È cambiato il colore del governo ma le criticità delle relazioni sino italiane rimangono le stesse. La fragilità dell’Italia nei rapporti con la Repubblica Popolare cinese, la cruciale importanza del mercato cinese per l’economia italiana, il Memorandum d’intesa usato per fini di politica interna, la sterile polemica tra schieramenti Pro Cina e Anti Cina, la sostanziale continuità della proiezione italiana nel Regno di Mezzo e la totale assenza di ogni riferimento alle libertà civili e ai diritti umani nelle missioni istituzionali a Pechino.
Negli scorsi mesi, per la prima volta nella recente storia repubblicana, il rapporto tra l’Italia e la Repubblica Popolare cinese è fortemente entrato nel dibattito politico. Ogni giorno si è parlato di “5G”, “Golden Power”, “Xi Jinping” e “neocolonialismo cinese” non nelle sempre più ridotte pagine dedicate agli esteri ma nella cronaca nazionale. Un paese geograficamente lontano e culturalmente molto distante dall’Italia è entrato a pieno titolo nel dibattito della politica, gli schieramenti venivano divisi tra filo Pechino e avversari della Cina mentre decine di mappe e infografiche illustravano il percorso della Nuova Via della Seta e l’incredibile avanzata dell’economia cinese.
L’approccio con cui il giornalismo italiano ha affrontato i rapporti sino italiani negli ultimi anni è lo specchio di quanto succede nel confronto politico. La mobilitazione permanente contro un nemico, la dicotomia tra incompetenza e capacità, la polarizzazione di ogni scelta di governo e il continuo processo di individuazione di responsabilità nell’avversario. Una dinamica aggravata dall’evidente negazione reciproca tra governo e opposizione attuata dalla Lega e dal Movimento 5 Stelle durante il governo giallo verde.
Molto è stato detto sul Memorandum of Understanding (MoU) siglato tra Italia e Cina, la principale accusa mossa al precedente governo è stata quella di aver avallato un’atto con forte valenza politica, senza il consenso degli alleati diplomatici. Una difesa postuma del Memorandum appare totalmente inutile, alla luce degli attuali avvenimenti politici, ma è tuttavia necessaria per commentare l’approccio alla politica estera italiana in Cina. Il MoU è stato probabilmente una mossa azzardata da parte del governo giallo verde, o meglio la valenza politica che è stata volutamente disegnata attorno all’accordo ha determinato un posizionamento dell’Italia eccessivamente sbilanciato.
Ben pochi commentatori hanno sottolineato come quell’accordo era il frutto del lavoro svolto dal precedente governo, attivissimo nella Repubblica Popolare cinese. L’opposizione era troppo impegnata a criticare la presunta svendita dell’Italia alla Cina mentre il governo, M5S soprattutto, era tutto volto a sottolineare le enormi possibilità dell’accordo. L’idea di un isolamento diplomatico dell’Italia a seguito dell’MoU, derivato da un mancato coordinamento con gli alleati strategici, era un’occasione troppo ghiotta per polarizzare il dibattito. Gli alleati dell’Italia, Washington in primis, erano stati puntualmente avvisati dell’imminente accordo e la richiesta arrivata d’oltreoceano era stata quella di stipulare un accordo dai contenuti condivisibili. Il linguaggio del Memorandum stipulato tra Cina e Italia è quello dell’Unione Europea, le differenze tra gli accordi precedentemente siglati tra la RPC e gli altri paesi europei sono sostanzialmente diversi. Il Memorandum italiano parla la lingua di Bruxelles, mentre gli altri ricordano più simili accordi siglati con paesi dell’Asia Centrale o del Sud est asiatico. L’MoU è anche il frutto di una trattativa tra Roma e Pechino e il Memorandum rimarrà come un modello futuro per tutti i paesi che intenderanno stipulare accordi con la Cina. Alcuni paesi europei, Lussemburgo e Svizzera, hanno siglato un accordo nei mesi immediatamente successivi e molti altri si apprestano a farlo nel prossimo anno. Rimangono dei dubbi, assolutamente legittimi, sulla necessità di siglare il Memorandum. L’impegno politico italiano, primo paese del G7 e membro fondatore della UE, a firmare un simile accordo è stato oggettivamente considerevole. La controparte cinese non è sembrata rilevante, si è trattato dei soliti accordi economici che pur promettendo interessanti sviluppi economici non corrispondono all’impegno politico speso a Roma.
