Il viaggio da Belfast a Londonderry-Derry è durato poco meno di due ore. In treno ho conosciuto Tom, un simpatico irlandese calvo e nerboruto che lavora al consolato italiano. Gli chiedo com’è la situazione oggi nel Nord. Mi risponde a mezza bocca, mormorando appena, esprimendo rassegnazione piuttosto che tristezza. Quella rassegnazione tipica dei credenti che con grande dignità si trasforma in serena accettazione della volontà di Dio: “You know, there’s peace today. But it is not a real peace. We are still split”. Il prossimo 10 aprile saranno passati venti anni dalla firma degli Accordi del Venerdì Santo nel 1998. Sono curioso di vedere se qualcosa è cambiato, se le ferite lasciate da 3500 morti stiano guarendo.
Siamo arrivati in Irlanda cinque giorni prima, abbiamo già percorso più di cinquecento chilometri in pullman e circa novanta a piedi. Il nostro autista si chiama John, stempiato e rubicondo. La nostra prima tappa sono le Giant’s Causeway e Carrick-a-Rede sulla costa di fronte alla Scozia, quasi trecento chilometri dopo Dublino. Attraversiamo il confine con l’Ulster al primo albeggiare, costeggiando la Contea di Armagh, una delle zone di guerra più insanguinate nella storia del conflitto. I paramilitari repubblicani passavano il confine con l’Eire in queste zone per infiltrare armi, munizionamenti, uomini, esplosivi, mentre gli elicotteri dell’esercito inglese sorvolavano a bassa quota le campagne applicando la strategia della “pressione sul territorio” teorizzata da Lord Mountbatten, zio materno del Principe Filippo. Strategia che non gli impedì di saltare in aria nel 1979 per una bomba della Provisional IRA. Tuttavia è il paesaggio quello che ci colpisce. È uguale ma diverso dall’Eire, ce ne rendiamo conto alla prima fermata lungo la Dark Hedges di Ballymoney, meglio conosciuta dai fan de Il Trono di Spade come il set di “The King’s Road”. Le verdi campagne squadrate da filari di nodose e antiche querce, silenziosi testimoni del tempo, si incontrano con il cielo plumbeo, uniforme, steso su questa tormentata e bellissima terra.
Arriviamo a Belfast in serata, John ci lascia direttamente davanti al City Hall e mentre parcheggia ci racconta di quando per fare anche poche centinaia di metri in pieno centro fosse necessario passare attraverso numerosi check-point militari, tornelli e controlli. Indica una ad una le strade di accesso che all’epoca erano interdette durante il coprifuoco serale. Le scene che si vedono in Terra Santa erano comuni fino alla fine degli anni ’90 anche nel cuore di Europa. Ma oggi i check-point non ci sono più, gli elicotteri non circolano a bassa quota ossessivamente sulla città e le vie principali che si irradiano intorno al municipio ricordano per molti aspetti Londra. Dopo cena ci ritiriamo a dormire, l’indomani abbiamo le ore contate per visitare i cantieri navali e poi prendere il treno per Londonderry-Derry.

Eccoci dunque a chiacchierare con Tom. Abbiamo parlato a lungo, lui voleva sapere dell’Italia e io dell’Ulster. Mi chiede di Renzi, di un ristorante a Trastevere, delle Brigate Rosse e di Cossiga. Ci è voluto un nordirlandese per ricordarmi che i nostri anni di piombo non sono stati meno duri dei loro Troubles. Gli chiedo cosa ne pensi degli Accordi del Venerdì Santo, se condivide quello che mi ha detto una giovane scrittrice italiana che oggi vive a Belfast: “It’s a truce”. “A sullen truce”, mi risponde Tom ridendo e passandosi la mano sulle calvizie. Quel bizantinismo politico uscito dai negoziati del 1998 non ha messo fine al settarismo, ha cercato solo di creare le condizioni per gestirne le sue manifestazioni più violente. Provare a costruire ponti tra le comunità cattoliche e protestanti si è rivelato più difficile del previsto di fronte alla realtà che “our community” non è necessariamente un concetto inclusivo. La scuola, mi spiega Tom, è ancora in larga parte segregazionista e le amicizie intercomunitarie abbastanza rare. Il più grande passo avanti è stato passare dall’odio più cieco all’indifferenza. “Well, you just go about your business, so you do”.
