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TematicheRussia e Spazio Post-sovieticoUna ricostruzione degli eventi in Russia prima dello scoppio...

Una ricostruzione degli eventi in Russia prima dello scoppio della guerra

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L’annuncio del Presidente Putin di “un’operazione militare speciale” in Ucraina all’alba del 24 febbraio 2022 rappresenta il culmine di una lunga escalation che Mosca ha avviato fin dallo scorso novembre. Le ragioni storiche dell’attacco russo risalgono agli eventi di trent’anni fa, al momento della disgregazione dell’Unione Sovietica e dei successivi allargamenti ad est della NATO. Secondo la narrazione del Cremlino, l’attacco su larga scala dell’Ucraina, attualmente ancora in corso, evidenzia la determinazione di Mosca di ridiscutere un sistema di sicurezza che, in Europa, tenga autenticamente conto degli interessi della Federazione Russa e del suo ritrovato peso politico-militare. Nel continuo susseguirsi di analisi e di aggiornamenti sull’evolvere della situazione sul campo, può essere altrettanto utile, per chi legge e commenta, ricapitolare le principali azioni e dichiarazioni di Mosca degli ultimi mesi in modo da avere una visione completa dei fatti che hanno portato all’annuncio presidenziale del 24 febbraio.

Dopo la crisi del 2014, il precipitare dei rapporti fra Federazione Russa ed Occidente ha conosciuto due forti accelerazioni. Un primo aumento delle tensioni si è avuto nella primavera del 2021, quando, oltre ad ordinare l’ammassamento di oltre 100.000 militari russi lungo il confine ucraino, Putin ha ricordato esplicitamente l’esistenza per Mosca di una linea rossa che l’Occidente non avrebbe dovuto oltrepassare senza innescare “una risposta russa asimmetrica, rapida e decisa”.  Tale linea rossa riguardava la destabilizzazione della Bielorussia e possibili nuovi allargamenti dell’Alleanza Atlantica. 

Nell’autunno 2021 Mosca ha avviato una nuova escalation. A partire dallo scorso 30 ottobre, nuovi massicci ammassamenti di truppe (tra i 90.000 e 120.000 militari) sono avvenuti nel Distretto Militare Meridionale russo lungo il confine con l’Ucraina, mentre l’Ucraina riceveva forniture di droni turchi TB2 e lanciamissili Javelin forniti dei paesi membri della NATO. Da allora, le tensioni sono aumentate in maniera incrementale portando a una prima telefonata fra Biden e Putin il 7 dicembre, che ha segnato l’inizio di una nuova fase nelle trattative diplomatiche fra Washington e Mosca.  

Decisa a non ripetere l’errore commesso alla fine della Guerra Fredda, quando Mosca non seppe strappare a Washington e ai suoi alleati occidentali garanzie di sicurezza legalmente vincolanti di non allargamento della NATO, il 17 dicembre 2021 Mosca ha richiesto a Washington che venisse redatto un documento ufficiale contenente il suddetto tipo di garanzie. Nel fare ciò Mosca accluse alla sua richiesta una prima proposta di trattato in modo da definire un punto di partenza per le nuove discussioni. Le richieste russe di garanzia erano incentrate sull’esclusione di qualsiasi nuovo allargamento della NATO, con particolare riferimento all’Ucraina (articolo 6), ma anche sull’interruzione delle esercitazioni militari in Europa Orientale (articolo 7) unitamente alla rinuncia al dislocamento di missili di medio e corto raggio in territori dai quali si potesse raggiungere il cuore della Russia (articolo 5). Deciso ad ottenere una risposta scritta a tali richieste e a non allentare la pressione lungo il confine russo-ucraino, il 22 dicembre Putin ha affermato: “[la Russia] non ha più spazio per retrocedere… se l’aggressività dei colleghi occidentali continua, prenderemo adeguate misure di risposta tecnico-militari e reagiremo duramente”. 

Un test di intervento “leggero” oltre i confini della Federazione è avvenuto tra il 6 e il 13 gennaio, quando il repentino svolgimento della crisi kazaka ha fornito a Mosca l’occasione per dispiegare – per la prima volta in riferimento all’articolo 4 della CSTO – le proprie forze militari in Kazakhstan nel corso della repressione delle proteste contro il governo Toqayev, testando così ulteriormente le proprie capacità di intervento militare rapido.  

