Al fine di trasformare le forze che stanno dietro a un conflitto da ostacoli a fonti di opportunità e disinnescare il Tribes Effect Shapiro ha introdotto un metodo definito Relational Identity Theory. Il cuore pulsante di tale strategia risiede nella volontà di lavorare non già sull’identità in senso stretto (Core Identity), quanto sullo spazio che intercorre tra le differenti identità di cui le parti in conflitto si fanno portatrici (Relational Identity). Spostare il baricentro del conflitto dai soggetti allo spazio interazionale che li divide significa, in altre parole, modellare delle identità relazionali che possano tra loro coesistere.
Al momento dell’interazione, in cui prende forma l’identità relazionale di ciascun soggetto coinvolto, entrano in gioco due forze contrastanti: affiliation e autonomy. Al fine di costruire relazioni cooperative è necessario comprendere di cosa si tratta e operare un giusto bilanciamento tra le stesse. Da una parte, l’affiliazione denota la volontà di connessione emozionale di ciascun soggetto con una persona o un gruppo. Dall’altra, l’autonomia si riferisce all’abilità del medesimo soggetto di esercitare la propria volontà senza sottoporsi a imposizioni originanti da altri. In un conflitto la principale “sfida relazionale” è quella di soddisfare contemporaneamente tale duplice desiderio. Da un lato, la pulsione che tende a identificare ciascun soggetto come un tutt’uno con l’altra parte (affiliation); dall’altro, la necessità di percepirsi come un qualcosa di alternativo rispetto all’altro (autonomy). A tale livello pertanto la sfida si traduce nella capacità delle parti in conflitto di produrre una condizione in cui poter coesistere come due soggetti distinti ma anche, simultaneamente, come un unico soggetto composto da un insieme di due.
Al fine di produrre questa condizione di equilibrio è necessario servirsi del potere delle così dette Integrative Dynamics. Si tratta di quelle forze in grado di spingere le parti verso una maggiore connessione, sino alla creazione di un’unità trascendente, cioè uno stato in cui la dualità tra i soggetti si risolve in una condizione di “unità nella separazione”. Per sfruttare tali dinamiche in maniera positiva è richiesto un lungo processo di trasformazione, definito di “conversione relazionale”. Tali dinamiche integrative, complessivamente, devono incardinarsi sui seguenti principi: armonia, non linearità, passato e futuro. L’obiettivo di ciascuna parte non deve essere la vittoria ma il raggiungimento di una stabilità pacifica (armonia); il percorso verso tale condizione non è lineare ma ci si deve preparare a momenti di avanzamento e retrocessione (non linearità); infine, ciascun soggetto deve porsi la questione di come onorare il passato aspirando allo stesso tempo a costruire un futuro migliore (passato e futuro).
Entrando nel merito, la costruzione di dinamiche integrative si compone di quattro step distinti. Le prime due fasi sono volte a decostruire il passato e vengono definite da Shapiro «la riscoperta dei miti dell’identità» e «il processo di elaborazione tramite dolore emozionale». Le seconde due al contrario ambiscono a dar forma alla relazione futura, e corrispondono al processo di «costruzione di connessioni trasversali» e alla «ristrutturazione della relazione». In questo processo di conversione relazionale il passato e il futuro sono egualmente rilevanti. Le esperienze passate, infatti, influenzano le relazioni emozionali presenti alla stessa maniera di come quelle presenti influenzeranno le relazioni future. A tale livello, la questione cruciale risiede nella capacità di onorare il passato e, nel medesimo tempo, costruire un futuro migliore. Considerata l’esigenza di brevità, in questa sede, di queste quattro fasi verranno prese in considerazione soltanto le ultime due. In primo luogo è necessario creare delle Crosscutting Connection, cioè dei legami trasversali concreti che aiutino ad avvicinare le parti in conflitto. Tali legami possono essere di tre tipi: fisici, personali – vicinanza emozionale – e strutturali – comune appartenenza a un gruppo. Essi si creano andando a individuare settori di cooperazione scarsamente caricati di significato identitario, cioè punti di contatto concreti su cui è più facile cooperare senza incorrere in lesioni dell’identità. A ben vedere, l’essenza degli Accordi di Abramo risiede non tanto nella volontà di creare degli obblighi giuridici fra Stati (sfera della razionalità), quanto – piuttosto – nella volontà di porre le basi affinché si creino delle Crosscutting Connection fra i popoli, in una prospettica di lungo periodo (sfera della emozionalità-identità). Come si dirà meglio in seguito, a tale fine possono ascriversi i settori di cooperazione tra Paesi firmatari degli accordi: dall’economia all’energia, dalla cultura al turismo.
