Il 5 settembre 2015 il corpo senza vita di Alan Kurdi, un bambino di due anni di origini curdo-siriane, è stato trovato su una spiaggia di Bodrum, in Turchia, dove era stato trascinato in seguito al tentativo fallimentare della sua famiglia di raggiungere le coste greche a bordo di un gommone. Le sue foto sono diventate in poco tempo virali, rendendolo il simbolo della sofferenza e delle difficoltà a cui andavano incontro i migranti che, partendo dal nord-ovest asiatico, prevalentemente Siria, Iraq, e Afghanistan, cercavano di raggiungere il nord Europa lungo la rotta del Mediterraneo Orientale. Quest’ultima, comunemente nota come “rotta balcanica”, prevedeva l’attraversamento di un breve tratto del mare Egeo dalla Turchia alla Grecia, e da lì la risalita lungo i Balcani, ovvero attraverso Macedonia del Nord, Bulgaria, Serbia, Bosnia Erzegovina, Croazia, e Slovenia, verso i Paesi più ricchi dell’Europa del Nord. Secondo i dati di Frontex, l’agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, sono stati circa 1.5 milioni i rifugiati ad intraprendere questo rischioso percorso nel 2015.
La risposta dell’Unione Europea nei primi mesi della crisi
Dati i drammatici avvenimenti sulla rotta Italia-Libia del Mediterraneo Centrale, il flusso migratorio lungo la rotta balcanica è rimasto fino al 2015 largamente inosservato e sottostimato. Nell’estate 2015, il parallelo disimpegno di Stati Uniti e Unione Europea (UE) dalla guerra civile in Siria e l’insufficiente supporto umanitario ai milioni di rifugiati siriani in Turchia, Libano, e Giordania, ha causato un drammatico aumento dei numeri di rifugiati diretti dalla Turchia verso la Grecia. Contemporaneamente, anche afghani e iracheni, data l’instabilità dei loro Paesi, cominciavano a mettersi in fuga lungo la medesima rotta, meno pericolosa e più economica rispetto alla rotta del Mediterraneo Centrale. Il visibile aumento della portata del flusso migratorio ha portato l’UE, a partire da settembre 2015, a costruire un corridoio migratorio controllato dai militari attraverso i Paesi interessati dalla rotta. Lungo questo, sotto la leadership dell’allora Presidente della Commissione Europea Junker, sono stati attualizzati i nuovi meccanismi di protezione civile delineati dall’Agenda europea sulla migrazione, presentata dalla Commissione Europea a maggio 2015. Fondamentale nella gestione dei flussi del 2015-2016 è stata l’adozione di un nuovo “hotspot approach” – “sistema basato sui punti di crisi”. Il punto di crisi, definito dalla Commissione Europea come “una zona di frontiera esterna [dell’UE] interessata da una pressione migratoria sproporzionata”, necessita assistenza operativa da parte dell’agenzia comunitaria Frontex, di EASO, l’ufficio europeo di sostegno per l’asilo, e di Europol, l’ufficio europeo di polizia, affinché i migranti in arrivo vengano registrati e indirizzati. Per esempio, seguendo questo approccio sono stati istituiti cinque punti di crisi sulle isole greche di Chios, Kos, Leros, Lesbos e Samos, principali destinazioni dei migranti che intraprendevano la traversata dalla Turchia via mare.
Nonostante l’impegno dimostrato durante i primi mesi della crisi migratoria, è risultato evidente nell’arco di pochi mesi che quest’ultima ha colpito l’UE in un punto debole: non solo i Balcani, tradizionalmente area di emigrazione, erano mal equipaggiati per accogliere e ospitare un tale numero di migranti, ma la geografia delle coste della Grecia, primo Paese di transito, rendeva pressoché impossibile il controllo dei suoi confini sull’Egeo. Difatti, l’incessante aumento degli arrivi ha causato velocemente il superamento della capacità degli “hotspots”, e trasformato quella che era nata come una crisi umanitaria in un problema di sicurezza per l’UE.
Il tentativo (fallimentare) di Merkel di istituire una politica migratoria comunitaria
Dalla fine dell’estate 2015, un ruolo centrale è stato giocato dalla Germania della Cancelliera Merkel. Il 31 agosto 2015, quando gli “hotspots” lungo le frontiere esterne dell’Unione cominciavano ad essere sovraccaricati, la Cancelliera decise di rispondere alla crisi umanitaria ai confini sudorientali dell’Unione con una “open-door policy”, pronunciando le famose parole “Wir schaffen es” – “ce la faremo”. Da quel momento, e durante tutto l’autunno del 2015, una coalizione di stati membri dell’Unione, non direttamente interessata dal transito dei migranti, ha accolto i rifugiati. Grazie all’impegno degli stati dell’Europa del Nord, prevalentemente Germania, Austria, e i Paesi scandinavi, il transito lungo la rotta balcanica ha cominciato gradualmente a migliorare. Ciononostante, il numero di rifugiati, così come le pressioni populiste e xenofobe nei Paesi balcanici lungo la rotta, continuavano a crescere.