Dopo l’intermezzo kazako, le diplomazie russa e occidentali si sono incontrate nuovamente tra il 10 e 13 gennaio nel corso di tre summit: lo Strategic Stability Dialogue a Ginevra, il Consiglio NATO-Russia a Bruxelles, e il vertice OSCE a Vienna. Data l’adesione al principio dell’open door policy dell’Alleanza Atlantica, l’evidente irricevibilità delle richieste russe, sia per Washington che per la NATO, ha determinato la sostanziale infruttuosità dei colloqui al cui termine Mosca ha ribadito di voler comunque ottenere una risposta scritta da parte di Washington alle sue richieste. 

Dopo la denuncia da parte di Kiev di un attacco cibernetico ai propri siti governativi il 14 gennaio, tre giorni più tardi il Ministro della Difesa inglese Ben Wallace ha annunciato alla Camera dei Comuni che il Regno Unito avrebbe fornito equipaggiamento militare difensivo e personale di addestramento militare a Kiev in vista di un’imminente invasione su larga scala dell’Ucraina da parte della Russia. Il 20 gennaio il Presidente americano Biden ha affermato che gli Stati Uniti avrebbero potuto tollerare “una piccola incursione” russa in territorio ucraino, causando imbarazzo in seno all’Amministrazione americana, rabbia presso la Presidenza ucraina e confusione fra gli Alleati. Il 22 gennaio il Ministro degli Esteri inglese Liz Truss informava invece che secondo report di intelligence Mosca era intenzionata ad installare un governo filorusso a Kiev. Nei giorni successivi Washington e Londra hanno così iniziato ad annunciare dapprima la graduale evacuazione del proprio personale diplomatico non essenziale e successivamente il trasferimento (15 febbraio) delle proprie rappresentanze a Leopoli nell’estremo est del paese. Questo innalzamento del livello di guardia delle cancellerie anglosassoni ha trovato corrispondenza in una progressiva pubblicazione di report di intelligence che denunciavano i piani di attacco russi. 

Dopo più di un mese dalle richiese di Mosca, il 26 gennaio Stati Uniti e NATO hanno trasmesso alla Russia delle risposte negoziali non formali. Il giorno successivo, il Ministro degli Esteri russo Lavrov si è espresso in merito al contenuto di tali risposte giudicandole materia per “negoziati seri solo su questioni di secondaria importanza”, quali controllo degli armamenti e aumento della trasparenza nelle esercitazioni militari. Le questioni essenziali per la Russia non risultavano però affrontate. Nello stesso intervento, Lavrov ha inoltre fatto riferimento alle dichiarazioni OSCE di Istanbul del 1999 e di Astana del 2010. Secondo il diplomatico russo, i paesi euroatlantici stavano applicando in maniera parziale il principio di sicurezza indivisibile sul continente europeo soffermandosi solo sulla prima delle due condizioni di tale principio (il diritto per un paese di aderire alle alleanze militari che desidera) ignorandone la seconda componente (obbligo di non rafforzare la propria sicurezza a scapito di quella di un altro membro OSCE, di cui la Russia fa parte). Punto ribadito in occasione di un colloquio telefonico con Blinken avvenuto il 1° febbraio su iniziativa americana. In questa occasione Lavrov ha altresì auspicato che gli Stati Uniti utilizzassero la propria influenza per spingere le autorità ucraine ad implementare gli accordi di Minsk

Una volta ricevute le duplici risposte scritte da parte di Washington e della NATO, la diplomazia bilaterale di Mosca si è intensificata. Il 1° febbraio Putin ha ricevuto a Mosca il Primo Ministro ungherese Orban, tradizionalmente critico nei confronti di un’ammissione dell’Ucraina alla NATO. Mentre il 3 febbraio Putin si è recato a Pechino in occasione dell’inizio delle Olimpiadi invernali, boicottate diplomaticamente dagli Stati Uniti. L’incontro con il Presidente Xi ha marcato una “nuova era” della convergenza strategica che dal 2014 ha progressivamente avvicinato Mosca a Pechino. Nel comunicato congiunto, mentre Mosca ha riconfermato la sua adesione alla One-China Policy, Pechino si è dimostrata concorde nell’inserire un paragrafo di comune opposizione a nuovi allargamenti della NATO. A coronare l’incontro è stata la firma di un nuovo contratto trentennale da regolare in euro per la rifornitura di gas russo alla Cina attraverso un nuovo gasdotto. La mossa segnala il tentativo di Mosca di attenuare le conseguenze che un’interruzione dei suoi flussi di gas sul mercato europeo potrebbe comportare, nonché la volontà sino-russa di emanciparsi dalla dipendenza dal dollaro. 

