La storia del conflitto mozambicano è intrecciata a quella dei rapporti che questo pezzo d’Africa ha avuto con il Portogallo a partire dal 1498, allorquando vi giunse l’esploratore Vasco da Gama durante il suo viaggio verso l’India.
Da quel momento, tra i due paesi si stabilirono delle relazioni inizialmente commerciali, proseguite con l’insediamento di una forza militare lusitana nel 1692, alla quale seguì la proclamazione quale colonia portoghese nel 1752. Sotto la dittatura di Salazar il Portogallo, che considerava il Mozambico come una sua continuazione d’oltremare, venne iniziata, a partire dal 1926, una forte opera di colonizzazione.
Questo periodo fu caratterizzato da una situazione in cui nessun mozambicano poteva commerciare o fare affari autonomamente, dipendendo in toto dalla componente europea presente nel paese e dal rifiuto, da parte del governo di Lisbona, di avviare qualsiasi trattativa con i movimenti indipendentisti. A seguito di questo “blocco” si originò un lungo periodo di guerriglia con la popolazione locale, conclusosi solamente nel 1974, con il ritorno della democrazia in Portogallo e la firma, nello stesso anno, di un accordo per l’indipendenza che sarà proclamata il 25.6.1975.
Ma con la libertà e l’autonomia per i mozambicani non sarebbe arrivata la pace, essendo divampata, subito dopo, una sanguinosa guerra civile, tutta interna per la gestione del paese, che avrebbe avuto termine solamente nel 1992, con la firma degli accordi di pace a Roma, nella sede della Comunità di Sant’Egidio.
Quest’ultima ha sempre avuto un legame profondo con l’Africa, fin dalla sua nascita e, quindi, non poteva non essere legato che ad un paese africano il primo e più importante suo successo diplomatico. In Mozambico, infatti, dopo l’indipendenza dal Portogallo, era scoppiato un conflitto tra il FRELIMO, Fronte di liberazione del Mozambico, partito d’ispirazione marxista al governo e la RENAMO, Resistenza nazionale mozambicana, movimento fondato come partito anti comunista dai servizi segreti dell’allora Rhodesia, talmente sanguinoso che, in sedici anni di durata, avrebbe provocato quasi un milione di morti.
All’inizio degli anni ottanta, perciò, l’interessamento e la solidarietà con il Mozambico rappresentava per SE, il modo con cui aiutare una parte di Africa abbandonata a se stessa, in preda ad uno scontro fratricida. Le trattative per riportare la pace in quel Paese martoriato, iniziarono attraverso l’opera di Monsignor Gonçalves, Arcivescovo di Beira la seconda città del paese, il quale nell’entrare in contatto con i responsabili di SE, chiese a loro di capire e far capire al mondo occidentale la tragedia che si stava compiendo nel suo Paese e la difficile situazione in cui viveva la sua Chiesa oppressa dal regime.
L’amicizia tra Don Gonçalves e SE nasce subito dopo l’indipendenza della colonia portoghese, quando, l’allora giovane Vescovo di Beira, sfrutta gli incontri sinodali ed i viaggi istituzionali a Roma per rappresentare la sofferenza di un popolo schiacciato tra guerra e carestia e le difficoltà vissute della chiesa mozambicana, identificata dal governo afro-marxista come un residuo dell’epoca coloniale.
In tale contesto di crisi economica, carestia e guerra civile dovuta all’adozione nella guida del paese, da parte del governo del FRELIMO, di un modello di sviluppo tipico del socialismo reale e dalla risposta ad esso con una politica “di terra bruciata” da parte della guerriglia della RENAMO, per poter rispondere all’appello dell’Arcivescovo di Beira e preliminarmente all’ipotizzare qualsiasi soluzione diplomatica alla crisi, SE si trovò a dover affrontare i principali ostacoli all’avvio delle trattative di pace, ossia da una parte l’assoluta necessità di portare aiuti umanitari ad una popolazione ridotta allo stremo e dall’altra a cercare di risolvere i difficili rapporti tra il governo mozambicano e la Chiesa, fino ad allora considerata nemica del popolo.
