Sono 1079, tra istituti e scuole, le strutture culturali francesi all’estero secondo l’Institut Français, il Goethe-Institut agisce in 98 paesi e il British Council in 100, mentre il cinese Confucio, nato nel 2004, intrattiene rapporti già con 120 Stati.
Se fin dall’inizio del secolo scorso le potenze europee considerano diffusione e promozione del proprio patrimonio culturale nel mondo elemento chiave del prestigio nazionale, la fondazione della maggior parte degli istituti nazionali nel Dopoguerra ha rappresentato la volontà di mantenere nel contesto bipolare rapporti commerciali ma soprattutto umani privilegiati. Tuttavia, è uscendo dal Novecento che, con l’affacciarsi del multipolarismo, la questione del soft power si impone sempre più necessariamente.
Termine coniato dagli Americani, il soft power è definibile come una strategia di controllo della sfera d’influenza e/o d’azione di uno stato attraverso la promozione della propria immagine e della propria cultura, al fine di rendersi familiare nel tessuto estero socioeconomico oltre che politico. Secondo la teorizzazione di Joseph Nye incarna il più inclusivo ed efficace sistema di legittimazione del potere: protettivo ma cooperativo, egemone ma multilaterale.
Un Potere con cui è preferibile scendere a patti; anzi, viene naturale farlo. Nella visione di Joseph Nye, il soft power degli Stati Uniti d’America, identificati come potenza guida, deve servirsi di democrazia liberale come suo braccio destro e organizzazioni internazionali, quali NATO e WTO, come sinistro; la competizione oggi sembra però più aperta e diversificata che mai.
Ilmultipolarismo contemporaneo, unito all’incalzante globalizzazione, ha portato all’inevitabile interfacciarsi di culture diverse, con l’incontro- scontro di molteplici attori. È in questo contesto che l’essere “familiare” acquista un peso strategico inedito per ricavarsi un’area di azione, politica, ma soprattutto commerciale. Gli istituti di cultura all’estero diventano così veicolo privilegiato delle strategie
geopolitiche.
Per capire fino in fondo l’importanza di questi nell’Oggi, appare paradigmatico il caso cinese. L’Istituto Confucio è entrato con prepotenza sulla scena internazionale, attirando l’attenzione con la sua vertiginosa crescita: con sede a Beijing, in 19 anni conta 1086 istituti aperti, con una media, nel 2006, di un istituto ogni quattro giorni.
Più intensi sono gli sforzi cinesi nel campo perché più pressante è la necessità; ed è impossibile capire il perchè dei primi senza contestualizzare la seconda. Gli ostacoli della penetrazione (culturale e non) cinese sono infatti vari e non trascurabili, necessariamente maggiori che per altri paesi. In primis, la posizione geografica. La presenza di vicini ingombranti e tradizionalmente avversi e della flotta americana nel Pacifico impediscono al Gigante Asiatico di ricavarsi una naturale area egemonica limitrofa. In questi stretti orizzonti si configura la cosiddetta «Strategia della Collana di Perle». Essa prevede il rafforzamento delle relazioni politico-commerciali con i paesi della fascia costiera asiatica che va dal Mar Rosso fino all’Indocina, al fine di garantirsi una fascia propria, porta e protezione nei confronti dell’estero. Ed è proprio seguendo questa direttrice che la Cina ha cominciato ad affinare lo strumento della costruzione delle infrastrutture attraverso la compartecipazione di capitali cinesi e locali; modus operandi, questo, ora largamente applicato in ogni teatro di penetrazione economica diretta.
In secondo luogo, la lingua. Per quanto possa apparire banale, un idioma dal difficilissimo apprendimento e tradizionalmente mai considerato come lingua comune nei commerci internazionali risulta essere un ostacolo tutt’altro che irrilevante. Per un paese che si propone come, se non ancora alternativa, quanto meno contraltare all’egemonia americana, considerare pacificamente la lingua inglese come il codice di comunicazione universale, risulta inaccettabile.
Sarebbe dopotutto altrimenti impossibile presentarsi al mondo come alternativa all’ordine costituito. Anche lo scambio squisitamente culturale risulta fiaccato dall’incomprensione linguistica. Ecco che la più ampia diffusione possibile della lingua diviene pietra angolare dell’azione degli Istituti Confucio. La Cina paga infine una cattiva percezione del proprio sistema politico fuori dai confini nazionali e la chiusura all’estero durante gran parte del XI secolo. Dettata dall’ideologia maoista dei tre mondi viene poi superata dall’azione della leadership di Deng Xiaoping (1978-1992).
E’ nel contesto sopradescritto che assume particolare importanza strategica l’azione dell’Istituto Confucio. Questo si propone come mediatore culturale e biglietto da visita del Paese all’estero; secondo quando dichiarato dallo stesso nel sito ufficiale “mira a promuovere relazioni amichevoli con altri paesi e a promuovere la comprensione della lingua e cultura cinesi nel mondo [sic]” Uno studio del Center of Public Diplomacy at the Annenberg School, pubblicato ad aprile 2014, indica tre direttrici principali nella strategia cinese di diffusione culturale, che differenziano l’IC da tutti gli altri: la creazione di una fitta rete di strutture, il coinvolgimento delle controparti in progetti di sviluppo economico tendenzialmente bilaterali e la creazione di un costante dialogo che punti attraverso strategie di comunicazione alla creazione di un’identità comune.
L’IC ha ricevuto tuttavia numerose critiche, sia nei paesi ospitanti che in patria. E’ accusato infatti di riflettere l’agenda del governo minando la libertà accademica dai primi, mentre nella seconda di chiamarsi Confucio indebitamente, non impegnandosi infatti in una reale diffusione del pensiero del filosofo cinese.
L’influenza culturale si impone quindi come uno dei grandi terreni di scontro della geopolitica contemporanea. In un modo plurale ma contemporaneamente sempre più piccolo e interconnesso, l’appeal risulta un fattore determinante per affrontare i competitors, e in questa battaglia gli istituti di cultura, con l’Istituto Confucio in testa, nei loro rapporti con le istituzioni, la società e le imprese, sono in prima linea.