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TematicheMedio Oriente e Nord AfricaRisolvere un conflitto fra Stati o dissolvere un conflitto...

Risolvere un conflitto fra Stati o dissolvere un conflitto tra popoli? Negoziare l’identità: la strategia dietro gli Accordi di Abramo

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«Dio Onnipotente, Creatore nostro che ami la famiglia umana e tutto ciò che le tue mani hanno compiuto, noi, figli e figlie di Abramo appartenenti all’ebraismo, al cristianesimo e all’islam, insieme agli altri credenti e a tutte le persone di buona volontà, ti ringraziamo per averci donato come padre comune nella fede Abramo, figlio insigne di questa nobile e cara terra […]» (Papa Francesco, 2021). Queste parole, parte della Preghiera dei Figli di Abramo, sono state pronunciate da Papa Francesco in occasione del suo viaggio in Iraq nel marzo 2021, nella piana di Ur, luogo biblico di origine del patriarca delle tre religioni monoteistiche. Nelle intenzioni del suo viaggio in terra irachena, così come in altri passaggi cruciali del suo pontificato – il Documento sulla Fratellanza umana firmato nel 2019 ad Abu Dhabi con il Grande Imam di Al-Azhar e l’Enciclica Fratelli Tutti pubblicata nell’ottobre 2020 – emerge con chiarezza la volontà di innescare un dialogo che possa riconciliare le popolazioni di quest’area del mondo (Papa Francesco & Al-Tayyeb 2019; Papa Francesco, 2020). In altre parole, nelle intenzioni del pontefice si configura il tentativo di ricostruire un cerchio identitario comune (Relational Identity) che possa ricomprendere al suo interno le identità peculiari (Core Identity) di ciascuna religione monoteistica. E allora, qual è la fonte identitaria comune a cui cristiani, ebrei e musulmani possono attingere? Qual è la storia delle origini di quella regione travagliata che oggi definiamo Medio Oriente? Il tutto può racchiudersi in una frase: «[…] quattromila anni fa, un uomo e la sua famiglia attraversarono il Medio Oriente e, da allora, il mondo non sarebbe stato più lo stesso» (Ury, 2010).

Cosa accomuna questo dialogo innescato da Papa Francesco con una dinamica apparentemente molto distante come la firma degli Accordi di Abramo? È possibile tracciare un parallelo di riflessione tra i principi negoziali alla base degli Accordi di Abramo e l’azione portata avanti dal pontefice di Roma? Come si vedrà in seguito, la risposta può essere affermativa qualora si adotti un punto di vista innovativo nell’analizzare la strategia negoziale che sta dietro la firma degli Accordi di Abramo. Come si tenterà di dimostrare, in ultima istanza tali accordi non si configurano come un tentativo di risolvere un conflitto fra Stati, ma come una dinamica integrativa in grado di dare slancio a un processo di conversione relazionale tra i popoli degli Stati firmatari. L’obiettivo ultimo è quello di dissolvere il conflitto fra popoli “goccia a goccia” senza innescare il c.d. Tribes Effect. Come? Lasciando inalterate le rispettive Core identity e rimodellando l’identità relazionale dei soggetti coinvolti (Relational Identity).

Cosa sono gli Emotionally Charged Conflicts

«Il denaro e altri beni materiali possono essere negoziabili, ma la core identity no […]. Quindi, come negoziare il non negoziabile? È possibile? Si, è possibile. E l’intuizione chiave da ricordare per farlo è la seguente: non puoi risolvere un problema dal suo interno. È necessario spostare il tuo obiettivo dal “vincere” la battaglia identitaria alla riconfigurazione della relazione così che la tua core identity e quella dell’altra parte possano coesistere» (Shapiro, 2016). Tale passaggio rappresenta la chiave di volta per comprendere il senso complessivo di Negotiating the Nonnegotiable, l’opera in cui Daniel Shapiro concettualizza una possibile strategia negoziale attraverso cui dissolvere quei conflitti che possono essere definiti Emotionally Charged Conflicts (ECC). Esattamente di cosa si tratta? La categoria degli ECC descrive un’ampia gamma di situazioni conflittuali, non strettamente inter-statuali né di matrice militare, che vengono a crearsi ogniqualvolta viene lesa l’identità dei soggetti coinvolti. L’identità è l’ultima delle tre dimensioni di cui si compone l’interazione umana. Le prime due sono rappresentate dalla razionalità e dalla emozionalità. «Non è possibile evitare gli Emotionally Charged Conflicts. Sono parte di quello che significa essere umani. […] Non si possono risolvere tali conflitti a meno che non si faccia i conti con le loro radici – che vanno al di là della razionalità, e persino delle emozioni, coinvolgendo il cuore di quello che si è: la propria identità».