Tornato in patria, il 7 febbraio Putin ha ricevuto il Presidente francese Macron per un lungo incontro di cinque ore seguito nei giorni successivi da tre chiamate fra Putin e Macron, deciso a trovare fino all’ultimo una mediazione fra Washington e Mosca. Il 21 febbraio è però arrivata la chiusura del Cremlino, che ha definito la proposta francese di un nuovo vertice fra Putin e Biden ancora “prematura”.  Al premier francese hanno fatto seguito il resto delle leadership e diplomazie europee: l’inglese Truss il 10 febbraio, il 15 il tedesco Scholz (reduce da incontri a Kiev e Washington) e il polacco Rau, l’italiano Di Maio il 17 e il greco Dendias il 18. Nessuna visita ufficiale invece di rappresentanti dell’Unione europea. Nonostante il desiderio di tentare all’ultimo una mediazione, la spola diplomatica europea a Mosca può aver in realtà messo in luce i tentennamenti e le divisioni in seno all’Alleanza Atlantica e all’Unione europea. La lunga serie di incontri ravvicinati può essere così servita al Cremlino per verificare il grado di disunione dei paesi dell’Unione europea e la loro mancanza di autonomia dal volere americano, ricavandone le deduzioni necessarie. 

Il 12 febbraio, si registrano una nuova chiamata tra Blinken e Lavrov e l’intensificarsi degli avvertimenti circa l’imminenza di un’invasione russa da parte di Londra e Washington che, nel frattempo, stavano iniziando l’evacuazione del proprio personale diplomatico e invitando i cittadini a lasciare il paese. Il 10 febbraio era infatti iniziata l’esercitazione militare congiunta “Allied Resolve” di dieci giorni in territorio bielorusso fra Mosca e Minsk. La NATO ha definito l’operazione come “il più grande dispiegamento [militare] in un ex paese sovietico dalla Guerra Fredda”, stimando l’ammontare di militari russi partecipanti alle esercitazioni a circa 30.000 uomini. Ricordiamo inoltre che il 27 febbraio in Bielorussia si terrà il referendum costituzionale che permetterebbe alla Bielorussia di ospitare armi nucleari russe sul proprio territorio ponendo fine alla condizione di paese denuclearizzato in osservanza del Memorandum di Budapest del 1994. Poco prima della fine dell’esercitazione, il 18 febbraio Lukashenko si è invece recato direttamente a Mosca per un colloquio con Putin, il quale ha sottolineato i notevoli progressi fatti da Mosca e Minsk nell’ultimo anno per la creazione dell’Unione Russia-Bielorussia.

Dal 15 febbraio Mosca ha iniziato ad accelerare l’escalation. Su iniziativa del partito comunista, la Duma russa quindi ha votato una risoluzione che faceva appello a Putin affinché fossero riconosciute le repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk. Lo stesso giorno gli Stati Uniti hanno ritirato il personale militare che ancora avevano in Ucraina e spostato la propria ambasciata a Leopoli. Due giorni più tardi Mosca ha comunicato all’ambasciatore americano Sullivan la sua reazione scritta alle risposte americane ricevute il 26 gennaio precedente. Nel documento, si legge che “in assenza della disponibilità da parte degli Stati Uniti e dei suoi alleati ad accordarsi su ferme, e legalmente vincolanti, garanzie di sicurezza per la Russia, Mosca avrebbe risposto anche attraverso misure tecnico-militari.” 

