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TematicheAfrica SubsaharianaRepubblica Democratica del Congo: la partenza anticipata della Monusco

Repubblica Democratica del Congo: la partenza anticipata della Monusco

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Dopo le manifestazioni di quest’estate, una parte della popolazione congolese ha chiesto la partenza anticipata della Missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite nella Repubblica Democratica del Congo (Monusco). Presente nel paese da 22 anni, è una delle missioni più grandi e costose al mondo, con un budget annuale di 1,5 miliardi di dollari e circa 14.000 peacekeepers sul terreno. Ma la sua efficacia è messa in discussione dalla popolazione congolese, soprattutto nella regione del Sud Kivu, dove i civili sono vittime di numerosi gruppi armati locali e stranieri.

Il sentimento “anti-Monusco”

Nell’est del Paese, da Uvira a Butembo, passando per Goma, la popolazione manifesta dallo scorso 25 luglio per chiedere la partenza della missione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione nella Repubblica Democratica del Congo (in francese: Mission de l’Organisation des Nations unies pour la stabilisation en République démocratique du Congo – Monusco), istituita con la Risoluzione 1925 del Consiglio di sicurezza dell’ONU e operativa dal primo luglio 2010. In totale, queste manifestazioni, insieme a un “incidente” che ha coinvolto i soldati della brigata d’intervento della Monusco, i quali hanno aperto il fuoco a Kasindi (al confine con l’Uganda), hanno provocato 36 morti, tra cui 4 peacekeepers, e 170 feriti, secondo un rapporto ufficiale.  Il sentimento “anti-Monusco” è piuttosto forte, latente e ben radicato in una parte della popolazione, soprattutto nell’Est del paese. Nonostante il suo obbiettivo, ossia quello di proteggere i civili e consolidare la pace nel paese, la missione è accusata di essere inefficace nella lotta ai numerosi gruppi armati locali e stranieri che destabilizzano il Congo da decine di anni. Il contingente pakistano, circa 3.000 uomini che si trovano nel Sud Kivu da più di dieci anni, ha da poco fatto un’amara esperienza al riguardo. Uno di loro, infatti, è stato ucciso la notte del 30 settembre durante un attacco condotto, secondo l’esercito congolese, dai Twirwaneho, una milizia locale, contro il campo dei Minembwe.

Il ruolo dell’M23

A ciò si aggiunge la ripresa degli scontri con l’M23 (il Movimento ribelle del 23 marzo sostenuto da Ruanda e Uganda) e i discorsi un po’ ambigui delle Nazioni Unite, in particolare le recenti dichiarazioni del Rappresentante Speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite, Bintou Keïta. Nel suo discorso davanti al Consiglio di Sicurezza, tenutosi il 29 marzo 2022, egli ha affermato che l’M23 è sempre più armato e che, di fronte a ciò, la Monusco e l’esercito congolese non hanno i mezzi militari sufficienti per contrastarlo. Parole riprese dal portavoce della Monusco, Mathias Gillmannm, espulso dopo che a metà luglio in un’intervista a Radio France Internationale (RFI) aveva spiegato che il dispiegamento di gran parte delle risorse della missione e dell’esercito congolese nella lotta contro i ribelli dell’M23 aveva conseguenze negative su altre regioni. Secondo Kinshasa, queste dichiarazioni equivalgono a un riconoscimento dell’incapacità della Monusco di raggiungere i suoi obiettivi. A luglio, inoltre, di fronte al crescente malcontento della popolazione e al moltiplicarsi di azioni “anti-Monusco” in tutto il paese, il governo congolese ha chiesto una rivalutazione del piano di transizione che prevede il ritiro “graduale, progressivo e completo” della missione entro il 2024, concordato nel 2020 in una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. La partenza entro il 2024 rimane solo un calendario indicativo. Sono state infatti stabilite le condizioni minime per il ritiro delle forze di pace, come l’organizzazione di un’elezione presidenziale “credibile, trasparente, inclusiva e pacifica” nel dicembre 2023, secondo la scadenza costituzionale, o il ristabilimento dell’autorità statale nelle zone di conflitto. “La missione dovrà partire prima della scadenza. Dopo le elezioni del 2023, non ci sarà più motivo di restare”, ha dichiarato il capo di Stato, Felix Tshisekedi, in un’intervista rilasciata a RFI e France24 il 23 settembre. Inoltre, l’incapacità del Consiglio di Sicurezza e della rappresentanza della Monusco a Kinshasa di condannare pubblicamente e chiaramente il sostegno ruandese all’M23 ha fatto sì che la popolazione interiorizzasse l’idea che la Monusco sia in qualche modo complice o sostenitrice degli attacchi dell’M23, ma soprattutto che protegga il Ruanda. Davanti al Consiglio di Sicurezza, infatti, Bintou Keïta ha certamente sottolineato che l’M23 “si sta comportando sempre più come un esercito convenzionale e non come un gruppo armato”, ma si è guardata bene dal nominare il Ruanda. Il governo congolese ha approfittato di questo sentimento di sfiducia della popolazione per suggerire che la Monusco sia in qualche modo responsabile dell’insicurezza e debba, di conseguenza, andarsene. Questi discorsi hanno alimentato la rabbia popolare e hanno portato a manifestazioni, in alcuni casi, purtroppo, violente. Tuttavia, né la polizia, né l’esercito, né le autorità hanno dispiegato forze per gestire i manifestanti durante i giorni di protesta, come invece è solito fare. Questo suggerisce che questo malcontento, il sentimento anti-Monusco e il contesto di insicurezza nel paese, non siano in realtà così scomodi per il governo congolese, in quanto possono essere sfruttati al fine di ricreare un senso di coesione nazionale intorno alla politica del presidente candidato e portargli un’ondata di sostegno popolare.