Il campo dell’identità è il più difficile da maneggiare in quanto si tratta di quella dimensione ove l’uomo, come individuo o come collettività, cerca un significato ultimo da attribuire alla propria esistenza, rispondendo alla seguente domanda: chi sono/ chi siamo? I conflitti in cui viene coinvolta l’identità risultano di difficile risoluzione, al limite della negoziabilità. Pertanto, al fine di creare una condizione di coesistenza tra le parti in conflitto, è necessario utilizzare una strategia negoziale innovativa che non ambisca a risolvere il conflitto, bensì a dissolverlo in una prospettiva di lungo periodo. Infatti, di fronte ad un ECC tutte le strategie basate sulla “razionalità” e sulla semplice “emozionalità” rischiano di risultare inefficaci o, addirittura, controproducenti. 

È proprio applicando alcune delle proposte teoriche di Shapiro, il quale attinge a piene mani da diverse discipline – dalla psicologia alle neuroscienze – che si tenterà di ricostruire la strategia negoziale che sta dietro alla firma degli Accordi di Abramo. L’ipotesi di partenza è la seguente: il contesto su cui si innestano tali accordi è quello di una conflittualità di tipo identitario tra popoli, la quale per decenni ha impedito agli Stati arabi firmatari – Bahrein, Emirati Arabi Uniti (EAU), Marocco e Sudan – di normalizzare le relazioni diplomatiche con Israele. Si badi bene: assumendo tale prospettiva non si esclude che abbia giocato un ruolo rilevante la dimensione razionale, relativa all’interesse. Ciò che si tenterà di dimostrare, tuttavia, è che il solo piano dell’interesse non riesce a spiegare in maniera esaustiva come mai tali attori abbiano abdicato per decenni financo a stabilire delle relazioni diplomatiche, cifra minima della partecipazione di un soggetto internazionale alle interazioni, talvolta cooperative talvolta competitivo-conflittuali, che connotano la dinamica del sistema internazionale.

Assumendo tale prospettiva, si tenterà di dimostrare come la strategia negoziale dietro gli Accordi di Abramo abbia quale obiettivo non quello di risolvere un mero conflitto fra Stati, ma quello di dissolvere un ECC fra popoli posto che, nell’interazione fra gli stessi, è risultata storicamente coinvolta la loro identità. Mettendo al centro la dimensione People-to-People, la dissoluzione del ECC viene perseguita nel medio-lungo termine attraverso la creazione di quelle che Shapiro definisce «dinamiche integrative». In particolare, si tratta di «costruire delle connessioni trasversali» e di «rimodulare l’identità relazionale» dei popoli coinvolti.  Il tutto in modo da far sì che nel tempo si giunga ad un nuovo livello di coesistenza fra i popoli e che, quindi, il ECC si dissolva da sé dando vita a nuove possibilità di cooperazione. A tale livello non verranno analizzate le cause sistemiche e contingenti, esogene ed endogene, che hanno spinto ciascun attore ad aderire agli Accordi di Abramo. Tali condizioni, fortemente diverse a seconda del Paese considerato, verranno approfondite nel merito nelle analisi successive. Al contrario, dando per assunte le cause, ovvero il “perché”, l’obiettivo è quello di tentare un processo di ricostruzione del “come”, cioè della strategia negoziale.