“Ma ci sono atei in Irlanda del Nord?”, sbotto giocando. Tom ride ancora e, mentre raccoglie le sue cose per scendere alla successiva fermata, mi rifila quello che solo più tardi ho capito essere una vecchia e popolare gag: “Sure, the are Protestant atheists and Catholic atheists!”. La prossima fermata è Londonderry-Derry. Ho letto molto sui Troubles prima di partire ma della città so ben poco, per questo rimango sorpreso all’arrivo in stazione. Il treno ferma infatti sulla riva opposta del fiume che costeggia la città e nella luce del primo pomeriggio Derry sembra un suggestivo scorcio del Massachusetts. Non riesco a collegare questa cittadina a terribili fatti di sangue, ad una zona di guerra, ad una terra di nessuno. Il ventre della Bestia, chiuso negli angoli di Bogside, Shantallow, Creggan, l’area repubblicana che dal 1969 al 1972 si autoproclamò Free Derry e divenne una no-go zone, oggi ricorda una sonnolenta cittadina di provincia.

Attraversiamo il ponte di ferro e raggiungiamo l’altra sponda del Foyle dove caseggiati bassi si succedono uno dietro l’altro costruendo una sorta di anello che chiude le vie più interne, ognuna delle quali si inerpica verso la cittadella medioevale sulla cresta della collina. Avvicinandosi le strade iniziano a farsi deserte, pochissime persone passeggiano, i locali sono quasi tutti chiusi sebbene sia solo venerdì, i pochi passanti sono coppie di turisti o ragazzini. Poco fuori le antiche mura iniziamo a scorgere le prime bandiere unioniste, bianche a strisce rosse, che sventolano nel vento freddo di metà autunno. I pali della luce e i marciapiedi sono stati tinteggiati con il colore della Union Jack. Al di sotto delle mura da cui spuntano le severe guglie della Cattedrale di St. Columbus, di fronte ad un campetto sportivo recintato con sbarre di ferro dietro alla scuola elementare, ci imbattiamo nel murale più famoso della comunità protestante. Le lettere bianche su sfondo nero sembrano urlare. Londonderry West Bank Loyalists Still Under Siege. No Surrender. Sulla parete della casa accanto un cartello di qualche organizzazione no-profit ricorda che la violenza repubblicana ha ridotto drasticamente la percentuale di cittadini protestanti che vivono nella città. Si sentono sotto assedio proprio nella città che si fa un vanto dell’aver resistito all’assedio del 1689 durante la Gloriosa Rivoluzione.
Entriamo all’interno delle mura, attraversiamo un immaginario decumano fino al lato del barbacane esattamente opposto e da lì al Bogside. Il quartiere nazionalista repubblicano si trova al di sotto della città vecchia, fisicamente distaccato dai declivi della collina, come un avamposto perennemente sotto osservazione dall’alto che tende ad espandersi e risalire sulla cresta opposta. Mentre discendiamo la strada il Bogside appare come un enorme agglomerato urbano proletario, case tutte uguali rossicce e grigie che si succedono creando un labirinto di vie e viuzze. Fiero appare il muro bianco che, circondato da logore bandiere della Repubblica d’Irlanda, ci annuncia che: You are now entering Free Derry. Issata sul pennone c’è una bandiera catalana, sul vicino palo della luce quella palestinese insieme ad un ovale di Hezbollah: sembra che indipendentismi vari si siano dati appuntamento a quell’angolo di strada. Alle nostre spalle c’è il monumento ai prigionieri che si lasciarono morire di fame nel 1981 tra le sinistre mura di uno dei bracci H della prigione di Kesh. Viene spontaneo, in quel luogo, adottare un atteggiamento di rispetto, indipendentemente dalle proprie convinzioni politiche. Nell’incrocio di quelle poche vie si consumarono gli scontri di Derry e il massacro del Bloody Sunday del 1972, di cui il dovere del ricordo è assegnato ad una stele in pietra con i nomi delle vittime che i pochi nordirlandesi che si trovano a passarci