Una partenza anticipata

Dopo oltre due decenni di presenza nella RDC, l’insicurezza permane e, per molti congolesi, la Monusco ha fallito il suo obiettivo di proteggere i civili. Se dieci anni fa l’opinione era principalmente a favore di un mandato più offensivo per la Monusco, ad oggi le richieste si sono gradualmente evolute fino ad esigere la sua partenza. Una partenza affrettata della missione, però, non è così auspicabile. Malgrado la sua incapacità odierna di contribuire alla stabilizzazione del paese e di contrastare l’M23, è comunque importante ricordare il ruolo che la Monusco ha svolto nel mitigare le azioni dei gruppi armati nella RDC durante gli ultimi 20 anni. Quando nel 2000 i caschi blu si sono dispiegati nella RDC sotto l’egida della Monuc, (in francese: Mission de l’Organisation des Nations Unies en république démocratique du Congo, 1999-2010), la missione Onu che ha preceduto la Monusco, il Paese era afflitto da molteplici sfide, tra cui la presenza di eserciti stranieri e gruppi armati che minacciavano la stabilità e l’integrità territoriale del paese. Le decisive operazioni congiunte Monuc-Fardc (le Forze Armate della Repubblica Democratica del Congo) contro questi gruppi nel Sud e Nord Kivu, nell’ex provincia Orientale e nel Maniema hanno contribuito in modo significativo a deteriorare le loro operazioni di terrore sulla popolazione civile e l’instabilità delle istituzioni. In collaborazione con molti partner nazionali, regionali e internazionali, la missione ha sostenuto il processo di pace che ha permesso il ripristino dell’autorità statale sul 90% del territorio e lo svolgimento delle elezioni presidenziali nel 2006. Oggi, una partenza anticipata della missione avrebbe soprattutto ripercussioni sulla logistica dell’esercito congolese. Gran parte del suo lavoro dietro le quinte consiste nel fornire un supporto militare e logistico che va dalla conduzione di voli di ricognizione alla consegna di razioni alimentari. Inoltre, la Monusco, al di là delle sue missioni di sicurezza, è anche una missione umanitaria, di protezione dei diritti umani, di facilitazione politica e, di conseguenza, sotto questi aspetti, non si può parlare di totale fallimento. Per questi motivi il suo futuro deve essere deciso in tutta razionalità e il suo ritiro in un quadro transitorio organizzato e in collaborazione con un governo congolese responsabile, dato che dietro questa partenza richiesta e desiderata sembrano nascondersi diverse questioni, due delle quali appaiono essenziali. In primo luogo, c’è una grande questione politica in gioco: le elezioni si terranno l’anno prossimo e la missione Onu diventerà, con il passare dei mesi, uno scomodo testimone. Sbarazzarsi della Monusco darebbe al governo mano libera per compiere qualsiasi tipo di manipolazione senza testimoni. Inoltre, il Ruanda e l’Uganda, così come gli altri Paesi confinanti, potrebbero agire indisturbati con i loro eserciti nell’est del paese dove da più di 20 anni sono protagonisti di massacri e dello sfruttamento illegale di risorse naturali. Un’economia di guerra che con il ritiro dei caschi blu troverà terreno ancora più fertile e che è redditizia per numerose parti, sia all’interno che a livello internazionale, al punto che l’instabilità della regione sembra essere vantaggiosa per tutti gli attori, tranne che per il popolo congolese.

Il 30 ottobre, l’Unione Africana (UA) ha dichiarato di essere estremamente preoccupata per il deterioramento della sicurezza nella zona orientale del paese. In una dichiarazione congiunta firmata dall’attuale presidente dell’Unione Africana, il senegalese Macky Sall, e dal presidente della Commissione dell’UA, Moussa Faki Mahamatm, “tutte le parti sono state invitate stabilire un cessate il fuoco immediato, per rispettare il diritto internazionale, la sicurezza dei civili e la stabilità dei confini di tutti i Paesi della regione”. Ad aggravare ulteriormente la situazione di instabilità, si è aggiunta l’espulsione dell’ambasciatore ruandese a Kinshasa annunciata lo scorso 29 ottobre dal portavoce del governo congolese Patrick Muyaya. La decisione è stata presa dopo che una riunione del Consiglio superiore di difesa della RDC, presieduto dal presidente congolese Felix Tshisekedi, ha riferito di “un massiccio arrivo di elementi dell’esercito ruandese” a sostegno dell’M23 “in vista di un’offensiva generale contro le posizioni delle forze armate congolesi”. La rinnovata tensione nell’est della RDC ha portato anche la Monusco ad “alzare il livello di allerta” delle sue truppe a sostegno delle forze armate congolesi nelle operazioni contro l’M23. 

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