Tuttavia l’MoU non è un documento vincolante e la rappresentazione dell’accordo come una svendita alla Cina è oggettivamente esagerata. La stampa mondiale ha ripreso fonti italiane, ma anche francesi, britanniche e tedesche, che hanno descritto l’MoU in maniera univoca, come una vera e propria cessione di sovranità alla Cina. I contenuti e il linguaggio dell’accordo così come la genesi dello stesso, che risaliva al precedente governo, sono stati volutamente accantonati. La politica estera e la rappresentazione dell’Italia al di fuori dei confini nazionali è sempre condizionata dagli equilibri interni alle vicende parlamentari. Una dinamica costante dell’Italia, che si è tuttavia accentuata negli ultimi anni con la polarizzazione sempre più forte del dibattito politico. Un approccio che ha di fatto trasformato qualsiasi valutazione sulle relazioni italo cinesi in una sorta di opposizione tra Pro Cina e Anti Cina. Una dicotomia che non ha ragione di esistere, la Repubblica Popolare cinese è un partner cruciale per l’Italia, i prodotti italiani vendono bene in Cina e sono una fetta importante del nostro export. Difficilmente possiamo fare meglio in Cina, la struttura delle nostra economia con poche imprese di grandi dimensioni non facilita la penetrazione nel paese. Da decenni si parla della necessità di “fare sistema” per entrare in maniera decisa nel mercato cinese, ma le difficoltà sembrano insormontabili al momento. Mentre le esperienze del passato, su tutte il disastroso fallimento del centro dell’eccellenza agroalimentare tricolore Viva Italia a Pechino nel 2009, non sono incoraggianti.
La distanza geografica tra l’Italia e la Cina è un dato certo, ma la lontananza culturale tra i due paesi è stata invece più volte contestata in questi mesi di intense cronache dedicate alle vicende cinesi. Marco Polo, Matteo Ricci e perfino la breve parentesi coloniale di Tianjin, percepita in Cina come la più grande offesa alla millenaria storia del paese, sono stati citati come esempi della vicinanza tra i due paesi. Ma l’Italia è arrivata alla Cina e alla cultura cinese in grande ritardo rispetto agli altri paesi europei, eminenti sinologi e orientalisti italiani hanno dato un grande contributo allo studio della lingua e della cultura cinese ma si è trattato di casi singoli. Rispetto a Francia, Germania, Regno Unito, Stati Uniti e molti altri paesi occidentali la nostra conoscenza delle Cina è avvenuta principalmente attraverso lo studio della lingua, la maggior parte degli esperti nostrani in cose cinesi si è formata in ambito linguistico per poi specializzarsi in ambiti diversi. I nostri rapporti con la Cina, nonostante i ricorrenti libretti celebrativi stampati in occasioni istituzionali, sono deboli e labili se confrontati con i nostri partner europei.