davanti non guardano mai. Neanche uno sguardo sfuggente. Ci inoltriamo nella parte più chiusa del Bogside, girovagando per le vie interne dei caseggiati osservando i numerosi murali che inneggiano ai martiri della causa repubblicana, che chiedono la fine delle carcerazioni, la liberazione di qualcuno, di unirsi all’IRA o che semplicemente dicono di fare attenzione ai cecchini. Sebbene l’amministrazione cittadina abbia fatto un enorme sforzo di riqualificazione urbana la maggior parte delle abitazioni sono tutt’ora molto umili, basse, a due piani con i mattoncini rossi e marroni. Nelle zone più interne incrociamo giusto qualche bambino che gioca ma nessun adulto, poche macchine che girano e ancora meno turisti. Ad essere sinceri, mentre sta calando il sole, ci rendiamo conto di essere gli unici stranieri all’interno del Bogside. Decidiamo di smetterla con le foto, per non abusare della ospitalità degli abitanti. Del resto murali e cartelli sono sui muri di case private, spesso nel perimetro dei loro piccoli cortili. Riguadagniamo l’uscita dal quel labirinto con una sensazione di inquietudine, di disagio. Aggiriamo l’angolo di Free Derry e sostiamo per qualche minuto di fronte al Bogside Inn, un vecchio pub di legno e muratura con le pareti intonacate di verde e sporcate dall’usura e dai graffiti dell’IRA. Alzando gli occhi si può guardare direttamente ai vecchi edifici che ospitavano una base militare inglese nella cittadella medioevale e immaginarsi quanti giovani della nostra età uscendo o entrando da quel pub maledissero i propri vicini. Adesso c’è solo una anziana signora seduta sul muretto vicino che ci osserva con un misto di fastidio e indifferenza.
Risaliamo lungo la collina e passato il barbacane decidiamo di ritornare sui nostri passi seguendo il cammino di ronda superiore della cinta muraria. Ed ecco che torniamo a dominare sui quartieri cattolici, da una zona che con le piccole chiese gotiche e i platani spogli ricorda i viali del Trinity College, non fosse per quelle alte cancellate con reti metalliche per evitare i lanci di pietre e molotov. La vista dal cammino di ronda però è bellissima, con il tramonto e la luce che degrada sul Bogside e la croce di una chiesa cattolica sullo sfondo. I vecchi cannoni che tra le feritoie puntano su Free Derry fanno uno strano effetto ma nell’osservare la prospettiva mi rendo conto che murali, graffiti e cartelli non sono unicamente sui muri delle case del Bogside ma anche sui tetti. Accanto ad una bandiera repubblicana, a chiare lettere, è scritto ancora una volta: End British Internment, IRA. La questione dei prigionieri politici è particolarmente calda, molti di loro non sono mai stati scarcerati e altrettanti continuano ad entrare ed uscire dalle patrie galere: da quando poi dal 2010 sono stati assassinati almeno una dozzina di ex paramilitari repubblicani a Belfast e dintorni, in buona parte vittime di regolamenti di conti interni alla frastagliata galassia nazionalista cattolica, la condizione di molti personaggi noti e meno noti, così come la questione del sostegno economico e psicologico alle loro famiglie, è tornata prepotentemente a catturare l’attenzione dell’opinione pubblica. Decidiamo di affrettare i tempi e di provare a prendere il treno delle sette e trenta per tornare a Belfast. Percorriamo tutto il perimetro del cammino di ronda girando intorno alla cittadella per ritornare al barbacane da cui siamo entrati, di fronte all’area protestante unionista. Dalle feritoie si scorgono le Union Jack, a neanche tre chilometri in linea d’aria con il Bogside e il suo tricolore repubblicano.

Rientriamo a Belfast alle nove passate. Il mattino dopo ci alziamo di buon’ora, raggiungiamo il City Hall e da lì, circa un isolato prima della Chiesa di St. Mary e del campus universitario, ci dirigiamo a West Belfast.
