riluttanza a uno spiccato senso di missione. Se gli europei parlano di obiettivi e interesse nazionale, gli americani parlano della missione che sono chiamati a svolgere nel mondo. Tale impostazione deriva da un’insoddisfazione politica originaria, espressa già dai padri fondatori e poi ripresa da Woodrow Wilson e da Franklin Delano Roosevelt, per cui gli Stati Uniti si presentano come una potenza estranea alle regole della politica internazionale classica. Il termine “nuovo mondo”, d’altronde, non può essere circoscritto alla sua accezione geografica, ma sta a indicare anche un luogo dove la gestione del potere può realizzarsi sotto forme “nuove”. In tal senso si può affermare che la politica americana presenta uno spiccato potenziale “rivoluzionario” – al punto che dopo il 1918 trovò numerosi punti di contatto con la visione di Lenin e Lev Trockij – tanto da scontrarsi con i principi giuridici e la logica di potenza della politica internazionale europea. In questa prospettiva i neoconservatori sostenevano – e sostengono tuttora – che già all’indomani del crollo dell’Urss fosse arrivato il momento di abbattere il vecchio sistema internazionale, popolato da Stati che ne guidano le dinamiche all’interno dei confini opachi della realpolitik. Dopo la fine della Guerra fredda la vocazione “rivoluzionaria” statunitense ha conosciuto una spinta propulsiva, traducendosi in una ricerca di cambiamento più profondo rispetto ai semplici assetti di potere. Su questo percorso il primo passo da compiere è stato individuato nel tentativo di disfarsi dell’architettura politico-giuridica westfaliana per sostituirle una comunità internazionale più virtuosa, dove l’architrave della sovranità sarebbe stata rimpiazzata con quella dell’ingerenza. Alla trasformazione dei rapporti tra gli Stati, sarebbe dovuta corrispondere la concomitante trasformazione degli Stati stessi, in quanto l’ordine internazionale veniva fatto dipendere dall’ordine interno – democratico – delle unità del sistema internazionale. Questa è stata la fonte d’ispirazione della politica estera americana almeno dal 1992 al 2006, che però ha subito una dura battuta d’arresto con l’impasse politico-militare nei teatri afgano e iracheno.

L’arrivo alla Casa Bianca di Obama è stato caratterizzato dalla continuità o dalla discontinuità rispetto a questa tradizione politica?

Il successore di Bush jr. è rimasto sul crinale. Per arrivare alla presidenza aveva assecondato le tendenze “isolazioniste” dell’opinione pubblica (smantellare politica estera di Bush e porre fine alla saga della guerra al terrore). È stato eletto, infatti, anche per svolgere il compito di “curatore testamentario” della politica estera americana degli anni Duemila, come confermato dalla National Security Strategy del 2010 dove viene tracciato un bilancio conclusivo e fallimentare del decennio precedente. Non appena eletto, tuttavia, si è visto costretto a confermare lo status dell’America di “Paese in guerra”, salvo poi aggiungere che non si trattava della guerra globale al terrore combattuta dal suo predecessore. Questa, infatti, era fondata su due concetti politicamente evanescenti come il terrore (che ha fatto confondere l’Iraq con Al Qaeda) e il terrorismo (che è un metodo di lotta e non un soggetto politico), mentre il nuovo presidente ha chiarito che la guerra realmente in corso era contro un attore ben definito come Al Qaeda. Grazie anche alla scomparsa di scena di Osama Bin Laden, peraltro, questa non avrebbe costituito né l’unico, né il più importante capitolo della politica estera americana. Ciò nonostante l’Amministrazione Obama non è riuscita a elaborare il nuovo paradigma orientativo per la politica estera americana. Pur riconoscendo la crisi in atto, infatti, non ha elaborato una soluzione da perseguire coerentemente e si è mostrato incerto sia sull’edificazione di un nuovo impianto politico generale, che sulle singole questioni contingenti. Le conferme più preoccupanti di questo tentennamento sono arrivate dalla marginalità americana nelle primavere arabe, dall’indecisione sul comportamento da tenere in Siria e Ucraina e dall’assenza di un criterio saldo cui ispirarsi nei rapporti con la Russia.

La prolungata assenza di una grand strategy, ossia di una cornice all’interno della quale prendere le decisioni sulle singole issue internazionali, sta alimentando un dibattito sulle scelte future di Washington?

La definizione dell’architettura della politica estera di un Paese implica la riflessione su alcune domande: Che cosa fare? Con quale raggio d’azione? Con quali mezzi? Il minimo comun denominatore tra quanti partecipano al dibattito è la volontà di preservare la leadership globale, che passa per il ribadimento del primato americano sia nella dimensione dell’hard power che in quella del soft power. Anche nel discorso di West Point, nonostante sia emerso un certo “panico cognitivo”, è apparsa chiara la volontà di preservare il ruolo degli Stati Uniti nel mondo. In tale prospettiva una superpotenza deve cercare di controllare il suo ambiente esterno, modellando il sistema internazionale. Washington, da un lato, deve continuare a sostenere un’economia mondiale libera e aperta (già nel XIX la politica estera americana era orientata dal principio della “porta aperta”), dall’altro deve evitare che emerga un peer competitor che prenda il posto occupato dall’Urss durante la Guerra fredda. O meglio, vista la progressiva “regionalizzazione” del sistema internazionale, deve scongiurare l’affermazione di grandi potenze ostili in alcune aree regionali vitali per gli interessi americani, replicando così su scala globale la strategia della Gran Bretagna in Europa tra il XIX secolo e l’inizio del XX. Gli Stati Uniti agiscono in un mondo profondamento post-novecentesco, le cui crisi sono penetrate dall’esterno solo dagli attori regionali, mentre le altre grandi potenze restano al di fuori dei giochi. Basti pensare all’assenza di un qualsiasi ruolo di Cina, India o Brasile nelle crisi in Siria, Iraq o Ucraina.