La composizione dell’attuale governo, in particolare l’assetto del ministero degli Affari Esteri ha generato infinite discussioni sul posizionamento rispetto alla Repubblica Popolare cinese. Manlio di Stefano, riconfermato sottosegretario agli Esteri, si è recato ad Hong Kong nel pieno delle proteste che da mesi avvengono nell’ex colonia britannica. Di Stefano ha firmato un accordo sulle vacanze lavoro e ha incontrato le tante aziende italiane di Hong Kong. Né durante il suo viaggio, né al suo ritorno ha ritenuto di esprimere la sua opinione rispetto alle manifestazioni e alle violenze nell’ex colonia britannica. Ivan Scalfarotto di Italia Viva, neo sottosegretario agli Esteri, è stato il più attivo protagonista negli scorsi anni degli scambi commerciali tra Italia e Cina. Come sottosegretario del Ministero dello sviluppo economico per il Partito Democratico dal 2016 al 2018 Scalfarotto ha compiuto decine di missioni in Cina. Un’attività frenetica che lo ha portato a Pechino ma soprattutto in tante provincie cinese con delegazioni di imprenditori italiani e politici. I risultati sono stati ottimi per l’export italiano che è cresciuto sensibilmente tuttavia in nessuna delle numerose missioni sono state menzionate le violazioni dei diritti umani che occupavano le prime pagine dei giornali in quel momento, dalla morte di Liu Xiaobo alla persecuzione degli Uiguri nello Xinjiang. L’attuale capo di gabinetto della Farnesina Ettore Francesco Sequi, ideatore degli incontri di Yanqi Lake che sono stati cruciali per gli sviluppi dei rapporti sino italiani negli ultimi anni, è indicato da molti come il vero motore del Memorandum siglato dal precedente governo. La scelta di Di Maio di chiamare Sequi è sembrata del tutto normale, eppure sino a qualche mese fa su tutti i giornali si gridava al pericolo di una vera e propria invasione cinese. La stessa notizia della proroga dell’opzione del Golden Power nei primi giorni del Conte bis è stata salutata da gran parte della stampa come un nuovo capitolo nelle relazioni con Pechino. Eppure, l’opzione del 5G, per valutare le criticità legate all’uso della tecnologia cinese, era stata fortemente voluta dalla Lega. Quindi la questione cinese, la cosiddetta svendita al Dragone, si è rivelata essere solamente una questione di politica interna. Ristabiliti gli equilibri politici il rapporto con Pechino riprende con le solite dinamiche. Ossia con la massima attenzione a non urtare la sensibilità dell’importante partner economico, evitando con cura qualsiasi riferimento a situazioni spiacevoli. Gli avvenimenti di Hong Kong ci hanno dato l’ennesima riprova del timore di toccare tasti delicati per Pechino. Con l’eccezione dell’equilibrato intervento di Lia Quartapelle alla Camera, che ha mostrato come si può parlare alla Cina senza porsi in una condizione di antagonismo ma sollevando dubbi ragionevoli, le interrogazioni parlamentari e le discussioni in aula sulla vicenda di Hong Kong sono state praticamente nulle in questi mesi. Nessun esponente politico ha pensato di esprimere un’opinione al riguardo e perfino la Farnesina si è ben guardata, sino ad ora, dallo sconsigliare i viaggi ad Hong Kong. Il sito dedicato del ministero degli Esteri cita solo delle raccomandazioni, mentre nel passato per episodi molto minori era scattata la “bandiera rossa”.
Ci troviamo di fronte a una attivismo cinese in Italia che non ha precedenti, l’attenzione alle vicende politiche del nostro paese è altissimo a Pechino. Le parole di Mike Pompeo durante la visita italiana hanno scatenato l’ira dell’ambasciatore cinese e la cancellazione della conferenza, programmata da una think tank collegata con la Farnesina, con il professore Wang Dong è probabilmente uno dei segnali del fastidio di Pechino. Anche la presenza sui social network, con annunci sponsorizzati, per promuovere la visione di Pechino delle proteste di Hong Kong rappresenta una novità assoluta. Insomma la proiezione benevola della Cina sembra interessare l’Italia in maniera sempre più intensa. La nostra posizione nel mercato cinese è abbastanza fragile, l’export va sempre meglio ma siamo soggetti a possibili ritorsioni in maniera maggiore rispetto ai nostri partner europei. L’eccessiva polarizzazione dei rapporti, l’uso continuo di dinamiche internazionali per fini interni ci ha reso ancora più fragili nei confronti di Pechino.
Il delicato rapporto con la Repubblica Popolare cinese dovrebbe essere incluso all’interno di una riflessione più ampia sull’azione di Pechino in altri paesi, Australia e Nuova Zelanda su tutti, e sulla peculiare proiezione cinese nel mondo. Senza creare inutili contrapposizioni tra schieramenti Anti Cina e Pro Cina, ma considerando sia l’interesse nazionale e la cruciale importanza del mercato cinese sia la necessità di preservare la sovranità nazionale in temi delicati come quello delle infrastrutture tecnologiche. La proiezione italiana nella Repubblica Popolare cinese ha perseguito una continuità negli ultimi anni e il Memorandum d’intesa è stato il naturale approdo di questo percorso ma la necessità di monitorare le relazioni sino italiane resta una priorità essenziale per la difesa sia dei valori democratici sia degli asset strategici.