Gli Accordi di Abramo: un’introduzione

Con la firma della Abraham Accords Declaration, il 15 settembre 2020 Usa, Bahrein, Emirati Arabi Uniti e Israele hanno dato vita ai così detti Accordi di Abramo. Successivamente anche Sudan e Marocco, rispettivamente il 23 ottobre e il 10 dicembre 2020, hanno aderito al medesimo framework negoziale, il quale continua ancora oggi a presentarsi come un cantiere aperto all’adesione di ulteriori Stati. Con tale iniziativa, coordinata diplomaticamente dall’amministrazione Trump, per la prima volta dalla firma del Trattato di pace israelo-giordano del 1994 Israele ha normalizzato le proprie relazioni diplomatiche con Paesi appartenenti al mondo arabo.

Per iniziare è doveroso ricordare come, a differenza dei trattati che Israele ha firmato in passato con Egitto e Giordania, gli Accordi di Abramo non possono essere definiti dei veri e propri trattati di pace. Bahrein, EAU, Marocco e Sudan, infatti, non sono mai stati formalmente in guerra con Israele. Ciononostante, una condizione conflittuale, non strettamente militare, ha impedito per più di settanta anni a tali Paesi di normalizzare le proprie relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico. Pertanto, ad una prima lettura tali intese possono essere definite come degli accordi di normalizzazione delle relazioni diplomatiche.

Inoltre, gli Accordi di Abramo non si presentano nemmeno come un trattato multilaterale. Al contrario, sarebbe più opportuno parlare di un “Sistema di Abramo” nella misura in cui si è proceduto alla costruzione di un’architettura complessa formata da atti di varia natura. Alla base di tale sistema vi è l’unico documento firmato da tutte le parti contraenti, ovvero la Abraham Accords Declaration, la quale può essere considerata una dichiarazione di intenti (White House, 2020a). Dopodiché ciascun Paese ha firmato un accordo bilaterale con Israele. Nel trattato tra EAU e Israele, così come nell’accordo tra Bahrein e lo Stato ebraico, gli Usa non sono una parte contraente ma solamente un witness dell’accordo (White House, 2020b; White House, 2020c). Al contrario, nell’accordo tra Israele e Marocco Washington rappresenta una parte contraente dello stesso (US Department of State, 2020). Il Sudan è l’unico Paese ad aver firmato solamente la dichiarazione, senza procedere conseguentemente alla firma di un accordo bilaterale con lo Stato ebraico.

Il ruolo dell’identità nel conflitto: Core Identity e Relational Identity 

Per comprendere in che modo gli Accordi di Abramo possano essere interpretati come uno strumento di dissoluzione di un ECC tra popoli, è necessario prima presentare, attraverso una prospettiva olistica, la teoria negoziale concettualizzata da Shapiro. Come anticipato, gli ECC rappresentano una tipologia particolare di conflitti che si innescano ogniqualvolta in un’interazione umana viene lesa l’identità dei soggetti coinvolti – dal livello micro delle relazioni familiari sino al piano macro delle interazioni tra popoli differenti. Le tre dimensioni che compongono un’interazione umana sono la razionalità, l’emozionalità e l’identità. Ancorché tali dimensioni siano inestricabilmente connesse e vadano pertanto trattate congiuntamente, è sull’ultimo piano, quello dell’identità, che va concentrata maggiore attenzione. L’identità è da intendersi come il vero motore, talvolta inconsapevole, degli ECC e può essere definita come «la storia che tu racconti a te stesso di te stesso».