Fin qui i punti di contatto, ma quali sono le differenze tra le prospettive concorrenti?

Le differenze iniziano, anzitutto, con la definizione delle aree di interesse prioritario, che rappresentato una delle più evidenti linee di discontinuità tra i presidenti che si sono succeduti dagli anni Novanta ad oggi. L’America di Clinton ha continuato a concentrare la sua attenzione sull’Europa, che, dopo essere stata il perno della Guerra fredda, stava conoscendo sul suo territorio le più gravi crisi di assestamento legate alla trasformazione sistemica. L’America di Bush già prima dell’11/9, avendo compreso che la fase in cui l’Europa aveva costituito il baricentro della politica estera americana si era esaurita, spostò gli interessi strategici americani in un’area ricompresa tra il Medio Oriente e l’Asia-Pacifico. Obama, dal canto suo, ha disatteso la speranza degli europei che Washington sarebbe tornata ad occuparsi del “vecchio continente” (per cui gli era stato assegnato il premio Nobel “preventivo” per la pace), sviluppando la sua politica estera – almeno in linea teorica – principalmente intorno al concetto del pivot to Asia.

E per quanto riguarda la strategia da seguire?

Esistono due principali alternative su cosa fare. La prima è quella del deep engagement, che lega la preservazione del primato americano alla scelta di Washington di continuare ad assumersi gli oneri della stabilità in tutte le regioni. Secondo tale impostazione per restare leader bisogna, sostanzialmente, esercitare la leadership (ossia, come ha detto Madeleine Albright, dimostrare agli altri Stati di essere una “nazione necessaria”). Continuare a essere “ingaggiati” per gli Stati Uniti significa, anzitutto, conservare sia il network dei rapporti coltivati sul campo, che le istituzioni internazionali costruite durante la seconda metà del Novecento e informate dai valori americani. In secondo luogo l’ingaggio aumenta la capacità negoziale americana, che assicura alla superpotenza il ruolo di mediatore – ma anche di arbitro – di ogni conflitto. La presenza, infine, impedisce agli alleati di commettere errori, in quanto Washington si assume responsabilità cui gli altri non saprebbero far fronte e svolge una funzione di deterrenza rispetto alle azioni dei nemici. L’alternativa è l’opzione del retrenchment o selective engagement, per cui la leadership può essere conservata solo impegnando forze nelle regioni core per gli interessi americani. L’ingaggio “selettivo” serve non solo ad evitare le disfunzioni provocate dall’insostenibilità economica, diplomatica e militare del deep engagement, ma anche a migliorare il soft power degli Stati Uniti, la cui immagine in passato è stata danneggiata da una presenza eccessiva e non di rado confusa con l’arroganza. Questa soluzione, inoltre, evita il circolo vizioso dello “sfruttamento del forte da parte dei deboli”, in quanto impedisce agli alleati di esternalizzare la loro sicurezza alla superpotenza e a questa di trovarsi intrappolata in conflitti che non la interessano direttamente.

Rispetto a quanto detto, quale soluzione è stata adottata dall’Amministrazione Obama?

Nonostante siamo quasi al giro di boa del secondo mandato, Obama sembra ancora indeciso se propendere per il deep o per il selective engagement. Più definito, invece, è il modello cui si è ispirato nei rapporti con alleati e avversari. Con i primi sembra aver accantonato l’unilateralismo di Bush jr. per ritornare alle scelte multilaterali di Clinton, mentre con i secondi ha sviluppato la strategic reassurance, tentando di ricondurre i competitori strategici alla posizione di partner strategici e cercando di evitare che possibili interlocutori si trasformassero in veri e propri avversari. Tra le criticità emerse sinora occorre ricordare il cattivo funzionamento del disimpegno dall’Iraq e i peggioramenti nei rapporti con la Cina e la Russia nonostante la strategic reassurance (l’Iran costituirà un ultimo banco di prova sia per questa scelta, che per far raggiungere all’Amministrazione un risultato importante in otto anni insieme all’uccisione di Osama Bin Laden). Non si possono dimenticare, infine, due enormi problemi che stanno affiorando a causa del pivot to Asia: questa scelta da un lato è stata vissuta dagli alleati europei e medio-orientali come un vero e proprio abbandono, che ha innescato la lotta per l’egemonia regionale, dall’altro è stata avvertita dalla Cina come una politica ostile e in contraddizione con la strategic reassurance (per una dinamica uguale e contraria ogni volta che gli Stati Uniti rilanciano i rapporti con la Cina spaventano contestualmente i propri alleati).

Per concludere, quindi, gli Stati Uniti sono effettivamente una superpotenza in declino?

Se guardiamo alla distribuzione internazionale del potere non è possibile parlare di un collasso degli Stati Uniti (come avvenuto all’Urss negli anni Ottanta) e anche in relazione ad altre epoche – ad esempio gli anni Settanta – l’estensione della potenza americana non sembra indietreggiare in misura preoccupante. Il declino, tuttavia, prende forma nella diminuzione di disponibilità americana nell’impiego del proprio potere. L’egemonia, infatti, non ne richiede il semplice possesso, ma anche la volontà di utilizzarlo. Sotto la pressione di militari, opinione pubblica e commentatori, l’Amministrazione Obama pur restando conscia di detenere un grande potere sembra sospettare che il modo migliore per conservarlo sia quello non usarlo troppo. Si è così verificata la perdita di fiducia nella capacità di impiegare efficacemente l’hard power, che ha inciso negativamente anche sul soft power americano. Se Bush era convinto di riuscire a trasformare il potere in influenza, Obama sembra temere che il potere si possa trasformare in una trappola.

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