Per ovviare a ciò, SE decise di muoversi su due direttrici:
- la prima avviando una massiccia campagna di aiuti umanitari alla popolazione stremata da anni di guerra e dalla siccità, attuata mediante l’invio di tonnellate di aiuti alimentari distribuiti dalla Caritas locale, riuscendo così a creare relazioni ancor più amichevoli con le sfere governative;
- la seconda, anche grazie proprio a tale sforzo umanitario, utilizzando il rapporto privilegiato esistente tra il Partito Comunista Italiano, molto attivo nell’attività di cooperazione allo sviluppo in Mozambico, data la contiguità dell’ideologia di riferimento con il governo del paese africano;
I responsabili della Comunità quindi, dopo i primi contatti e visti i positivi riscontri ottenuti decisero, sfruttando al massimo le loro conoscenze nel P.C.I. ed i suoi ottimi rapporti con il FRELIMO, di andare oltre promuovendo un confronto fra il Governo e la Chiesa mozambicana, conclusosi con un significativo successo, grazie al quale, da quel momento, i rapporti tra quest’ultima ed il FRELIMO migliorarono significativamente.
Ormai la costruzione di uno Stato marxista, alienato dalla presenza delle religioni, non era più una priorità del governo, dal momento che la situazione del paese, in cui imperversava una fortissima crisi economica, era aggravata, quale conseguenza del conflitto in corso, dall’impossibilità di percorrere la maggior parte delle sue strade, in cui le capitali provinciali erano divenute delle isole in un territorio dall’incerto controllo e dove ci si poteva muovere solo utilizzando l’aereo.
Nello stallo determinatosi tra i contendenti, emergevano le vere ragioni del conflitto, ossia l’incapacità di evolversi del FRELIMO e di sapersi aprire al cambiamento, bloccato da paure e diffidenze ancestrali nei confronti dei “banditos” della guerriglia e dalla “psicologia del guerrigliero” della RENAMO, maturata in anni di guerra ed isolamento internazionale.
Nella primavera nel 1990 si verificò quindi, quasi congiuntamente, la convergenza su SE di due richieste: quella del governo mozambicano di organizzare un incontro segreto tra un suo esponente ed uno della Renamo e quella di R. Domingos, allora responsabile degli esteri di quest’ultima, che chiese ufficialmente a SE di ospitare le trattative tra la Renamo e governo, evidenziando come i due nemici avevano entrambi maturato stima per SE, seguendo percorsi diversi.
In quella che fu poi definita una divina coincidenza, si crearono le condizioni per avviare i negoziati di pace a Roma. A tale fine, assieme all’Arcivescovo Gonçalves e al rappresentante del governo italiano Raffaelli, Riccardi e Zuppi di SE inaugurarono, nel luglio del 1990, il tavolo negoziale nella sede della Comunità a Roma.
Al termine di questo primo incontro, che inizialmente era stato volutamente tenuto segreto, gli esponenti di entrambe le parti, ritennero che fosse giusto renderlo pubblico attraverso un documento comune, successivamente definito Comunicato Congiunto, lasciando stupiti tutti coloro i quali avevano dubitato sull’efficacia di tale iniziativa
La novità di questa proposta di pace romana, che fece subito scalpore, consisteva nel fatto di essere stata promossa, preparata e condotta non dagli apparati diplomatici di qualche stato o di qualche istituzione internazionale, ma da un soggetto, SE, attorno al quale si erano strette delle persone, non altrimenti definibili, come di buona volontà, alla stregua della Comunità stessa.
Quest’assenza d’interessi propri di natura politica, economica, militare da parte dei mediatori nel rapportarsi con i contendenti, questa, per così dire, leggerezza istituzionale, che all’inizio era sembrata una debolezza, rappresentò, viceversa, il vero segreto del successo diplomatico nella vicenda mozambicana, in quanto avrebbe conferito loro una grande libertà d’azione ed una credibilità diversa da quella degli stati e dei grandi poteri.
