Il 9 marzo 2020 verrà a lungo ricordato come il lunedì nero del greggio, il cui prezzo è crollato del 20% dopo il mancato accordo tra Riyad e Mosca in sede OPEC+. Lo strappo tra Arabia Saudita e Russia riuscirà ad essere ricomposto dagli Stati Uniti?
Il meeting OPEC+
Le parti più rappresentative dell’OPEC+ – Arabia Saudita e Russia – non hanno raggiunto l’intesa al meeting del 6 marzo relativa al taglio dell’output di greggio, in un contesto già particolarmente provato dall’epidemia di COVID-19, che ha spinto ad un brusco calo della domanda mondiale di petrolio e ad un surplus giornaliero dai 4 ai 10 milioni di barili. L’Arabia Saudita si è accollata finora circa i 2/3 dei tagli alle produzioni imposte, mentre la Russia ha appena ritoccato la produzione. Dinnanzi alla richiesta di Riyad ai russi di limare maggiormente la loro produzione per rialzare i prezzi, Mosca ha rifiutato, convinta che un basso prezzo del greggio possa mettere fuori mercato i produttori di shale oil americano, non volendo però allo stesso tempo accollarsi una percentuale più elevata nei tagli.
L’escalation
Dietro al rifiuto russo di ridurre la produzione ci sono ovviamente ragioni economiche ma anche dei limiti tecnici legati alle metodologie estrattive e alla natura stessa dei giacimenti. L’Arabia Saudita ha però deciso di agire in ritorsione alzando la posta – aumentando la produzione e tagliando i prezzi dell’export – sapendo che – se il prezzo si riduce oltre una soglia di guardia – a rimetterci è anche la Russia stessa, che è il terzo produttore mondiale ma dispone anche impianti risalenti all’epoca sovietica che necessitano di investimenti, incompatibili con markup così bassi. Mosca ha accolto la sfida: la Banca Centrale russa ha smesso di sostenere il rublo – crollato ai minimi da 4 anni – dando maggior competitività all’export di idrocarburi e il Ministro delle Finanze Siluanov ha annunciato che c’è la volontà di sacrificare sino a 150 mld $ del fondo sovrano per sopportare un calo del petrolio a 25-30$ a barile fino a 10 anni.
Lo shale oil americano
Gli shale sono giacimenti argillosi a bassa porosità che contengono materiali bituminosi dai quali si può estrarre petrolio con particolari tecnologie (es. fracking) più costose della classica estrazione. Per essere competitivo – il petrolio di scisto deve quindi avere prezzi più alti con una soglia di sopravvivenza sui 25$/barile ed un costo ideale di almeno 40$.
Le perdite russe
Al momento, Mosca sta contenendo le perdite grazie all’acquisto in massa di greggio da parte di Pechino. La Cina sta infatti sfruttando il crollo dei prezzi per fare incetta di petrolio russo (1.6 mln tonnellate) e rimpolpare così le proprie scorte strategiche. La situazione è comunque preoccupante e insostenibile nel medio-lungo termine: in base alle stime di Rystad Energy, il 76% della capacità mondiale di stoccaggio è già impegnata e nel giro di pochi mesi potrebbe definitivamente esaurirsi.
Come facilmente intuibile, i proventi degli idrocarburi costituiscono una parte rilevante delle entrate russe e nel 2020 il crollo dei prezzi porterà a circa 40 mld $ di deficit, senza contare i danni direttamente legati al Coronavirus.
Conseguenze geopolitiche
La riduzione del prezzo del petrolio – dovuta ad un eccesso di offerta sommata al crollo della domanda causato dalla pandemia – potrebbe innescare una reazione a catena con conseguenze geopolitiche rilevanti sulla stabilità interna e sulla postura internazionale di molti Paesi e regioni. Appare evidente che – se dal lato dell’offerta è possibile intervenire rimodulandola in base al prezzo desiderato – è dal lato della domanda che vi sono le criticità maggiori, non avendo né la pandemia né la conseguente ripresa economica tempi certi. Va da sé che ad essere maggiormente colpiti saranno i produttori mondiali di greggio e – nello specifico – quelli con una minor differenziazione dei propri introiti, come Arabia Saudita e le monarchie del Golfo, Russia, Iran, Nigeria, Kazakistan, Venezuela e Algeria. Non sfugge certamente che le entrate del greggio risultano fondamentali per la stabilità di regimi autoritari quali le monarchie del Golfo, le repubbliche asiatiche e l’Iran, ma anche di democrazie illiberali quali Russia e Venezuela, senza dimenticare Stati africani problematici come Algeria, Libia e Nigeria, poiché proprio legato al greggio è il flusso monetario che alimenta a getto continuo le oligarchie a sostegno delle élite al potere. Una crisi prolungata del mercato petrolifero potrebbe accanirsi in particolare sull’Iran, già nella blacklist delle sanzioni e flagellato dal COVID-19. A causa del regime sanzionatorio, il greggio di Teheran dipendeva quasi interamente dalla domanda cinese, drammaticamente contrattasi al netto degli acquisti strategici. La situazione in Iran si è rapidamente deteriorata, tanto da spingere la Repubblica Islamica ad una richiesta di finanziamento di 5 mld $ al FMI. Risulta chiaro come un indebolimento di Teheran provocherebbe un ridimensionamento della sua influenza regionale, in quanto sponsor di proxy armati in Siria, Iraq, Libano e Palestina.
Le prove di disgelo
Come ipotizzabile, gli USA non sono rimasti spettatori passivi: Washington ha infatti inviato un incaricato speciale in Arabia Saudita per spingere l’uomo forte di Riyad Mohammad bin Salman alla negoziazione con Putin. Il tentativo di placare la tempesta del cheap oil per via negoziale è solamente una delle vie percorribili dalla Casa Bianca, dove i falchi repubblicani premono per una risposta muscolare – leggasi sanzioni – ad Arabia e Russia, come già fatto con i rogue States del petrolio, Iran e Venezuela. Un grosso ostacolo è però l’assenza degli USA nel quadro OPEC+, con Washington che agisce da battitore libero. Sta di fatto che il 10 aprile i Paesi OPEC+ hanno concordato una riduzione totale della produzione di circa 10 mln di barili al giorno a partire dal 1° maggio per un periodo iniziale di due mesi, per poi scalare a 8 mln bpd (barili al giorno) da luglio a dicembre terminando a 6 milioni bpd da gennaio 2021 ad aprile 2022. Il punto di riferimento per i calcoli è la produzione di ottobre 2018 ad eccezione di Arabia Saudita e Russia, per le quali viene considerata la produzione di 11 mln bpd. Al momento è comunque ancora prematuro dire se si tratti di un vero accordo di pace o di una fragile tregua temporanea; lo stesso accordo è rimasto infatti in bilico condizionato dall’adesione del Messico, giunta solo il giorno successivo dopo un’iniziale astensione grazie alla mediazione di Trump, che ha offerto di sobbarcarsi parte dei tagli all’output che sarebbero spettati a Obrador. Al momento, resta quindi da monitorare attentamente il comportamento dei player coinvolti in prima persona, in attesa del prossimo meeting di giugno.