Dopo aver opportunamente costruito tali connessioni trasversali è possibile procedere con la fase della ristrutturazione della relazione sulla base della riformulazione dell’identità relazionale di ciascuna parte. La riformulazione dell’identità relazionale può avvenire attraverso una metodologia definita da Shapiro SAS System (separation, assimilation, synthesis). L’obiettivo ultimo è quello di creare una condizione di coesistenza. A tale proposito si identificano tre step intermedi per raggiungerla. Per iniziare, è necessario comprendere qual è la posta in gioco nel conflitto. Dopodiché si procede ad analizzare tre diversi possibili scenari per la coesistenza. Il primo consiste nell’allontanamento fisico o psicologico tra le parti (separation); il secondo prevede l’incorporamento di una porzione dell’identità di un soggetto da parte dell’altro (assimilation); il terzo consiste nella riconfigurazione dell’identità relazionale delle parti, attraverso la creazione di un cerchio identitario più ampio che possa contenerle entrambe (syntesis). Dopo aver visualizzato le tre strade percorribili, i soggetti possono selezionare quello che ritengono preferibile e procedere alla riformulazione della propria relazione. Si badi bene: la prima opzione (separation) di fatto opera un mero congelamento del ECC; la seconda alternativa (assimilation) prevede la sconfitta di una delle due parti; la terza (synthesis) può essere vista come un’opzione che garantisce “affiliazione nell’autonomia” risultando quindi in grado di dissolvere il ECC. In tal caso, infatti, si procede alla costruzione di un cerchio identitario entro cui tutti i soggetti del conflitto possano riconoscersi – si ricordi la strategia alla base dell’azione di Papa Francesco. Cosa si intende per cerchio identitario? Si tratta di una soluzione al problema che va ricercata non all’interno dell’identità stessa di ciascun soggetto ma immaginando una soluzione identitaria esterna, più ampia, cioè un minimo comune denominatore identitario entro cui i soggetti coinvolti possano riconoscersi.
Bridging the divide: gli Accordi di Abramo come dinamiche integrative di dissoluzione del ECC
Dando per assunte le cause che hanno spinto ciascuna parte al tavolo negoziale è ora utile comprendere in che modo tali attori abbiano inteso dar forma alle proprie relazioni, attraverso la firma degli Accordi di Abramo. In particolare, si prenderà come oggetto dell’analisi la Abraham Accords Declaration, per due ragioni di fondo. In primo luogo, perché si tratta dell’unico atto firmato da tutti i Paesi parte del framework di Abramo. In secondo luogo, per la natura stessa dell’atto. Trattandosi di una dichiarazione di intenti, si potrebbe credere che la sua valenza sia inferiore rispetto ai trattati conseguentemente firmati a livello bilaterale. Al contrario, è proprio tale natura che rende la Abraham Accords Declaration un punto di partenza cruciale. Infatti, premettere una dichiarazione di volontà a trattati da cui derivano obblighi giuridici significa implicitamente riconoscere la presenza di un ECC – cioè una lesione delle identità dei soggetti coinvolti – il quale, per le caratteristiche peculiari descritte in precedenza, necessita di essere trattato attraverso un approccio non invasivo. Inoltre, sebbene i soggetti firmatari siano degli Stati, è possibile sostenere che i veri destinatari degli accordi siano rappresentati dalle rispettive comunità nazionali, ovvero dai popoli. Se si assume la prospettiva degli ECC, infatti, il fattore umano risulta essere baricentrico, nella misura in cui la dimensione dell’identità, propria di un popolo e non di uno Stato in senso stretto, venga ritenuta la chiave di volta su cui intervenire per dissolvere il conflitto nel lungo periodo.
Il contesto su cui si innestano gli Accordi di Abramo è quello di una conflittualità di tipo identitario tra popoli che nel corso dei decenni ha creato una condizione di incomunicabilità; tra Israele – il quale si definisce uno “Stato ebraico e democratico” – e il mondo arabo-islamico – di cui con declinazioni differenti fanno parte Bahrein, EAU, Marocco e Sudan. Pur non avendo mai combattuto una guerra contro Israele, in passato tali Paesi non hanno proceduto a normalizzare le relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico proprio per la presenza di una latente conflittualità di tipo identitario che divideva i rispettivi popoli, la cui identità è fortemente influenzata da un’affiliazione di tipo etnico-religioso. Quand’anche avessero voluto, le classi dirigenti di tali Paesi arabi non avrebbero potuto tentare una mossa di questo genere per non incorrere in un’ondata di contestazione proveniente dall’interno delle rispettive popolazioni.
