Salvatore Santangelo in questo agevole testo edito durante la prima fase dell’emergenza Covid-19 riflette tout court sull’attuale salute dell’Italia, soffermandosi in particolare sugli effetti della prima sfida geo-pandemica dell’era globale sulla sua struttura socio-economica.
L’ineluttabilità di dover affrontare quella che si prospetta come la più grande crisi che le economie mature abbiano mai dovuto gestire in tempi di pace, spinge il nostro Paese ad affrontare la lunga traversata nel deserto che è dinanzi a noi mettendo in discussione i dogmi del post-industrialismo e tornando a sostenere un “patriottismo economico” basato sull’abnegazione, l’orgoglio e la solidarietà: geni dormienti iscritti nel DNA degli Italiani. Come scrisse Primo Levi «Il futuro ha un cuore antico» e nel cuore dell’Italia pulsano assieme «radicamento, memoria e innovazione».
È sull’eredità del nostro passato che Santangelo ricerca la chiave interpretativa del presente e nella riscoperta delle “virtù dei padri” la soluzione alla deriva del paese. Come nel Decameron di Giovanni Boccaccio la rifondazione del mondo operata dai giovani fiorentini autoesiliati per sfuggire alla malattia, non era andata nella direzione di un’ode al futuro ma in quello di un’elegia al passato – a quei valori cavallereschi distrutti dalla cupidigia dei tempi, rispetto alla quale la peste appariva come un flagello morale, ancor prima che materiale – così l’uomo moderno dovrebbe tornare alla fabbrica legata ai territori, alla buona finanza d’impresa, a quella cultura industriale che sintetizza valori materiali e immateriali, per recuperare una dimensione etica che coniuga lo slancio vitale all’autocontrollo, l’originalità all’abnegazione verso il lavoro e lo studio.
Negli ultimi decenni al contrario, sacrificando l’orgoglio nazionale in favore della finanza più avida e spregiudicata, della retorica dell’austerity, dello “Stato minimo” e del laissez faire, ci si è svuotati le tasche di tutte le ricchezze possedute, favorendo la stagnazione economica e incrementando le dipendenze nei confronti dell’estero.
Per anni, abbiamo sentito parlare di declino dell’industria e del nuovo primato dei servizi come se le uniche risorse in grado di garantire un futuro ai Paesi occidentali fossero offerte dalla finanza, dall’hi-tech, dal turismo e dalla genialità di qualche stilista. Per Santangelo, il nostro errore è stato quello di affidarci totalmente a una ricetta che avrebbe dovuto portarci in un qualche luogo chiamato società post-industriale. La contingenza ci dimostra invece che dovremmo smettere di credere che il settore manifatturiero sia una reliquia del passato. Per difendere e implementare questa fondamentale dimensione dell’economia, da più parti si invoca l’intervento urgente dei governi nazionali, non solo con incentivi fiscali o con un rilancio degli investimenti in infrastrutture e innovazione ma con un ecosistema in grado sostenere imprese e cittadini durante questo processo transizionale. Sono necessarie nuove formule di coesione sociale appropriate al nostro tempo per perseguire una visione comunitaria; un modello di sviluppo che permetta di sostenere la competitività del sistema-Paese e delle imprese valorizzando le ricchezze ambientali e culturali; dar vita a una nuova politica estera in grado di conciliare il nostro interesse nazionale con quello dell’Europa e del mondo della globalizzazione.
Da più parti si invoca una nuova centralità dello Stato, sia nel sistema del welfare che in quello della politica industriale. La politica di governo oggi dovrebbe guardare ai pubblici servizi come investimenti piuttosto che debito, e ricercare regole che rendano il mercato del lavoro meno precario. La Sud-Corea rappresenta probabilmente il modello di riferimento per chi oggi ricerca una nuova forma di governo in grado di sintetizzare l’autonomia e l’indipendenza del privato in una forma di governo più “Statalista”. Seul sembra aver gestito meglio di altri la difficile situazione economica degli ultimi anni grazie a un perfetto mix di innovazione tecnologica e disciplina sociale.
A partire dagli anni Settanta il governo ha avviato una riforma della struttura economica in grado di conferire al settore pubblico il controllo dei centri nevralgici; ha creato uno stretto rapporto di collaborazione tra lo Stato e la classe capitalista dominante, tale da individuare le priorità di sviluppo in armonia con gli interessi imprenditoriali e di utilizzare tanto un sistema formale che informale “per trasmettere” dall’alto verso il basso gli impulsi governativi. Ha definito un meccanismo efficiente, discrezionale e selettivo per guidare l’allocazione delle risorse, attraverso un controllo per lo più pubblico del sistema creditizio. Come Hong Kong, Taiwan e Singapore, la Repubblica coreana rappresenta uno straordinario esempio di sviluppo capitalistico asiatico, ma questo specifico caso, pur dando luogo a un sistema economico fortemente e crescentemente estroverso, non ha avuto il carattere spiccatamente liberistico degli altri tre.
Al contrario, in Corea, lo Stato ha svolto e continua a svolgere, un ruolo predominante nel processo di crescita economica attraverso un regime fortemente interventista, fatto di controlli diretti e indiretti, strumenti formali di imperio e meccanismi informali di organizzazione del consenso, che esaltano la disciplina, la dedizione e lo studio, come motori dell’ascensione sociale. La filosofia alla base di questo approccio risulta simile a quella che ha favorito la nascita del settore pubblico in molti Paesi occidentali, e tra questi l’Italia, nel periodo tra le due guerre e al suo rafforzamento nel secondo dopoguerra. Il tipo umano efficacemente descritto da Carlo Emilio Gadda o incarnato dai tecnici raccontati da Primo Levi nel romanzo La chiave a stella: quelli che con orgoglio e abnegazione montavano gru, ponti sospesi, impianti petroliferi per le grandi imprese italiane di costruzione nel mondo, in Occidente, tuttavia, ha subito una mutazione socio-antropologica che ha scardinato i principi della disciplina e dello studio come motori di crescita e di affermazione individuale e sociale.
Uno studio dell’Ocse pubblicato prima della pandemia riportava l’evidente carenza in Europa di competenze per affrontare le trasformazioni produttive della forza lavoro. Questo tema ci mette di fronte alla grande emergenza che attanaglia il nostro Paese e che si chiama “educazione”. Un’emergenza che Roger Abravanel non si stanca mai di indicare come la priorità da affrontare e che Roberto Ippolito ha fotografato nel suo implacabile Ignoranti. L’Italia che non sa, l’Italia che non va.
Gli ultimi risultati degli Scholastic Assessment Test evidenziano come i giovani asiatici, al contrario, abbiano sempre più successo nel mondo del lavoro e vantino una migliore preparazione rispetto alle nostre nuove generazioni. Il segreto della loro eccellenza risiede nell’assoluta riverenza per lo studio e nell’attenzione prioritaria data dai governi all’educazione, in un sistema in cui vige un “onore pubblico” per gli studenti eccezionalmente bravi e per corollario un prestigio sociale per gli insegnanti.
Da più parti sta maturando la consapevolezza che la competizione geopolitica del prossimo futuro si svolgerà sempre più sulla qualità del capitale umano dei singoli Paesi. Dal contesto geopandemico uscirà vincitore proprio chi riuscirà a massimizzare l’investimento sul capitale umano, la promozione dell’impresa attraverso la creazione di una base industriale nuova, più moderna e competitiva e infine a trasformare il vecchio Stato sociale in una nuova rete di solidarietà, diffusa nella società e incentrata sull’educazione delle nuovi generazioni.