Sebbene tra il centro e la periferia suburbana non esistano barriere naturali, si ha come la percezione che questa zona di Belfast sia separata dal resto della città, come segregata. Quasi a voler contenere la sua storia fatta di violenza, di povertà e di lotta. A vent’anni di distanza dagli Accordi del Venerdì Santo in questa area esistono ancora 99 “muri della pace”, barriere di cemento, filo spinato, cancellate, che separano la comunità cattolica da quella protestante come a Cupar Way. A settembre il Dipartimento di Giustizia dell’Irlanda del Nord ha affermato che le barriere saranno tutte rimosse entro il 2023 nell’ambito del programma: Together: Building a United Community. Ma come mi ha ben spiegato Tom, da queste parti comunità non ha una semantica inclusiva.Arriviamo all’imbocco di Shankill Road, l’area protestante unionista, e una piccola costruzione di mattoni rossi ci accoglie con una scritta rossa e una mappa del quartiere: Welcome to Shankill. Accanto disegni stilizzati di comandanti paramilitari dell’UDF, della West Belfast Brigade, dello UFF e dell’UDA. Un unico grande viale si allunga per diversi chilometri, aprendosi sui lati ai vari bastioni unionisti, ai pub, alle case, ai centri di recupero e reinserimento, ai negozi. È una giornata cupa, piovosa, tipicamente irlandese. Mentre camminiamo ci passa accanto un cab e mi torna in mente che negli anni ’70, proprio in questo quadrato, si aggiravano su un taxi nero i macellai di Shankill, una banda di psicopatici che con la scusa della lotta armata sequestravano e mutilavano cattolici e “traditori” abbandonandone i corpi come monito in mezzo alle strade. Una delle tante storie folli di quei folli anni. Tuttavia adesso non c’è nulla di tutto ciò, il famoso pub dove si riuniva la banda è stato demolito anni fa, sono stati fatti tentativi di riqualificazione e riprogettazione urbanistica ma ecco che murali e cancelli riportano le buone intenzioni alla realtà di una tregua sostenuta unicamente dai mutamenti demografici e dall’incapacità aggregativa delle formazioni più agguerrite come quelle della Real IRA o delle forze lealiste. Perché a West Belfast forse non si spara più, ma l’atmosfera e gli umori non sono poi così tanto cambiati. Ogni anno la prima decina di luglio è un periodo di tensioni, con i gruppi protestanti che marciano per ricordare la vittoria di Guglielmo d’Orange sul Re cattolico Giacomo II. Proprio la Battaglia di Boyne mise fine una volta per sempre alle speranze cattoliche di vedere un giorno un cattolico ascendere al trono di San Giacomo. Ed eccoli con le loro divise, i loro canti e i loro falò dove bruciano il tricolore repubblicano e altri simboli cari ai nazionalisti. Nel 2013 e nel 2015 queste marce sono esplose in violente rivolte di strada durate più di una settimana e nella recrudescenza degli scontri tra le due comunità. La Brexit non ha certamente favorito i numerosi tentativi di ricomposizione dei vari livelli di segregazione e ha sollevato la questione dei confini con l’Eire e del futuro degli Accordi del Venerdì Santo. Senza contare che, oramai, tutti i grandi leader politici capaci di tenere la barra al centro, sia da parte nazionalista sia da parte lealista, sono morti o molto anziani. Girovagando per Shankill entriamo in una delle aree più interne. I murali inneggiano ai martiri della causa lealista, a Re Giacomo III, al tenente Jackie Coulter, ai vari battaglioni paramilitari che controllavano la zona. Arriviamo di fronte ad un gigantesco murale, circondato da una piccola cancellata in ferro battuto, un umile memoriale dell’UDA e dell’UFF dedicato a Stevie “Top-Gun” McKeag, comandante militare della West Belfast Brigade morto per una overdose nel 2000. I lealisti lo ricordano come “un camerata caduto” per la causa unionista, i nazionalisti cattolici come poco meno che un brutale assassino. Accanto un altro murale con due uomini incappucciati, paramilitari del 2° Battaglione C.13 di Shankill Road. The Land