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Il ritorno di Netanyahu: continuità e discontinuità nel dossier nucleare iraniano

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Il 1° novembre l’elettorato israeliano è stato chiamato alle urne per la quinta volta in meno di quattro anni per eleggere i nuovi membri della Knesset, il parlamento israeliano. A dispetto delle attese, che proiettavano un sostanziale pareggio tra il blocco di destra guidato da Netanyahu e le forze centriste e di sinistra con il premier uscente Yair Lapid come leader in pectore,i risultati hanno incoronato il leader del Likud (32 seggi) come chiaro vincitore.

Articolo precedentemente pubblicato nel trentatreesimo numero della newsletter “Mezzaluna”. Iscriviti qui.

Il responso delle urne

Forte della maggioranza assoluta dei seggi (64) ottenuti dalla coalizione politica da lui guidata (di cui fanno parte anche il partito sionista religioso, Giudaismo Unito nella Torah e Shas) Netanyahu sarà in grado di formare agevolmente un governo di destra, ben più solido rispetto alle coalizioni di unità nazionale che con formule diverse si sono succedute nelle ultime due legislature (governi Netanyahu-Gantz e Benett-Lapid). La stabilità politica interna potrebbe quindi essere ristabilita, dopo anni di esecutivi fragili e coalizioni eterogenee. Sul piano della politica interna si attendono significative discontinuità rispetto al governo uscente, a causa della crescita relativa delle forze nazional-religiose e di destra estrema, le quali richiederanno una importante rappresentanza nei ministeri di rilievo. Al contrario, nella politica estera e di difesa, al netto delle sfumature la continuità dovrebbe prevalere. Su questo piano vari sono i dossier che si troverà sul tavolo l’esecutivo che nelle prossime settimane verrà insediato: l’approfondimento dell’integrazione regionale con i nuovi partner arabi, l’esecuzione dell’accordo marittimo-energetico con il Libano, la riconciliazione con la Turchia, l’escalation di tensione nei territori palestinesi. Nondimeno, in una scala di rilevanza il dossier del nucleare iraniano continuerà a rappresentare la priorità numero uno. Quale la direzione che verrà imboccata dal futuro governo israeliano nella politica verso Teheran?

Il nucleare iraniano visto da Israele

Il dossier del nucleare iraniano rappresenta la principale preoccupazione con cui politica, diplomazia, forze armate e agenzie di intelligence israeliane fanno i conti quotidianamente. Nel gergo utilizzato nei circoli israeliani e nella sua dottrina militare, l’Iran nuclearizzato viene definito una “minaccia esistenziale”. A seguito del degradamento della minaccia convenzionale originante dagli Stati arabi confinanti, la nuclearizzazione della Repubblica islamica rappresenta infatti la minaccia più credibile, di tipo non convenzionale, in grado di minare la sopravvivenza dello Stato di Israele. Per lo Stato ebraico tale lettura deriva dalla considerazione per cui il regime iraniano sorto dalla rivoluzione del 1979 non ambirebbe a una sua sconfitta politico-militare ma alla sua estinzione. Pertanto, in una prospettiva di lungo periodo, l’imperativo che muove la politica israeliana su tale dossier rimane il mantenimento della propria “unicità nucleare” nella regione mediorientale. Israele, infatti, rappresenta al momento l’unico Paese mediorientale in possesso di una capacità nucleare nazionale, seppure occulta, racchiusa nella così detta amimut policy (politica dell’ambiguità). Sventare la nuclearizzazione del regime iraniano significa perpetuare questa superiorità militare di tipo non convenzionale.