Nondimeno l’identità è un concetto complesso, che ha una doppia natura: la Core Identity e la Relational Identity. La Core Identity è rappresentata dallo «spettro di caratteristiche che definisce qualcuno come individuo o gruppo». Complessivamente, è formata da cinque pilastri sintetizzabili nell’acronimo brave: Beliefs, Rituals, Allegiences, Values and Emotionally Meaningful Experiences. La Core Identity è fissa. Pertanto, qualsiasi minaccia a uno dei cinque pilastri identitari menzionati verrebbe percepita come una minaccia di tipo esistenziale. Nessuna delle parti in conflitto è disposta a modificare la propria Core Identity. Nel momento in cui un soggetto percepisce minacciata la propria Core Identity si innesca l’ECC, il quale inizia ad apparire come qualcosa di insormontabile. Tale circolo vizioso conflittuale viene definito da Shapiro Tribes Effect. «Il Tribes Effect è una mentalità divisiva che, quando innescata, tende a considerare te e l’altra parte come inevitabilmente avversari». In altre parole, si tratta di una risposta che tende a innescarsi automaticamente quando un aspetto significativo della propria identità si percepisce come minacciato. Tale mentalità si compone delle seguenti caratteristiche: adversarial, self-righteous e closed. Se innescato, il Tribes Effect inizia ad acuire le differenze e minimizzare le similitudini che connotano i soggetti coinvolti (adversarial); la propria posizione inizia a essere percepita non solo come giusta ma anche come moralmente superiore (self-righteous); infine, si tende a rafforzare la credenza per cui la propria identità sia qualcosa di immutabile (closed).

Il secondo aspetto che connota l’identità di un soggetto viene definito da Shapiro Relational Identity. La Relational Identity è fluida. Può essere definita come «lo spettro delle caratteristiche che definiscono qualcuno in relazione a una particolare persona o gruppo». Questa è la parte dell’identità di ciascun soggetto su cui è possibile lavorare o, in altre parole, che è possibile negoziare. Si tratta, infatti, di quel significato identitario che si produce ogniqualvolta si venga a creare uno spazio interazionale, cioè una dinamica di interazione tra soggetti portatori di identità. A differenza della Core Identity, che cerca un senso nell’esistenza, la Relational Identity persegue un significato nella coesistenza – presentandosi pertanto come una identità più astratta, costantemente sottoposta a riformulazione a seconda dell’interazione relazionale che si produce.

Relational Identity Theory: come dissolvere un ECC

Al fine di trasformare le forze che stanno dietro a un conflitto da ostacoli a fonti di opportunità e disinnescare il Tribes Effect Shapiro ha introdotto un metodo definito Relational Identity Theory. Il cuore pulsante di tale strategia risiede nella volontà di lavorare non già sull’identità in senso stretto (Core Identity), quanto sullo spazio che intercorre tra le differenti identità di cui le parti in conflitto si fanno portatrici (Relational Identity). Spostare il baricentro del conflitto dai soggetti allo spazio interazionale che li divide significa, in altre parole, modellare delle identità relazionali che possano tra loro coesistere. 

Al momento dell’interazione, in cui prende forma l’identità relazionale di ciascun soggetto coinvolto, entrano in gioco due forze contrastanti: affiliation e autonomy. Al fine di costruire relazioni cooperative è necessario comprendere di cosa si tratta e operare un giusto bilanciamento tra le stesse. Da una parte, l’affiliazione denota la volontà di connessione emozionale di ciascun soggetto con una persona o un gruppo. Dall’altra, l’autonomia si riferisce all’abilità del medesimo soggetto di esercitare la propria volontà senza sottoporsi a imposizioni originanti da altri. In un conflitto la principale “sfida relazionale” è quella di soddisfare contemporaneamente tale duplice desiderio. Da un lato, la pulsione che tende a identificare ciascun soggetto come un tutt’uno con l’altra parte (affiliation); dall’altro, la necessità di percepirsi come un qualcosa di alternativo rispetto all’altro (autonomy). A tale livello pertanto la sfida si traduce nella capacità delle parti in conflitto di produrre una condizione in cui poter coesistere come due soggetti distinti ma anche, simultaneamente, come un unico soggetto composto da un insieme di due.

Al fine di produrre questa condizione di equilibrio è necessario servirsi del potere delle così dette Integrative Dynamics. Si tratta di quelle forze in grado di spingere le parti verso una maggiore connessione, sino alla creazione di un’unità trascendente, cioè uno stato in cui la dualità tra i soggetti si risolve in una condizione di “unità nella separazione”. Per sfruttare tali dinamiche in maniera positiva è richiesto un lungo processo di trasformazione, definito di “conversione relazionale”. Tali dinamiche integrative, complessivamente, devono incardinarsi sui seguenti principi: armonia, non linearità, passato e futuro. L’obiettivo di ciascuna parte non deve essere la vittoria ma il raggiungimento di una stabilità pacifica (armonia); il percorso verso tale condizione non è lineare ma ci si deve preparare a momenti di avanzamento e retrocessione (non linearità); infine, ciascun soggetto deve porsi la questione di come onorare il passato aspirando allo stesso tempo a costruire un futuro migliore (passato e futuro). 