E’ utile ricordare, infatti, che la mediazione costò in oltre due anni di durata, solo 1,35 milioni di dollari U.S.A. (1 milione speso dal governo italiano e 350 mila da SE per l’ospitalità, i viaggi e le comunicazioni) e nessun mediatore ricevette alcun salario o gettone di presenza.
Le trattative mozambicane durarono ventisette mesi, con undici sessioni di lavoro e tra alti e bassi si riuscì ad instaurare tra le parti un clima realmente costruttivo che rafforzò fino all’irreversibilità, la scelta per la soluzione negoziale, alla quale vennero invitati anche, ad osservare e sostenere il processo mozambicano alcuni rappresentanti di governi occidentali e dell’area, oltre che un delegato delle Nazioni Unite.
Dopo mesi di estenuanti incontri e di paziente lavoro diplomatico. si poté arrivare, nel 1992, alla firma dell’accordo di pace, aprendo a sua volta le porte a libere elezioni, garantite da una forza multinazionale dell’ONU. L’Accordo generale di pace, firmato a SE il 4.10.1992, rimane ancora oggi uno dei pochi esempi di un conflitto concluso tramite colloqui di pace e la conciliazione mozambicana è diventata l’esempio di come una realtà non istituzionale, quale SE, possa portare a termine con successo una mediazione, in una sinergia di responsabilità tra entità governative e non.
La lezione del Mozambico ha rappresentato, dunque, uno spartiacque per quella che sarebbe stata la successiva storia diplomatica di SE, un punto fondamentale da quale non poter tornare più indietro, non solo per il modo d’interpretare la sua quotidianità, intesa come realtà di laici e religiosi dediti all’aiuto dei più deboli e dei più poveri, ma anche per il modo di concepire e dimostrare la solidarietà ai paesi meno ricchi. Per la prima volta in Mozambico e poi via via negli altri paesi, soprattutto africani, SE aveva cercato di affrontare e risolvere un conflitto, non solo attraverso la costruzione di pozzi ed ospedali e la fornitura di generi di prima necessità, ma anche attraverso un’opera di mediazione sistematica, finalizzata ad ottenere un risultato duraturo nel tempo.
Quanto fatto da SE in Mozambico ha certificato, dunque, la crescita della Comunità trasteverina, sdoganandone il passaggio da realtà locale dedita in ambito romano all’impegno in favore dei più bisognosi, a quello globale, quale brillante e richiesto operatore di pace.
Le tecniche adottate e sperimentate da SE nell’intervento mozambicano, nell’ottica dell’informalità, della segretezza, della pazienza, della costante ricerca del dialogo e del contatto umano tra le parti in conflitto, della sinergia di apporti e del “cercare ciò che unisce tralasciando ciò che divide”, hanno trovato quella codifica che le renderà, successivamente, uno degli aspetti più caratterizzanti con cui i gli honest brokers della Comunità igidina percorreranno la strada che li porterà ad affrontare ulteriori esperienze di risoluzione dei conflitti, originando quella che, all’epoca venne definita la “formula italiana” per la pace del cosiddetto “Metodo Sant’Egidio”.
In questa prospettiva, il messaggio che viene da questa storia è più attuale che mai, certificando che la pace è un fatto dinamico ed essa non può essere solo conservata, ma deve crescere, divenendo difesa dei Diritti Umani, sviluppo economico, stabilità della vita e delle istituzioni democratiche, sicurezza e Stato di diritto.
Oggi come ieri, in un mondo sempre più globalizzato ed interdipendente, la centralità dell’essere umano negli approcci di pace, così come la sua religiosità, è indispensabile, soprattutto per cercare “quello che unisce” e porre fine alle tante guerre e conflittualità che affliggono il nostro pianeta.