Il 18 febbraio è così iniziata l’evacuazione dei civili dalle repubbliche separatiste del Donbass verso la regione russa di Rostov. Un’operazione ampiamente ripresa e diffusa dai media di stato russi in quella che appariva come la preparazione di un casus belli, soprattutto se la si associa all’utilizzo della parola “genocidio” nei confronti delle popolazioni del Donbass che Putin ha più volte utilizzato in riferimento alla loro condizione e alludendo spesso provocatoriamente al precedente NATO del Kosovo. Il 20 febbraio Mosca ha poi comunicato che le truppe presenti in Bielorussia sarebbero permaste anche oltre la fine dell’esercitazione.

Il 21 febbraio, il Consiglio di Sicurezza della Federazione è stato riunito da Putin nella Sala dell’Ordine di Santa Caterina (la stessa in cui firmò l’annessione della Crimea). La riunione, scenograficamente pensata per essere mandata in onda dalla tv, ha visto Putin consultare uno ad uno i membri del Consiglio circa il riconoscimento delle repubbliche separatiste del Donbass. Durante il Consiglio, il Ministro della Difesa Shojgu ha definito la situazione sul terreno simile a quanto si prospettava nel febbraio 2014, mentre Medvedev, Vicepresidente del Consiglio, ha ricordato il precedente, da lui stesso autorizzato, del riconoscimento dei territori separatisti in Georgia nel 2008. Nonostante tutti i membri mostrassero di condividere il parere del Presidente, la riunione ha visto un chiaro momento di imbarazzo tra l’insistenza di Putin e i tentennamenti del Capo dei servizi esterni Naryshkin. 

Poco più tardi Putin si è rivolto alla nazione annunciando di aver preso la decisione di riconoscere l’indipendenza delle due Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk, pur senza specificare quali confini Mosca riconoscesse loro (se quelli effettivi controllati dai separatisti o quelli da loro rivendicati). Nel discorso, dopo una ricostruzione delle origini storiche dell’Ucraina che metteva in dubbio l’autentica statualità ucraina e la sua dipendenza dalle concessioni territoriali fatte dai leader russi, Putin ha sottolineato le minacce alla sicurezza nazionale russa poste da un eventuale ingresso dell’Ucraina nella NATO. Putin ha altresì denunciato l’atteggiamento neonazista del governo di Kiev e il suo rifiuto ad implementare gli accordi di Minsk, facendo nuovamente riferimento al “genocidio” vissuto dalla popolazione del Donbass. Pochi minuti dopo, assieme ai due leader delle repubbliche del Donbass, Putin ha firmato un Trattato di amicizia e mutua assistenza fra la Federazione e le due repubbliche. La sera stessa dell’annuncio, Putin ha ordinato l’invio di truppe russe con compiti di peacekeeping nel Donbass. Riprendendo il discorso del Presidente russo, il giorno seguente il canale di stato Rossija24 ha invece pubblicato una provocatoria cartina dell’Ucraina che metteva in evidenza i “regali” fatti dai leader russi a quel paese nel corso della storia.

Sempre il 22 febbraio la Russia ha ordinato l’evacuazione della propria ambasciata da Kiev mentre il Consiglio Federale, camera alta del parlamento russo, ha autorizzato il Presidente ad utilizzare l’esercito russo all’estero. Nel mentre sono sopraggiunte le prime reazioni occidentali alla decisione russa del riconoscimento dei territori secessionisti. Prima fra tutte quella tedesca di sospendere l’avvio del Nord Stream 2. Il 23 febbraio, in occasione della Giornata dei difensori della Patria, è stato diffuso un nuovo video in cui veniva denunciata ancora una volta la pericolosità della NATO ed evidenziata la modernizzazione e la preparazione delle forze armate russe. 