La strategia israeliana nel segno della continuità

I governi israeliani che si sono succeduti nell’ultimo decennio, in particolare a partire dagli anni dell’amministrazione Obama, durante i quali gli Stati Uniti hanno negoziato un accordo sul nucleare iraniano noto come Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA), non hanno mutato significativamente la propria politica su questo dossier. Israele ha ribadito in ogni sede la sua contrarietà verso il JCPOA, un accordo definito dannoso in quanto non in grado di disinnescare una volta per tutte le velleità nucleari iraniani, ma in grado di reintegrare Teheran nei circuiti economici internazionali, attraverso la progressiva rimozione delle sanzioni. Si tratta di una posizione sviluppata già a partire dal 2013-2015 (negoziazione e firma del JCPOA) dall’allora governo Netanyahu, il quale nel gennaio 2015 si spinse sino a denunciare la politica obamiana dinnanzi al Congresso americano, provocando il punto di caduta più basso nelle relazioni israelo-americane degli ultimi decenni. Su una medesima lunghezza d’onda si è posto anche l’ultimo esecutivo, guidato “a rotazione” prima da Bennett e poi da Lapid. Lo scenario di un nuovo JCPOA, negoziato dall’attuale amministrazione Biden, è stato osteggiato da entrambi i leader israeliani. In diverse occasioni, come nella conferenza stampa congiunta di luglio tra Lapid e Biden, l’allora primo ministro israeliano ha manifestato la contrarietà israeliana alla firma di un nuovo accordo, nelle clausole simile rispetto a quello del 2015. Inoltre, anche qualora venisse firmata una nuova intesa, lo Stato ebraico si è dichiarato svincolato al rispetto delle sue clausole, riservandosi il diritto di perseguire opzioni unilaterali extra-diplomatiche, quindi militari, per disinnescare il programma nucleare iraniano.

Sia i vertici militari delle Israel Defense Forces (IDF) che delle agenzie di intelligence, a partire dal Mossad, sono in questa fase allineati rispetto alla posizione comunemente accettata dalle principali forze politiche del Paese (va detto tuttavia che esistono anche voci discordanti all’interno delle medesime strutture). Su questa posizione si pone anche il neo capo di Stato maggiore delle IDF, Herzi Halevi. Nominato alla fine di ottobre su proposta del ministro della Difesa Gantz, Halevi entrerà in carica nel gennaio 2023. È altamente probabile ritenere che il nuovo governo a guida Netanyahu si allinei su posizioni simili, nel solco della continuità. Lo scenario di un nuovo JCPOA continuerà a essere osteggiato. Al contrario, l’opzione del mancato accordo viene ritenuta l’ipotesi meno svantaggiosa, in quanto continuerebbe a richiedere un forte pressione diplomatica ed economica nei confronti del regime iraniano da parte degli Stati Uniti e dei suoi partner, e uno spazio di manovra maggiore per un eventuale operazione militare israeliana (è al momento difficile pronosticare se lo Stato ebraico possieda la capacità tecnico-operativa per portare a buon fine un attacco di tale portata). Un terzo scenario, quello di un JCPOA rafforzato (che includa clausole sulla politica missilistica e regionale iraniana) sarebbe per Israele quello ottimale, ma ritenuto al momento irrealistico da perseguire (richiederebbe un indebolimento ben più marcato del regime di Teheran). 

L’incognita del rapporto con l’amministrazione Biden

Maggiori incognite riguardano il rapporto che si stabilirà tra il futuro governo Netanyahu e l’attuale amministrazione americana. Nella sua interlocuzione con l’alleato israeliano così come con i partner arabi della regione in merito al nucleare iraniano, Biden ha tentato di stabilire un dialogo più trasparente rispetto a quanto fatto da Obama, tenendo aggiornati i propri partner regionali sullo stato di avanzamento dei negoziati di Vienna. A fianco a ciò, va menzionato anche il tentativo americano di creare dei contrappesi, di tipo politico-diplomatico e militare, che possano rassicurare i propri alleati dinnanzi alla possibile firma di un nuovo JCPOA. Tra questi va menzionato il progetto MEADA (Middle East Air Defense Alliance). Sfruttando la nascente cooperazione israelo-araba inaugurata con la firma degli accordi di Abramo e il conseguente spostamento di Israele nell’area di responsabilità di CENTCOM, Washington sta lavorando alla creazione di un sistema di difesa aereo integrato contro minacce provenienti da missili e droni. Sebbene pubblicamente mai confermato, tra i Paesi coinvolti c’è anche l’Arabia Saudita, la quale ancora non intrattiene relazioni diplomatiche ufficiali con Israele. Più in generale, questo progetto si inserisce nell’investimento americano verso forme di “integrazione regionale” sempre più strette, caposaldo della politica mediorientale di Washington come fissato nella National Security Strategy pubblicata in ottobre, già precedentemente annunciato in occasione dell’unico viaggio che Biden a compiuto nella regione nel luglio scorso.