Entrando nel merito, la costruzione di dinamiche integrative si compone di quattro step distinti. Le prime due fasi sono volte a decostruire il passato e vengono definite da Shapiro «la riscoperta dei miti dell’identità» e «il processo di elaborazione tramite dolore emozionale». Le seconde due al contrario ambiscono a dar forma alla relazione futura, e corrispondono al processo di «costruzione di connessioni trasversali» e alla «ristrutturazione della relazione». In questo processo di conversione relazionale il passato e il futuro sono egualmente rilevanti. Le esperienze passate, infatti, influenzano le relazioni emozionali presenti alla stessa maniera di come quelle presenti influenzeranno le relazioni future. A tale livello, la questione cruciale risiede nella capacità di onorare il passato e, nel medesimo tempo, costruire un futuro migliore. Considerata l’esigenza di brevità, in questa sede, di queste quattro fasi verranno prese in considerazione soltanto le ultime due. In primo luogo è necessario creare delle Crosscutting Connection, cioè dei legami trasversali concreti che aiutino ad avvicinare le parti in conflitto. Tali legami possono essere di tre tipi: fisici, personali – vicinanza emozionale – e strutturali – comune appartenenza a un gruppo. Essi si creano andando a individuare settori di cooperazione scarsamente caricati di significato identitario, cioè punti di contatto concreti su cui è più facile cooperare senza incorrere in lesioni dell’identità. A ben vedere, l’essenza degli Accordi di Abramo risiede non tanto nella volontà di creare degli obblighi giuridici fra Stati (sfera della razionalità), quanto – piuttosto – nella volontà di porre le basi affinché si creino delle Crosscutting Connection fra i popoli, in una prospettica di lungo periodo (sfera della emozionalità-identità). Come si dirà meglio in seguito, a tale fine possono ascriversi i settori di cooperazione tra Paesi firmatari degli accordi: dall’economia all’energia, dalla cultura al turismo.

Dopo aver opportunamente costruito tali connessioni trasversali è possibile procedere con la fase della ristrutturazione della relazione sulla base della riformulazione dell’identità relazionale di ciascuna parte. La riformulazione dell’identità relazionale può avvenire attraverso una metodologia definita da Shapiro SAS System (separation, assimilation, synthesis). L’obiettivo ultimo è quello di creare una condizione di coesistenza. A tale proposito si identificano tre step intermedi per raggiungerla. Per iniziare, è necessario comprendere qual è la posta in gioco nel conflitto. Dopodiché si procede ad analizzare tre diversi possibili scenari per la coesistenza. Il primo consiste nell’allontanamento fisico o psicologico tra le parti (separation); il secondo prevede l’incorporamento di una porzione dell’identità di un soggetto da parte dell’altro (assimilation); il terzo consiste nella riconfigurazione dell’identità relazionale delle parti, attraverso la creazione di un cerchio identitario più ampio che possa contenerle entrambe (syntesis). Dopo aver visualizzato le tre strade percorribili, i soggetti possono selezionare quello che ritengono preferibile e procedere alla riformulazione della propria relazione. Si badi bene: la prima opzione (separation) di fatto opera un mero congelamento del ECC; la seconda alternativa (assimilation) prevede la sconfitta di una delle due parti; la terza (synthesis) può essere vista come un’opzione che garantisce “affiliazione nell’autonomia” risultando quindi in grado di dissolvere il ECC. In tal caso, infatti, si procede alla costruzione di un cerchio identitario entro cui tutti i soggetti del conflitto possano riconoscersi – si ricordi la strategia alla base dell’azione di Papa Francesco. Cosa si intende per cerchio identitario? Si tratta di una soluzione al problema che va ricercata non all’interno dell’identità stessa di ciascun soggetto ma immaginando una soluzione identitaria esterna, più ampia, cioè un minimo comune denominatore identitario entro cui i soggetti coinvolti possano riconoscersi. 