Poche ore più tardi, all’alba del 24 febbraio, Putin è intervenuto con un nuovo discorso in cui veniva annunciata “un’operazione militare speciale” al fine di proteggere la popolazione dal “genocidio” perpetrato dal regime di Kiev e “di demilitarizzare e denazificare l’Ucraina”. Sottolineando l’iniquità dell’ordine internazionale guidato dagli Stati Uniti, al cui interno esisterebbe “un impero delle bugie”, e rievocando le passate guerre in Serbia, Iraq, Libia e Siria, Putin ha informato il paese che le repubbliche del Donbass avevano richiesto l’aiuto della Russia, che, secondo l’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, l’avrebbe accordato. Prefigurando l’operazione come un attacco preventivo, Putin ha poi proseguito affermando che “non è nostra intenzione occupare il territorio ucraino”, ma che si tratta di “un’azione per difendersi dalle minacce create per noi e da un pericolo peggiore di quanto stia accadendo”. Il discorso si è chiuso con un appello diretto al personale militare ucraino invitandolo a non combattere e ai cittadini russi a essere coesi e a supportare la decisione del Presidente. Pochi minuti dopo l’annuncio, alle ore 5 locali, sono iniziati i primi bombardamenti contro le basi aeree di Kiev e nuove truppe russe sono entrate in territorio ucraino. 

Nonostante le ripetute smentite nel corso degli ultimi mesi da parte di Mosca circa una sua invasione dell’Ucraina e l’apertura del processo negoziale che essa stessa aveva cercato e ottenuto da Washington, la rapidità con cui Putin ha all’ultimo optato per il riconoscimento delle repubbliche separatiste, affossando così accordi di Minsk che invece aveva sempre sostenuto, ha lasciato perplessi i più. La messa in scena televisiva dello stesso Consiglio di sicurezza del 21 febbraio ha comunque lasciato trapelare l’impressione che la decisione fosse meno condivisa di quanto si volesse esibire. Una parte della popolazione russa ha reagito con incredulità alla decisione e alcune prime proteste (essenzialmente di under 40) contro la guerra si sono infatti registrate nella sera del 24 febbraio a Mosca e San Pietroburgo. Le autorità sono subito intervenute arrestando i manifestanti.

Più che in passato, l’invasione può essere letta come un azzardo personale di Putin. L’uomo del Cremlino può aver letto nella divisione europea e nel rifiuto americano di difendere Kiev un’occasione irripetibile, da una parte, per portare a compimento la sua politica revisionista dell’ordine internazionale, dall’altra, per riparare allo smacco personale che lo vedrebbe, malgrado la retorica, come colui che perse Kiev. L’azzardo può rivelarsi estremamente costoso per il futuro politico di Putin. Tuttavia, come sottolinea Alexander Baunov, a differenza del 2014, questa volta Putin sembra essersi mostrato “indifferente all’approvazione popolare, preferendo agire non come un leader in bisogno di supporto, ma come una figura uscita dai libri di storia nazionale interessato esclusivamente all’approvazione degli storici e lettori del futuro”. Vero è che, come sottolinea Mara Morini, se l’azzardo si rivelasse fruttuoso, Putin riuscirebbe a consolidare ulteriormente il controllo sulle élite interne in vista delle elezioni presidenziali del 2024.

Le prossime settimane diranno se e con quale grado la mossa di Putin riuscirà a ripristinare l’influenza russa su Kiev e se, con un consolidato potere negoziale, Mosca sarà disposta a tornare al tavolo dei negoziati. Le ripercussioni saranno comunque più profonde e innescheranno ulteriori spinte revisioniste all’ordine internazionale a impronta occidentale con il rischio di frammentare ulteriormente la coesione in seno alla NATO. Lo dimostra il fatto che già la sera stessa dell’invasione, gli Alleati erano nuovamente divisi sul grado di durezza delle sanzioni da imporre alla Russia, con Germania, Italia e Ungheria che per il momento si oppongono all’esclusione punitiva della Russia dal circuito SWIFT. 

Essendo passata la parola alle armi, per avere una visione più chiara sarà necessario attendere la fine della fase bellica. Ma è evidente che i rapporti fra ovest ed est Europa hanno raggiunto un punto di svolta che era compatibile alle premesse. Nel complesso gioco di interessi che si è messo in moto, oltre evidentemente all’Ucraina, una delle vittime principali pare essere l’Unione europea, che si trova forse davanti alla sua ultima occasione per assumersi responsabilità concrete, sempre che sia in grado di mandare a Mosca qualcuno in grado di parlare per tutti. In tutto questo gli Stati Uniti, facendo quasi da spettatori, infliggono una severa lezione ai loro alleati; mentre la Russia si gioca le sue ultime carte offrendo un riscontro fattuale a ciò che in molti hanno pensato fosse solo un bluff.

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