L’obiettivo che fino ad ora ha mosso la presidenza Biden è stato quello di schivare le criticità riscontrate dall’approccio obamiano, che aveva portato a un deterioramento dello stato delle relazioni tra Stati Uniti e partner regionali, a partire da Israele. Come ricordato in precedenza, proprio l’allora primo ministro Netanyahu si rese protagonista di un acceso scontro politico con il presidente americano. Resta da vedere se lo slancio dialogante dell’attuale amministrazione americana possa convincere l’entrante esecutivo israeliano a proporre un approccio altrettanto collaborativo, a partire dalla dimensione della comunicazione. È probabile che, in merito al dossier del nucleare iraniano, l’attenzione di Netanyahu possa concentrarsi su due direttrici nel rapporto con l’alleato americano. La prima riguarda le negoziazioni di Vienna. Su questo piano, resta da capire se il leader israeliano continuerà a battere la strada intrapresa dai suoi predecessori – dialogo con le controparti americane, a più livelli, sul merito delle clausole negoziate al fine di influenzare dall’esterno l’andamento dei colloqui con Teheran, a partire dai così detti strategic working groups – o se tornerà al vecchio approccio – divieto imposto ai rappresentanti israeliani di discutere del merito delle clausole del JCPOA con Washington.

La seconda direttrice ha a che fare con la concertazione del così detto “Piano B”, a cui stanno lavorando i due Paesi, cioè un’opzione da imboccare qualora la soluzione diplomatica non fosse in grado di arrestare il programma nucleare iraniano. Dopo mesi di negoziati, in occasione della visita di Biden in Israele del luglio scorso è stata firmata la Dichiarazione di Gerusalemme. Per la prima volta l’amministrazione americana ha messo per iscritto l’impegno a utilizzare «tutti gli elementi della sua potenza nazionale» per evitare la nuclearizzazione iraniana, perdipiù in un comunicato congiunto con gli israeliani. Nei fatti si tratta di una formula che apre alla possibilità di un’opzione militare come ultima risorsa a disposizione, ma che al momento, secondo quanto sostenuto da ambienti israeliani, difetta di segnali espliciti e concreti. È quindi probabile che su questo livello Netanyahu vorrà esercitare una pressione maggiore su Washington per un build-up militare nella regione e un’attività di signalling più convinta, anche in termini deterrenti.

 Ucraina e proteste anti-regime in Iran: come si muoverà il governo Netanyahu?

La conflittualità israelo-iraniana non si esaurisce nel dossier nucleare, coinvolgendo un’ampia gamma di teatri e domini – dalla sfera della cybersicurezza alla competizione marittima tra il Golfo e il Mar Rosso, dagli assassini mirati israeliani in suolo iraniano ai tentativi di Teheran di rapire cittadini israeliani in Turchia. Nelle ultime settimane due sono i campi di battaglia su cui tale competizione si è rapidamente trasferita: il teatro ucraino, alla luce della guerra d’aggressione russa, e le proteste anti-regime in Iran. È pertanto doveroso chiedersi come si muoverà il nuovo governo israeliano su questi dossier, letti utilizzando la lente del conflitto con Teheran.