Bridging the divide: gli Accordi di Abramo come dinamiche integrative di dissoluzione del ECC

Dando per assunte le cause che hanno spinto ciascuna parte al tavolo negoziale è ora utile comprendere in che modo tali attori abbiano inteso dar forma alle proprie relazioni, attraverso la firma degli Accordi di Abramo. In particolare, si prenderà come oggetto dell’analisi la Abraham Accords Declaration, per due ragioni di fondo. In primo luogo, perché si tratta dell’unico atto firmato da tutti i Paesi parte del framework di Abramo. In secondo luogo, per la natura stessa dell’atto. Trattandosi di una dichiarazione di intenti, si potrebbe credere che la sua valenza sia inferiore rispetto ai trattati conseguentemente firmati a livello bilaterale. Al contrario, è proprio tale natura che rende la Abraham Accords Declaration un punto di partenza cruciale. Infatti, premettere una dichiarazione di volontà a trattati da cui derivano obblighi giuridici significa implicitamente riconoscere la presenza di un ECC – cioè una lesione delle identità dei soggetti coinvolti – il quale, per le caratteristiche peculiari descritte in precedenza, necessita di essere trattato attraverso un approccio non invasivo. Inoltre, sebbene i soggetti firmatari siano degli Stati, è possibile sostenere che i veri destinatari degli accordi siano rappresentati dalle rispettive comunità nazionali, ovvero dai popoli. Se si assume la prospettiva degli ECC, infatti, il fattore umano risulta essere baricentrico, nella misura in cui la dimensione dell’identità, propria di un popolo e non di uno Stato in senso stretto, venga ritenuta la chiave di volta su cui intervenire per dissolvere il conflitto nel lungo periodo.

Il contesto su cui si innestano gli Accordi di Abramo è quello di una conflittualità di tipo identitario tra popoli che nel corso dei decenni ha creato una condizione di incomunicabilità; tra Israele – il quale si definisce uno “Stato ebraico e democratico” – e il mondo arabo-islamico – di cui con declinazioni differenti fanno parte Bahrein, EAU, Marocco e Sudan. Pur non avendo mai combattuto una guerra contro Israele, in passato tali Paesi non hanno proceduto a normalizzare le relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico proprio per la presenza di una latente conflittualità di tipo identitario che divideva i rispettivi popoli, la cui identità è fortemente influenzata da un’affiliazione di tipo etnico-religioso. Quand’anche avessero voluto, le classi dirigenti di tali Paesi arabi non avrebbero potuto tentare una mossa di questo genere per non incorrere in un’ondata di contestazione proveniente dall’interno delle rispettive popolazioni.

Nel momento in cui tali Paesi, per ragioni anzitutto di carattere strategico, si sono trovati di fronte alla necessità di normalizzare le relazioni con Israele, hanno colto l’occasione per utilizzare una strategia negoziale innovativa che potesse coinvolgere non solo i governi, ma anche le rispettive popolazioni, al fine di creare una pace più duratura. Il primo passo in tale direzione è stata la firma della Abraham Accords Declaration che, simbolicamente, può essere interpretata come la dinamica integrativa in grado di dare slancio a un processo di conversione relazionale tra i popoli degli Stati firmatari. L’obiettivo ultimo è rappresentato dalla volontà di creare connessioni trasversali (Crosscutting connections) e di rimodellare l’identità relazionale dei soggetti coinvolti, accantonando l’ipotesi di un mutamento delle rispettive core identity – proprio al fine di non innescare il Tribes Effect. Nella fase di ristrutturazione della relazione identitaria, delle tre opzioni possibili (separation, assimilation, synthesis) le parti hanno scelto di perseguire il percorso della synthesis, che consiste nella creazione di un cerchio identitario più grande che possa comprendere al suo interno le core identity di ciascun soggetto coinvolto, andando contemporaneamente a rimodellare le rispettive relational identity, al fine di creare una condizione di coesistenza pacifica.