Nel settembre 2015, nel tentativo di aumentare la solidarietà intra-comunitaria, gli stati membri hanno approvato a maggioranza qualificata il ricollocamento di 160mila rifugiati e migranti, circa il 10 per cento degli arrivi di quell’anno. Tuttavia, violando il diritto europeo e internazionale, i Paesi del gruppo di Visegard (Ungheria, Polonia, Slovacchia, e Repubblica Ceca), hanno negato la loro disponibilità ad accogliere i migranti da ricollocare e cominciato ad utilizzare retoriche antimusulmane e anti-immigrazione.
L’incapacità di trovare una risposta comunitaria alla crisi ha portato al collasso del sistema di Dublino, secondo il cui regolamento lo stato responsabile a prendere in esame una domanda di asilo è quello in cui il richiedente asilo ha messo per primo piede una volta entrato nei territori dell’UE; e, anche se temporaneamente, alla sospensione degli Accordi di Schengen, che garantiscono la libera circolazione delle persone tra gli stati membri dell’Unione. Infatti, dall’ottobre 2015, mentre la coalizione pro-accoglienza guidata dalla Germania si avviava verso il completo sgretolamento, le frontiere esterne dell’UE, così come alcune frontiere interne, diventavano sempre più impenetrabili. Il 18 novembre 2015, quando Macedonia, Slovenia, Croazia, e Austria dichiaravano i loro confini aperti solamente per migranti e rifugiati di origine siriana, irachena, o afghana, cominciava la costruzione della “fortezza Europa”. Pochi mesi dopo, a marzo 2016, Macedonia, Croazia, e Slovenia annunciavano la completa chiusura delle loro frontiere.
L’accordo UE-Turchia del 2016
All’inizio del 2016, dato l’aumento di pressioni populiste e xenofobe anche all’interno della Germania, e la comprovata ostilità di alcuni Paesi dell’UE allo sviluppo di una politica migratoria comunitaria, Merkel è stata costretta a guidare nuovamente l’Unione verso l’ultima opzione disponibile: l’esternalizzazione della gestione dei rifugiati dell’UE alla Turchia. Un primo passo in quella direzione è stato il riconoscimento da parte dell’UE della Turchia come “Paese sicuro”, ovvero capace di offrire assistenza e protezione ai rifugiati entrati nel suo territorio. In questo modo, e in linea con i requisiti della Convenzione di Ginevra relativa allo statuto dei rifugiati del 1951, l’Unione ha potuto firmare l’accordo con la Turchia del 18 marzo 2016, che prevede che dal 20 marzo 2016 tutti i migranti irregolari in arrivo dalla Turchia sulle isole e coste greche vengano rispediti indietro. Il secondo punto dell’accordo afferma che, per ogni siriano rispedito in Turchia, un altro siriano verrà ricollocato in uno degli stati membri dell’UE. Quest’ultima si impegnava inoltre a stanziare 6 miliardi di euro per aiutare la Turchia ad offrire un’efficace assistenza umanitaria ai rifugiati (3 miliardi all’inizio dell’accordo, e 3 miliardi successivamente alla riduzione del flusso), e ad accelerare la liberalizzazione dei visti e il processo di adesione della Turchia all’Unione.
Sebbene grazie a questo accordo l’UE è finalmente riuscita a diminuire esponenzialmente il flusso migratorio, molte sono state le critiche rivoltegliele per aver nuovamente esportato la gestione delle migrazioni oltre i propri confini. In primo luogo, ignorando la trasformazione autoritaria in corso in Turchia, l’Unione ha messo in dubbio la sua immagine di potere normativo e promotore dei diritti umani. Inoltre, l’Accordo ha messo la sicurezza comunitaria nelle mani dell’autocratico Presidente turco Erdogan, che, consapevole di ciò, nel 2020 ha minacciato l’UE di aprire le frontiere ai migranti se quest’ultima non avesse provveduto al pagamento dei restanti 3 miliardi di euro come stabilito dall’Accordo.
Pertanto, finché l’UE non definirà una politica di immigrazione comunitaria, i costi determinati dall’esternalizzazione della gestione dei migranti continueranno a crescere, e i problemi di sicurezza legati ai flussi migratori diretti verso i propri territori non potranno mai dirsi definitivamente risolti.