Nel momento in cui tali Paesi, per ragioni anzitutto di carattere strategico, si sono trovati di fronte alla necessità di normalizzare le relazioni con Israele, hanno colto l’occasione per utilizzare una strategia negoziale innovativa che potesse coinvolgere non solo i governi, ma anche le rispettive popolazioni, al fine di creare una pace più duratura. Il primo passo in tale direzione è stata la firma della Abraham Accords Declaration che, simbolicamente, può essere interpretata come la dinamica integrativa in grado di dare slancio a un processo di conversione relazionale tra i popoli degli Stati firmatari. L’obiettivo ultimo è rappresentato dalla volontà di creare connessioni trasversali (Crosscutting connections) e di rimodellare l’identità relazionale dei soggetti coinvolti, accantonando l’ipotesi di un mutamento delle rispettive core identity – proprio al fine di non innescare il Tribes Effect. Nella fase di ristrutturazione della relazione identitaria, delle tre opzioni possibili (separation, assimilation, synthesis) le parti hanno scelto di perseguire il percorso della synthesis, che consiste nella creazione di un cerchio identitario più grande che possa comprendere al suo interno le core identity di ciascun soggetto coinvolto, andando contemporaneamente a rimodellare le rispettive relational identity, al fine di creare una condizione di coesistenza pacifica.
In effetti, leggendo la Abraham Accords Declaration, è possibile osservare come le parti abbiano voluto anzitutto fissare dei principi guida, i quali rappresentano il contenuto che dà forma al nuovo cerchio identitario – definibile come il cerchio abramitico. Questo si presenta come un tentativo di creare un minimo comune denominatore identitario su cui imbastire il processo di integrazione tra popoli. Persino la scelta lessicale non è casuale: richiamare la figura di Abramo, capostipite da cui si fanno convenzionalmente discendere le tre religioni monoteistiche – ebraismo, cristianesimo e islam – suggerisce la volontà di risalire alla fonte identitaria comune che lega i popoli in conflitto.
Nella suddetta dichiarazione i firmatari «riconoscono l’importanza di mantenere e rafforzare la pace nel Medio Oriente e nel mondo attraverso una mutua comprensione e coesistenza», così come la necessità di riconoscere «il rispetto della libertà e della dignità umana, inclusa la libertà religiosa». Scorrendo ulteriormente il testo, viene incoraggiata la «promozione del dialogo inter-religioso e inter-culturale» per avanzare la cultura della pace tra le tre religioni abramitiche e l’intera umanità. Un altro passaggio chiave è quello in cui le parti si impegnano a salvaguardare «la tolleranza e il rispetto per ciascun individuo, indipendentemente dalla propria appartenenza etnica e religiosa».
Al fine di trasformare tali principi, all’apparenza molto generici, in atti concreti, le parti hanno compreso la necessità di procedere alla costituzione di Crosscutting Connection, individuando una serie di settori di cooperazione attraverso cui avvicinare le rispettive popolazioni, quasi costringendole a un’inconscia mescolanza: dalla scienza all’arte, dalla medicina al commercio. Fissata la cornice della nuova relazione, gli accodi bilaterali tra Israele e i singoli Paesi arabi hanno dettagliato materialmente le modalità attraverso cui si intende esplicare questo processo di integrazione. Prendendo come esempio il trattato firmato da Israele ed Emirati Arabi Uniti, è possibile individuare i settori in cui le parti si sono impegnate a cooperare: finanza e investimenti; collegamenti aerei; visti e servizi consolari; innovazione; commercio ed economia; sanità; scienza e tecnologia; turismo, cultura e sport; energia; ambiente; istruzione; cooperazione marittima; telecomunicazioni e poste; agricoltura e sicurezza alimentare; risorse idriche; cooperazione in materia legale. Andando a creare delle forme di integrazione concrete in tali settori, l’incentivo a sabotare la nascente cooperazione risulterà decrescente col passare del tempo. Infatti, un’azione di sabotaggio non farebbe che impattare negativamente su tutte le parti coinvolte.Per concludere è opportuno ribadire che il processo di conversione relazionale innescato dalla firma degli Accordi di Abramo si presenta come un processo in fieri che, per una valutazione complessiva, necessita di essere analizzato nelle sue ramificazioni di medio e lungo periodo. Ciò che invece è possibile cogliere fin da subito è la direzione che tali accordi hanno inteso tracciare, la quale si traduce nel tentativo di rimodellare l’identità relazionale delle popolazioni coinvolte, fornendo gli strumenti attraverso cui dissolvere un ECC nel lungo periodo, e costruendo per le generazioni future un futuro migliore. Un ultimo aspetto da sottolineare è rappresentato dalla replicabilità di tale strategia negoziale. Gli strumenti negoziali e interpretativi concettualizzati da Shapiro, infatti, non solo sono rinvenibili in casi del passato, ma si presentano come un modello applicabile in futuro a tutti gli ECC, cioè ai conflitti che vedono lesa l’identità delle parti coinvolte (sia a livello individuale, sia a livello collettivo), i quali in definitiva si presentano come dei conflitti irrisolvibili solo all’apparenza: insomma, facendo leva sull’identità (relazionale) si può tentare di negoziare anche ciò che appare “non negoziabile”.