Sul fronte ucraino, al centro dell’attenzione israeliana c’è l’accordo per la fornitura di droni e altri sistemi d’arma iraniani alla Russia, già utilizzati in Ucraina anche per colpire centri urbani e popolazione civile. Il governo di Kiev ha tentato nelle ultime settimane di far leva su questa evoluzione per convincere gli israeliani a fornire sistemi di difesa aerea. Richiesta, in verità, avanzata per la prima volta già in occasione della visita del presidente della Repubblica Herzog a Kiev nell’ottobre 2021, prima dello scoppio delle ostilità. Per il momento Israele ha declinato la richiesta, limitandosi a un sostegno politico, diplomatico e umanitario. Sul piano militare, il ministro della Difesa Gantz ha annunciato la fornitura di assistenza per la costruzione di sistemi di early warning all’aggredito, che si affianca allo sharing informativo tra intelligence sulle attività russo-iraniane. Il presidente Zelensky ha alzato ulteriormente il tiro, affermando che nell’accordo russo-iraniano, come contropartita, Teheran avrebbe richiesto a Mosca un approfondimento della cooperazione nello sviluppo del proprio programma nucleare militare. Scenario che richiederebbe un maggiore coinvolgimento israeliano a sostegno di Kiev. Per il momento fonti istituzionali israeliane smentiscono l’esistenza di una clausola del genere. Resta da capire se si tratta di una smentita volta a schivare ulteriori pressioni per un maggiore impegno a favore dell’aggredito, pur in possesso di informazioni riservate di segno opposto. Va anche ricordato come nei giorni scorsi i media americani, citando fonti dell’ intelligence americana, hanno pubblicato informazioni che attesterebbero l’esistenza di tale clausola.

Alla luce delle contraddittorie dichiarazioni di Netanyahu in campagna elettorale, resta piuttosto difficile decifrare quale corso verrà intrapreso dal futuro governo da lui guidato in questo dossier. Due sono le considerazioni da fare. Primo, Netanyahu è legato da un rapporto di amicizia personale con il presidente russo Putin. Un legame che potrebbe rappresentare un vincolo di segno negativo per un eventuale approfondimento della cooperazione militare israelo-ucraina. Dall’altro lato, tuttavia, potrebbe essere sfruttato come leva su cui rilanciare il ruolo di mediazione israeliano, così come era stato tentato dall’allora primo ministro Bennett nelle prime settimane di conflitto – poi abbandonato per le evoluzioni della guerra e per problemi interni del governo israeliano. Secondo, Netanyahu ha dichiarato in campagna elettorale che se fosse stato rieletto avrebbe preso in considerazione la possibilità di fornire l’assistenza militare richiesta da Kiev. Una dichiarazione che lascia una porta aperta che tuttavia continuerà a scontrarsi con la diffidenza di due soggetti. Da un lato, l’establishment militare israeliano, preoccupato di non mettere in discussione la libertà d’azione che Mosca lascia all’aeronautica israeliana per colpire obiettivi in Siria, priorità per la propria sicurezza nazionale; dall’altro, un’importante fetta della società e quindi dell’elettorato israeliano di origine russa, che continua ad avere stretti legami con il Paese di provenienza. In definitiva, è al momento improbabile una discontinuità marcata rispetto alla politica del governo Lapid.

Infine, rimane il nodo delle proteste anti-regime che da due mesi stanno scuotendo la Repubblica islamica. Al netto della differente matrice alla base dell’attuale ondata di proteste rispetto a episodi simili del passato – quelle in corso sono un attacco diretto all’impianto istituzionale-valoriale dell’Iran rivoluzionario – fonti istituzionali israeliane continuano a dare una valutazione piuttosto pessimista sulla reale capacità del movimento di protesta di sovvertire il regime. Pertanto, è difficile immaginare un investimento maggiore del futuro governo israeliano sul successo delle proteste. È al contrario più probabile che si continuerà a puntare sul più limitato obiettivo di giocare l’instabilità interna iraniana sul più circoscritto tavolo dei negoziati di Vienna, in un ambito che rientra nella sfera della guerra cognitiva. La posizione israeliana quindi si risolve in un tentativo di amplificare la percezione di inaffidabilità del regime iraniano agli occhi dell’opinione pubblica internazionale, al fine di rendere più difficoltoso per Stati Uniti e Paesi europei continuare a sostenere le ragioni del negoziato, squalificando la controparte iraniana, rea di reprimere financo la propria popolazione.

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