of the Free Because of the Brave, è scritto sopra. Scattando alcune foto notiamo uno sparuto gruppo di persone lì vicino che ascoltano un signore di circa sessantacinque anni, capelli bianchi pressoché rasati, un orecchio a cavolfiore, mascella squadrata e pendente da bulldog e occhi cerulei totalmente spenti, quasi che non potessero riflettere la luce. Mi avvicino con discrezione. Si chiama “Mick”, è un ex paramilitare dell’UDA, assolutamente non pentito ma ormai pensionato. Oggi fa la guida a piccoli gruppi di turisti. Sta raccontando la sua storia personale, di come a diciannove anni avesse deciso di prendere le armi dopo che suo fratello era stato ammazzato in un agguato dell’IRA. Dice di aver conosciuto Stevie McKeag e racconta le circostanze della sua morte. Non c’è compiacimento in Mick, non cerca giustificazioni, né comprensione, ma credo abbia ben chiaro quale sia il prezzo morale e umano della lotta armata; a lui, e immagino a tutti quelli della sua generazione, sono sufficienti le proprie convinzioni, la certezza di aver combattuto per una causa giusta. Anche se, a distanza di tanti anni, molti hanno iniziato a chiedersi se la causa, per quanto giusta fosse, potesse giustificare la morte di così tanta gente. Ma forse è solo la saggezza del senno di poi a parlare perché, meno di una generazione fa, l’unico linguaggio con cui si comunicava in Irlanda del Nord era quello dell’odio più cieco. Uscendo da Shankill Road seguiamo il percorso a ritroso per ritornare sulla via principale, scendere qualche centinaio di metri e imboccare Falls Road, il quartiere cattolico nazionalista. Subito un muro con filo spinato e grate ci ricorda che esiste una sola Irlanda con 32 contee, che “PSNI, MI-5 and British Army are not welcome in this area” e che tutti supportano i prigionieri di guerra ancora detenuti dal governo inglese.
Come su Shankill Road, anche qui un lungo viale che si estende per qualche chilometro si affaccia su quartieri dormitorio, pub, vecchie palestre di pugilato, cancelli e filo spinato. Il lato destro, prima dell’incrocio con Northumberland Street, è un lungo muro di cemento coperto di murali che giocano sui temi più vari, dal ricordo dei morti alle lotte di indipendenza in giro per il mondo. Questi muri sono divenuti lo sfogo espressivo di un sentimento di malessere che si riconosce in situazioni di disagio simili, reali o percepite che siano, magari in Palestina, Catalogna, Sud Africa e così via. Continuiamo a girovagare senza una meta precisa per qualche ora, sotto la pioggia, nel silenzio interrotto solo dal passaggio di qualche macchina, attraverso le varie “peace lines” o i cancelli che, come su Northumberland Street, oggi sono aperti ma spesso di notte o durante giornate particolari, come quelle di luglio, vengono chiusi. Shankill Road, del resto, è ad appena un miglio e mezzo di distanza, perfettamente visibile a occhio; nelle zone più interne addirittura da finestra a finestra.
C’è la pace in Irlanda del Nord dal 1998, eppure mentre usciamo da Falls Road notiamo l’ennesima pattuglia della polizia su un Land Rover blindato per l’antisommossa, con giubbotti antiproiettile, scudi, caschi e mitragliatrici. È possibile immaginare di costruire una società civile quando le sue fondamenta sono ormai disintegrate, quando il sentimento più positivo che si possa provare nei confronti dell’altro è quello dell’indifferenza, del vivere su binari paralleli come se chi sta dall’altra parte del muro non esistesse o fosse solo un ospite sgradito che si è costretti a sopportare? Uscendo da West Belfast proviamo di nuovo quella strana sensazione di disagio che abbiamo sentito a Londonderry-Derry e a South Armagh, quasi che tutto ciò che avessimo visto fosse artificiale, una vetrina o un esemplare sotto formaldeide. C’è il silenzio dei cimiteri in quelle zone, rumoroso e carico di dolore. Una zona di guerra senza vera pace ma solo quiete. Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant.