Lo scopo di questo contributo è quello di inquadrare l’identità di un movimento di pensiero che, generato da basi teoriche diverse e profonde, coinvolge tre grandi attori della contemporaneità.
L’Eurasia è un concetto identitario che prevede il superamento di Europa ed Asia come entità distinte e separate, in qualche modo incompatibili ed opposte. Questa distinzione è un’idea che in Occidente forse rimonta addirittura alle guerre persiane e si fonda su l’irriducibile distanza fra la Grecia libera e la Persia imperiale, concezione quasi manichea poi rimasta come stereotipo nella cultura di questa parte del Mondo, che della Grecia classica è debitrice. Ma se la distinzione Grecia-Persia (e quindi Europa – Asia, libertà – autocrazia, preminenza dell’individuo – preminenza della collettività) è nostrana, altre realtà imperiali sono tributarie di visioni diverse, che ne influenzano gli orientamenti politici attuali.
La Russia cristiana nasce convenzionalmente con la conversione di Vladimir I “il Santo” nel 988, che termina di versare nella cultura delle steppe slave asiatiche quel cristianesimo di rito orientale che aveva fuso l’idea monoteistica semitica con importanti elementi della cultura classica, ellenistica e della Grecia medievale (Vladimir si era cristianizzato proprio per permettere una maggior commistione militare e politica dei due mondi: doveva sposare Anna, la figlia dell’Imperatore d’Oriente). La conversione dei prìncipi slavi al cristianesimo, però, comincia molto prima: Fozio, patriarca di Costantinopoli, aveva cominciato ad inviare nelle steppe dei predicatori, con l’idea di battezzare l’ élite locale, a seguito del fallito attacco perpetrato proprio dagli Slavi a Costantinopoli nell’860, ed aveva quindi la finalità di assorbire il nemico al fine di neutralizzarlo e usarlo a fini bellici. L’idea non era esclusiva dei Cristiani: gli Emirati islamici del Volga avrebbero tentato di fare lo stesso, al fine sempre di ingrossare le proprie fila con questo grande bacino di capitale umano ancora pagano: i Musulmani volevano che gli Slavi ingrossassero la Ummah, Fozio ed i suoi successori che questi andassero a combattere proprio i Musulmani nei territori bizantini conquistati dagli Arabi (in primis, Creta).
Il risultato fu che ad espandersi fu il Cristianesimo, e che secoli dopo la nuova identità imperiale definisse la sua capitale la “terza Roma”. La seconda Roma, come sappiamo, è proprio Costantinopoli, che una volta caduta in mano islamica si vuole abbia “trasferito” la sua autorità di capitale a chi, in un certo senso, si definiva erede identitario del mondo imperiale bizantino. A Costantinopoli resta la Cattedra vescovile più importante d’Oriente, ancora oggi al Fener, mentre lo scettro se ne va nelle steppe. Il legame fra le due Chiese è stretto, e la cosa ha forti conseguenze politiche.
La cosa interessante è che, nel diventare turca e capitale di un’entità politica islamica, l’identità imperiale costantinopolitana viene invece interpretata dai nuovi regnanti (secondo il diritto islamico) come parte dell’asse del quale diviene titolare il nuovo sovrano, quel Sultano che si tributa anche il titolo di “Cesare dei Romani” e che sviluppa un Impero che avrà il suo cuore economico e commerciale nei Balcani.
Interessante, e non solo dal punto di vista storico, ma della geopolitica di oggi. Perchè l’Eurasia fonde proprio qui il confine fra i due Continenti: sulla linea che ha come punto inferiore Costantinopoli, ed ha una natura molto, molto diversa secondo la concezione turca e quella russa:
- L’Eurasisimo turco moderno, ovvero quello della fase repubblicana, nasce nell’estrema destra degli anni ’90, in un’evoluzione di alcune teorie di carattere ultra-nazionalistico che vedono una naturale tensione dei Turchi anatolici verso gli Stati turchici dell’Asia centrale. Un movimento con matrici di carattere anche esoterico, nonché razziale, che si rifanno al popolo-esercito dei Turchi Celesti (che proprio dal cuore dell’Asia proviene) che poi viene proposto, quasi incredibilmente, da un partito kemalista-maoista di estrema sinistra, “Vatan”. Questo propugna l’eurasismo politico della Turchia contemporanea, costituisce il vero punto di contatto fra alcuni ambienti anatolici ed altri russi ed esprime quel gruppo di teorici, in massima parte esponenti delle Forze Armate di concezione vetero-repubblicana, che hanno elaborato il concetto di “Patria Blu”, la superficie di mare (Mediterraneo orientale) nel quale la nuova Turchia dovrebbe esercitare sovranità assoluta rimettendo in discussione i risultati ottenuti con gli accordi con la Grecia sulle frontiere marittime e le isole dell’Egeo subito dopo la fondazione della Repubblica, e soprattutto mettendo in discussione l’integrità di Cipro. La posizione degli Eurasisti è favorevole a Mosca: furono loro ad opporsi all’idea di costruire il Kanal Istanbul (la c.d. questione “dei 103 ammiragli”: 103 ammiragli, Montreaux, gli eurasisti, l’estrema destra: la via è segnata per il Governo turco – Geopolitica.info ), che costituendo un passaggio (a pagamento) ulteriore ai Dardanelli regolati dalla Convenzione di Montreaux, avrebbe potuto permettere l’accesso al Mar Nero di potenze ostili alla Russia;
- L’Eurasismo russo ha radici esoteriche e politiche profonde, e diverge da quello turco ad eccezione del concetto di esaltazione della tradizione nazionale. La sua elaborazione teorica, che nasce un secolo fa, vuole l’identità russa essere ereditiera tanto di una natura non europea (nel senso occidentale) quanto di una tradizione cristiano ortodossa che ne rappresenta la spiritualità vera e profonda. Senza approfondire troppo i mille rivoli nei quali questa complessa teoria si è sviluppata negli ultimi decenni, è per ovvie ragioni utile, nel presente, focalizzarsi sull’interpretazione che di questa fa il Dr. Dugin. Come è tipico di una certa tradizione, egli rimonta nella sua analisi a tempi arcaici di natura più simbolica e metaforica che reale (lo facevano i Greci, lo fece Marx), ed è a questi tempi che fa nascere un contrasto di carattere manicheo tra due diverse entità: una marittima ed occidentale (=Atlantica), che antepone l’elemento marittimo e commerciale (=economico) alla politica, che Dugin stesso definisce “la Cartagine eterna”; ed un’ altra di carattere invece terrestre ed orientale (=Eurasiatica), che antepone l’elemento della politica, della tradizione appunto, che si definirebbe “la Roma eterna”. In questo confronto dialettico, la via da seguire sarebbe quella di determinare una via politica nuova, “quarta”, a seguito dell’avvicendarsi del socialismo reale, del fascismo e del liberalismo. Un rapporto dialettico evolutivo di contrasti e sintesi che ricorda molto il modo di procedere analitico proprio di filosofi che proprio sul confine eurasiatico hanno vissuto, in primis Hegel e Marx. Questo, pensiero, naturalmente, viene in questo contributo presentato e ridotto in una sintesi estrema e certamente insufficiente, ma funzionale esclusivamente alla lettura del presente nella limitatezza delle finalità del contributo stesso.
Se quindi la parte giusta del Mondo è terrestre, politica e tradizionale ed è rappresentata dalla tradizione russa alla quale è doveroso tornare, e se il male à atlantico (con evidente rimando all’Alleanza a guida statunitense), dove si colloca la Turchia? Nel suo “fondamenti di Geopolitica” (del 1997), il Dr. Dugin asserisce che la Turchia deve essere fatta oggetto di sobillazioni “geopolitiche”. Una cosa non da poco, anzi di importanza capitale, perché si sarebbe voluto realizzare questo obiettivo attraverso, ad esempio, l’uso dell’elemento kurdo, o quello armeno, usandolo dentro il Paese. Inutile sottolineare quanto agitare lo spettro della diversità linguistica e culturale interna fosse quantomeno provocatorio nella Turchia kemalista della fine degli anni ’90 (e quanto questo dimostri la profonda conoscenza che il Dr. Dugin ha della Turchia repubblicana). Una delle ragioni per le quali sussisterebbe tale necessità, permissibile peraltro soprattutto attraverso l’alleanza strutturale con l’Iran (Paese musulmano ma affine per l’origine indoeuropea dei suoi abitanti, da usare anche contro l’Arabia Saudita) è proprio il carattere secolare dello Stato. La Turchia va colpita tanto duramente, secondo questa visione, quanto Cina e Stati Uniti, e dovrebbe farsene un ”capro espiatorio” interno al progetto eurasiatico. E’ interessante notare come una delle maggiori minacce alla sicurezza della Turchia, il PKK, sia sorto ed abbia potuto mantenersi attivo anche grazie all’aiuto dell’allora Unione Sovietica.
