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TematicheStati Uniti e Nord AmericaI risultati definitivi delle midterm americane: uno sguardo dall’Europa

I risultati definitivi delle midterm americane: uno sguardo dall’Europa

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Le midterm del 2022, in occasione delle quali alcuni media pronosticavano un’onda rossa capace di ostacolare l’agenda Biden, hanno avuto come esito una sostanziale non-vittoria. Nonostante i democratici non abbiano ottenuto la maggioranza alla Camera, al Senato hanno invece mantenuto un vantaggio che consente all’amministrazione in carica di governare senza l’inconveniente della cosiddetta “anatra zoppa”. Il risultato emerso è indice di una faglia sociopolitica, poiché se da un lato i democratici sono riusciti a non perdere troppi consensi nelle midterm del 2022, dall’altro una parte di americani si riconosce in una visione opposta della politica, ma simile nella sostanza per quanto concerne il ruolo degli Usa nel mondo. Gli eventi geopolitici e le scelte strategiche dell’ultimo anno come l’Inflation Reduction Act hanno infatti dimostrato che Washington persegue la propria agenda, atta a salvaguardare gli equilibri globali consolidati, anche se ciò dovesse ostacolare l’autonomia strategica degli alleati europei.

L’esito delle elezioni di midterm negli Stati Uniti ha riconsegnato agli osservatori il ritratto di un Paese ormai polarizzato su due fronti politici contrapposti, i quali riflettono una divisione sociale sempre più marcata tra quelle che appaiono come due compagini tra loro antitetiche. La prevista “onda rossa”, che avrebbe dovuto portare i candidati repubblicani a conquistare una maggioranza tale da condizionare l’attività dei due rami del Congresso mettendo in difficoltà l’amministrazione in carica, non si è alla fine verificata a dispetto di quanto ipotizzato dai sondaggi, arrivati a pronosticare la vittoria di un partito repubblicano ormai in larga parte trumpiano. Se da un lato è innegabile la forte presa esercitata dal tycoon sul GOP, dall’altro lato è evidente la crescente disaffezione degli elettori moderati verso quello che appare sempre di più come un partito personale modellato dalle scelte dell’ex presidente in materia di candidature, che in numerosi casi sono passate per la sua approvazione ancor prima di approdare formalmente alle primarie di partito.

Il verdetto delle urne per le elezioni dei governatori ha finito per penalizzare molti dei candidati oltranzisti vicini alla linea politica dell’ex presidente, i quali, nonostante le rosee previsioni pre-elettorali, si sono affermati quali governatori solo in Ohio e in Florida. Tuttavia, proprio gli ottimi risultati raggiunti con la riconferma di Ron de Santis in Florida potrebbero rappresentare una svolta nelle dinamiche interne al partito repubblicano, alla ricerca di un candidato popolare ma meno ingombrante di Trump in vista delle primarie per eleggere il candidato alla Casa Bianca per le elezioni presidenziali del 2024. A dispetto della componente trumpiana, che al momento appare predominante, il GOP conserva al suo interno un’ala moderata poco incline a tollerare la retorica polemica del tycoon, e pertanto intenzionata ad individuare un candidato da contrapporre a Donald Trump durante le primarie di partito. In tale contesto, la popolarità del governatore della Florida, noto anche al di fuori del suo stato per l’approccio permissivo in tema di chiusure durante l’emergenza pandemica, potrebbe rappresentare un asso nella manica più spendibile rispetto all’ex presidente.

La possibilità di avere un candidato dalle posizioni politiche simili a quelle dell’ex presidente, ma più moderato nelle sue esternazioni, sembrerebbe riscuotere credito presso i potenziali finanziatori, maggiormente propensi ad appoggiare una figura rimasta finora estranea da scandali e polemiche. D’altro canto, tuttavia, una vittoria di Ron de Santis alle primarie e la sua conseguente candidatura a livello nazionale rappresenterebbe un’arma a doppio taglio per il partito repubblicano, la cui base elettorale nel 2024 potrebbe optare per l’astensione voltando le spalle a un candidato considerato fotocopia. Nonostante ciò, una larga parte dei maggiori finanziatori del partito repubblicano potrebbe non vedere di buon occhio la ricandidatura di Trump, messo sotto inchiesta dal Dipartimento di Giustizia per la vicenda dei documenti top secret irregolarmente detenuti nella sua residenza privata di Mar-a-Lago. In un tale clima politico, l’annuncio ufficiale della candidatura alle primarie da parte dell’ex presidente rischia di dividere il GOP in correnti incapaci di esprimere una sintesi delle istanze provenenti dalla sua base elettorale. Dal canto suo, Ron de Santis non ha sciolto le riserve in merito al suo futuro politico, che ufficialmente prevede la sua permanenza sulla poltrona di governatore fino alla naturale scadenza del mandato recentemente conquistato.

Il ballottaggio del 6 dicembre in Georgia per assegnare il seggio rimasto vacante al Senato ha visto vittorioso il democratico Rafael Warnock con il 51,3% dei voti contro il 48,7% del repubblicano Hershel Walker, interrompendo così le speranze in un vantaggio repubblicano che avrebbe permesso di ostacolare l’agenda presidenziale. L’esito finale ha conferito ai democratici il controllo del Senato seppur con la maggioranza risicata di 51 seggi, e consente all’agenda interna ed estera dell’amministrazione in carica di proseguire senza troppi intoppi anche se alla Camera i repubblicani detengono la maggioranza. Pertanto, l’agenda presidenziale proseguirà verosimilmente senza eccessivi ostacoli politici, accompagnata da molti dibattiti interni ma con poche variazioni sostanziali a dispetto delle evidenti divisioni interne al Paese. Scongiurato il rischio di dover dirimere le questioni più controverse con il voto del Vicepresidente, che in caso di parità al Senato ha valore decisivo, la platea dei senatori democratici dovrà dimostrare di saper andare oltre l’antitrumpismo che ha contrassegnato il dibattito pubblico degli ultimi anni. In ogni caso, l’esito delle elezioni di metà mandato non può essere in alcun modo letto come un pronostico attendibile in merito al futuro esito dell’appuntamento elettorale presidenziale del 2024, dove saranno altre istanze (e forse altri candidati diversi da quelli finora ipotizzati) a tenere banco. Al netto dei proclami ufficiali e dei dibattiti interni, le scelte geostrategiche dell’attuale amministrazione in carica hanno mostrato come l’agenda politica statunitense miri soprattutto alla salvaguardia degli equilibri geopolitici consolidati e dell’ordine internazionale basato su regole. Misure economiche come l’Inflation Reduction Act, che ha stabilito sovvenzioni e crediti d’imposta legati alle aziende nel settore delle tecnologie verdi operanti negli USA, dimostrano inoltre come i proclami passino in secondo piano dinanzi alla salvaguardia delle produzioni nazionali. L’impronta lasciata dal quadriennio trumpiano non sembra in ogni caso destinata a svanire nel nulla, visto che, a dispetto delle tendenze demografiche apparentemente favorevoli ai democratici in termini di consenso, le condotte politiche dei due partiti mantengono dei punti sostanziali in comune. Al di là dell’evidente faglia interna tra due diverse visioni della società, della politica e del ruolo statunitense negli equilibri globali, l’agenda delle ultime due amministrazioni americane ha infatti messo in primo piano lo stesso obiettivo: la salvaguardia del primato politico, economico e strategico degli Stati Uniti negli equilibri globali anche se ciò va ad ostacolare l’autonomia strategica degli alleati europei.

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