Gli Stati Uniti sono un impero. Nel suo brillante testo Michael Cox lo precisa, non ci troviamo di fronte a un odierno Impero britannico né ad una novella Antica Roma. Al tempo stesso però, forti del loro strapotere economico, militare e culturale, gli Stati Uniti non sono un Paese come gli altri. All’interno del suo libro Cox procede a studiare la politica estera statunitense attraverso cinque presidenze, da Clinton a Biden, passando per George W. Bush, Barack Obama e Donald J. Trump, indagando sulle difficoltà incontrate dai vari leader nell’amministrare il mondo.
L’ascesa dell’America verso la supremazia conosce un punto di svolta con la guerra di secessione.
Cox sottolinea un aspetto cruciale: dal conflitto emerse un unico e solo Stato, che rapidamente divenne una straordinaria potenza industriale e una minaccia economica crescente per il Vecchio Continente: «l’asse economico del mondo si stava spostando, lentamente ma inesorabilmente, a Ovest, al di là dell’Atlantico. L’era europea stava già cominciando a tramontare: un secolo americano stava per iniziare».
Conclusasi la guerra continuò quindi un processo di espansione dei territori statunitensi in corso già da molto tempo.
Come Cox sottolinea, con una certa ironia, la nazione americana, che amava credersi antimperialista e innocente, si allargava, giungendo ad acquisire le proprie colonie “imperiali”.
Nel corso del secondo capitolo Michael Cox si occupa di analizzare l’operato di Bill Clinton, il “leviatano liberale”, giunto alla Casa Bianca in seguito alla recessione dei primi anni ‘90.
È ormai caduta l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti non devono più preoccuparsi di «prevenire la diffusione di un’ideologia esterna», ma bensì di vincere la battaglia economica, aumentare le quote di mercato a disposizione per poter continuare a mantenere la propria prosperità interna e proiezione esterna.
Forte delle sue strategie e di una nutrita squadra di economisti Bill Clinton divenne presto il «beniamino di Wall Street».
L’amministrazione però, secondo diversi critici e Cox stesso, era ossessionata dalla “competitività” dei prodotti americani, con il rischio di andare a scontrarsi con l’integrazione dei mercati mondiali e quindi con un’altra priorità della Casa Bianca, ovvero la “promozione della democrazia”.
Ma a quello che Cox definisce «il “nucleo” della missione strategica dell’America negli anni Novanta» manca ancora un tassello, ovvero portare all’interno del capitalismo di mercato quei paesi sorti dalle ceneri dell’Unione Sovietica.
Tra tutti uno, la neonata Russia.
Nel corso del terzo capitolo Cox, forte della sua esperienza di studioso della guerra fredda e delle relazioni tra USA e URSS, delinea quindi il tentativo americano di facilitare una transizione a Mosca.
Il giudizio di Cox è però lapidario: l’impresa, universalmente fallita, sarebbe comunque stata «quasi impossibile».
I funzionari americani in pochi anni si devono arrendere al definitivo naufragio dei piani del ‘92, accettando una magra consolazione.
La Russia aveva da un lato fermamente deciso di non avvicinarsi all’Occidente, ma al tempo stesso non sembrava allora ancora pronta, almeno all’inizio, ad entrare in conflitto diretto con l’Occidente, né desiderosa di ripristinare un sistema economico di stampo prettamente sovietico.
Nel quarto e quinto capitolo Cox narra del risveglio dell’impero, e dibatte il significato stesso della parola “impero” nell’opinione pubblica americana.
Scrive l’autore che quando Clinton lasciò la Casa Bianca «l’America […] non si era mai sentita così sicura».
Questo sentimento di sicurezza venne però bruscamente infranto dai terrificanti attentati dell’11 settembre, che chiariranno agli americani come all’estero gli USA abbiano nuovi nemici.
Gli States di Bush si lanciarono così all’offensiva, prima l’Afghanistan poi l’Iraq, chiarendo a nemici, ma anche alleati, come questo fosse il nuovo corso e come Washington, se necessario, avrebbe proceduto anche unilateralmente.
Si riaccende quindi negli Stati Uniti il dibattito se fossero o meno un impero.
Ai cittadini del nuovo imperium, scrive Cox, il termine però non piaceva troppo, o almeno non ai radicali di sinistra.
Di tutt’altra opinione i commentatori conservatori, che già prima dell’era Bush si spesero per rivalutare il termine, e molti funzionari dell’amministrazione repubblicana.
Dal canto suo il Presidente Bush sostenne che gli Stati Uniti facevano “liberazione”, non imperalismo; qui Cox cita Niall Ferguson il quale sottolineò come già gli «imperialisti liberali dei primi del Novecento […] vedevano le legioni britanniche sparse per il mondo come agenti di emancipazione».
Cox passa quindi alla Presidenza di Barack Obama, che definisce un «presidente estremamente controverso».
Se da un lato l’ex senatore dell’Illinois era vittima di attacchi di natura razziale dall’altro sul tavolo vi erano anche «divergenze di vecchia data, sia sulla politica interna che sulla politica estera».
Cox tratta quindi la risposta di Obama alla crisi del 2008, che collega all’ascesa di una Cina sempre più convinta dell’ostilità del Paese leader dell’Occidente, anche alla luce dell’inaugurazione del Pivot to Asia.
Una Cina che si lega sempre di più alla Russia di Vladimir Putin, altro avversario statunitense in ascesa, in una relazione che va compresa, scrive Cox, «nella sua opposizione a qualcos’altro […] l’Occidente e il leader dell’Occidente, gli Stati Uniti».
Un’alleanza quindi chiaramente revisionista.
Il saggio sulla Presidenza Trump inizia ovviamente con una puntuale digressione sul populismo, le sue origini e ragioni, i perché dietro la scelta, nel 2016, dell’elettorato americano.
In merito alle mosse in politica estera di The Donald l’autore non ci va leggero, ed etichetta ad esempio le politiche mediorientali come un semplice capriccio: «Trump parve adottare la linea per cui, se Obama era stato a favore di una determinata politica, lui era contrario e quindi avrebbe fatto l’opposto».
Categorico il giudizio sugli accordi di Doha, che vengono definiti un «trionfo diplomatico talebano».
Quo vadit imperium?
È la domanda con cui conclude il suo testo Michael Cox, riflettendo sull’impatto di alcune scelte di Trump, in parte seguite da Biden (il ritiro dall’Afghanistan) e la contemporanea ascesa delle potenze revisioniste, quali la Cina e la Russia di Putin.
Qui l’autore conclude ritornando a un concetto già espresso a inizio del testo, ovvero a come la potenza degli Stati Uniti vada ben oltre l’operato delle sue amministrazioni.
Alcune scelte “sbagliate” potranno aver indebolito la postura e l’immagine americana, ma l’ordine occidentale domina ancora le più grandi istituzioni finanziarie mondiali, detiene e produce percentuali inavvicinabili dell’economia mondiale.
Gli Stati Uniti da soli sono formati da Stati che, presi singolarmente, sono vere e proprie potenze economiche.
La potenza militare americana è ancora inarrivabile per i suoi avversari, e non era stata scalfita dai ritiri dall’Iraq e dall’Afghanistan.
Infine, ma non per ultimi, gli alleati: numerosi per Washington, pochi e meno affidabili per Russia e Cina.