Da allora, tuttavia, la posizione della Turchia è cambiata notevolmente, trasformandosi in un Paese che, da bastione atlantico, sta riscoprendo elementi di tipicità culturali e geografiche in conformità alla visione spiritualista (pur senza abbandonare l’alleanza con gli Stati Uniti). Ed infatti, una lettura di “Profondità Strategica” (faro, per alcuni anni, della politica estera della Turchia a guida AKP) non può che confermare una certa, seppur non totale, coerenza di vedute nel senso della valorizzazione dell’identità della Nazione anteposta al processo di “occidentalizzazione”, e della compresenza degli elementi asiatico ed europeo nel carattere della potenza turca.
E quindi la Turchia diviene ora un asset importante per Mosca. E’ infatti totalmente superata la fase kemalista, come prima lo era stata la fase imperiale ottomana, nella quale lo scontro fra Ottomani e Russi era inevitabile e nella quale si combattevano, in definitiva, due presunti eredi dello stesso titolo, ovvero di Imperatore dei Romani: il Sultano, Cesare del Romani, e lo Czar, che era Cesare già nel nome.
La vita del Dr. Dugin era entrata in quella della politica turca in uno dei suoi momenti più importanti, e viene resa nota nel famosissimo processo penale Ergenekon, celebrato ad Istanbul, che avrebbe poi visto la sua fine a pochi anni dall’inizio della sua celebrazione. In questo, si era addirittura ipotizzato che egli fosse uno dei padri dell’organizzazione stessa, e che lo scopo di questa fosse la fondazione di un’unione euroasiatica alla quale compartecipassero le Repubbliche turche dell’Asia Centrale. Alexandr Dugin è stato inoltre l’editore del sito “Tsarigran” (città di Cesare = Costantinopoli = Istanbul).
I fatti a noi contemporanei hanno portato parte della stampa turca (in particolare il giornale Aydınlık, legato al partito “Vatan”) a sottolineare come la posizione sostenuta proprio dalla figlia del Dr. Dugin, vittima dell’attentato del 22 u.s., fosse quella di ipotizzare la presenza di elementi dell’organizzazione di F. Gulen negli apparati ucraini e, soprattutto, di evidenziare un parallelismo (quasi un’identità) fra le operazioni turche contro il PKK-PYD a sostegno dell’integrità territoriale del Paese e quelle svolte dalla Russia in Ucraina. La cosa suonava particolarmente bene ad alcune frange della politica turca, perché offriva non solo la legittimazione alle operazioni della Turchia sul fronte siriano ma anche un appoggio internazionale a quella destra alleata di governo, (paradosso dei paradossi, pubblicato su un giornale che si definisce maoista) che pretende di estendere la sua influenza in Asia Centrale, dove si estendono tanto le propaggini russe quanto quelle turche, chiedendo cooperazione fra i Paesi. L’Iran entra invece suo malgrado nelle vicende euroasiatiche. L’Iran è la sposa infelice di un matrimonio di convenienza con lo sposo russo. Mosca, come il quotidiano Kayhan non si è risparmiato di dimostrare subito dopo l’inizio delle attività militari in Ucraina, non è affidabile per Teheran: non ha avuto, a dire del giornale, un atteggiamento propositivo nei confronti del JCPOA, e i Persiani non dovrebbero dimenticare l’occupazione di Gilan, Mazandaran e Gulistan avvenuta il secolo scorso. La posizione persiana nella questione eurasiana è quindi, in definitiva, “passiva”. Non nel senso che l’Iran debba subire qualcosa ma nel senso di essere l’eurasianesimo un prodotto di culture politiche diverse da quella persiana, e che pure interessano il Paese. La proiezione naturale della Persia è nel Golfo e nella Mezzaluna sciita. Eppure, se ci focalizziamo sulla posizione iraniana contemporanea, non possiamo che notare come il Paese necessiti urgentemente di aprirsi a mercati internazionali. Se gli Stati Uniti dovessero garantire quel rispetto del principio di non ingerenza negli affari persiani, permettendo quindi all’attuale establishment iraniano di continuare a gestire il Paese in forma autoreferenziale scongiurando il pericolo di riforme alla Rouhani, allora la Guida Suprema potrebbe (pur avendo incessantemente ripetuto di non fidarsi degli Statunitensi) assentire ad un rinnovo dell’Accordo “sul nucleare”. Ma se invece l’appartenenza ai BRICS potesse presentarsi agli occhi di Teheran come un’alternativa altrettanto valida per salvarsi, allora l’Iran entrerebbe nel discorso eurasiatico teorizzato dal Dr.Dugin in modo completo, perché non uscirebbe dalla logica di una relazione di vicinanza necessaria con Mosca.