In effetti, leggendo la Abraham Accords Declaration, è possibile osservare come le parti abbiano voluto anzitutto fissare dei principi guida, i quali rappresentano il contenuto che dà forma al nuovo cerchio identitario – definibile come il cerchio abramitico. Questo si presenta come un tentativo di creare un minimo comune denominatore identitario su cui imbastire il processo di integrazione tra popoli. Persino la scelta lessicale non è casuale: richiamare la figura di Abramo, capostipite da cui si fanno convenzionalmente discendere le tre religioni monoteistiche – ebraismo, cristianesimo e islam – suggerisce la volontà di risalire alla fonte identitaria comune che lega i popoli in conflitto. 

Nella suddetta dichiarazione i firmatari «riconoscono l’importanza di mantenere e rafforzare la pace nel Medio Oriente e nel mondo attraverso una mutua comprensione e coesistenza», così come la necessità di riconoscere «il rispetto della libertà e della dignità umana, inclusa la libertà religiosa». Scorrendo ulteriormente il testo, viene incoraggiata la «promozione del dialogo inter-religioso e inter-culturale» per avanzare la cultura della pace tra le tre religioni abramitiche e l’intera umanità. Un altro passaggio chiave è quello in cui le parti si impegnano a salvaguardare «la tolleranza e il rispetto per ciascun individuo, indipendentemente dalla propria appartenenza etnica e religiosa».

Al fine di trasformare tali principi, all’apparenza molto generici, in atti concreti, le parti hanno compreso la necessità di procedere alla costituzione di Crosscutting Connection, individuando una serie di settori di cooperazione attraverso cui avvicinare le rispettive popolazioni, quasi costringendole a un’inconscia mescolanza: dalla scienza all’arte, dalla medicina al commercio. Fissata la cornice della nuova relazione, gli accodi bilaterali tra Israele e i singoli Paesi arabi hanno dettagliato materialmente le modalità attraverso cui si intende esplicare questo processo di integrazione. Prendendo come esempio il trattato firmato da Israele ed Emirati Arabi Uniti, è possibile individuare i settori in cui le parti si sono impegnate a cooperare: finanza e investimenti; collegamenti aerei; visti e servizi consolari; innovazione; commercio ed economia; sanità; scienza e tecnologia; turismo, cultura e sport; energia; ambiente; istruzione; cooperazione marittima; telecomunicazioni e poste; agricoltura e sicurezza alimentare; risorse idriche; cooperazione in materia legale. Andando a creare delle forme di integrazione concrete in tali settori, l’incentivo a sabotare la nascente cooperazione risulterà decrescente col passare del tempo. Infatti, un’azione di sabotaggio non farebbe che impattare negativamente su tutte le parti coinvolte.

Per concludere è opportuno ribadire che il processo di conversione relazionale innescato dalla firma degli Accordi di Abramo si presenta come un processo in fieri che, per una valutazione complessiva, necessita di essere analizzato nelle sue ramificazioni di medio e lungo periodo. Ciò che invece è possibile cogliere fin da subito è la direzione che tali accordi hanno inteso tracciare, la quale si traduce nel tentativo di rimodellare l’identità relazionale delle popolazioni coinvolte, fornendo gli strumenti attraverso cui dissolvere un ECC nel lungo periodo, e costruendo per le generazioni future un futuro migliore. Un ultimo aspetto da sottolineare è rappresentato dalla replicabilità di tale strategia negoziale. Gli strumenti negoziali e interpretativi concettualizzati da Shapiro, infatti, non solo sono rinvenibili in casi del passato, ma si presentano come un modello applicabile in futuro a tutti gli ECC, cioè ai conflitti che vedono lesa l’identità delle parti coinvolte (sia a livello individuale, sia a livello collettivo), i quali in definitiva si presentano come dei conflitti irrisolvibili solo all’apparenza: insomma, facendo leva sull’identità (relazionale) si può tentare di negoziare anche ciò che appare “non negoziabile”.

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