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TematicheCina e Indo-PacificoPyongyang Blues (Add editore, 2019) Intervista all’autrice, Carla Vitantonio

Pyongyang Blues (Add editore, 2019) Intervista all’autrice, Carla Vitantonio

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  • Ho letto con grande interesse Pyongyang Blues, sono rimasta molto colpita dalla tua testimonianza tanto da desiderare di farti qualche domanda e far conoscere la tua storia ai miei amici lettori italiani quindi comincio subito così: Quale sarebbe stata la scelta alternativa a Pyongyang se non ti avessero selezionata per il lavoro di insegnante di italiano?

Avevo sempre fatto l’attrice in teatro e in radio. Avevo vari progetti in Italia (un paio di spettacoli in tour, una produzione nuova, la proposta di una regia, il mio programma radiofonico e i miei allievi). Credo che sarei rientrata nel monolocale di nove metri quadri che affittavo in centro a Bologna, e mi sarei rimessa a fare le cose di sempre, considerando il “piano infallibile”, di cui parlo nel libro, come “piano fallito”. In fin dei conti era molto chiaro che le possibilitá fossero pochissime.

  • Hai raccontato della cerimonia dell’Arirang , scrivi:

“E bello l’Arirang. So di essere impopolare quando lo commento, e per questo ho smesso di esprimermi con i miei amici espatriati, ma non provo nessun sentimento di pena ne di indignazione per le decine di migliaia di performer che all’unisono si muovono attraverso la narrazione. Nemmeno per i bambini. […]Secondo me, la cosa che a nessuno di noi va giù e che sappiamo bene che con la pura coercizione il regime non sarebbe stato capace di convincere tutta questa gente a sottoporsi a estenuanti prove ogni anno sotto il sole per mesi e mesi. Con la pura coercizione il regime non sarebbe riuscito a spingere le vecchie contadine con i loro ch’imachŏgori  sugli autobus di seconda mano. Secondo me, quello che vediamo durante l’Arirang e che ci fa rosicare, e ci fa puntare il dito contro i bambini, contro l’inumana perfezione delle decorazioni umane sullo sfondo, contro le acrobazie e la musica patriottica, e che loro ci credono. Che il grande miracolo del regime e di essere riuscito a convincere una buona parte dei propri cittadini che questo non e mito, questa e storia.”

Quel che ti domando è: i nordcoreani sono i prigionieri della caverna di Platone? 

E’ una domanda difficile, perché presuppone il fatto che noi invece non lo siamo. Questo é un dibattito che si é ripresentato in molte vesti diverse e contesti diversi dopo l’undici settembre. Chi siamo noi per andare a proporre (quando non a imporre) un sistema di valori e una struttura politica diversi? Insomma chi siamo noi per dire che quella é la caverna di Platone? E so che questa affermazione puó suonare polemica, ma rivela in realtá la mia incertezza.

Chiaramente ho delle opinioni sui paesi in cui lavoro, ma cerco di tenerle da parte, perché credo (ma questo é solo il mio punto di vista) che sia impossibile dare giudizi di merito su una certa cultura partendo da una cultura differente.

Allora la risposta alla tua domanda é forse: sí, io credo che molti nordcoreani vivano nella caverna di Platone, e quelli che lo fanno, probabilmente, non si rendono conto di esserne prigionieri. Ma infine non so quanto questo sia importante.

  • In un Paese dove non è previsto nessuno spazio per lo spontaneismo individuale che tipo di arte è possibile? 

Mah, storicamente l’arte non é necessariamente spontaneismo individuale. Al contrario, la storia é piena di Arte Ufficiale, strutturata in vari gradi (non bisogna arrivare al realismo socialista o alle cerimonie di massa del nazismo per vederlo).

Inoltre, non credo sia vero che non c’é spazio per una certa creativitá. Esso c’é, ma con dei confini stilistici molto rigidi. Io direi che in Corea del Nord, per le ragioni di cui parlo estesamente nel libro e che tu hai giá identificato, l’arte é estremamente codificata. Questo protegge sia il sistema che l’artista.

  • Scrivi:

In Corea del Nord una persona su quattro e legata alla polizia segreta. In Corea del Nord vige il servizio militare più lungo del mondo. In Corea del Nord il minimo sospetto sulla fedeltà politica può portare alla deportazione del soggetto con tutta la famiglia fino al quarto grado di parentela. In Corea del Nord nessuno ha internet, nessuno sa cosa succede fuori. In Corea del Nord non si può usare il telefonino. Anzi, non sanno proprio cosa siano, i telefonini. In Corea del Nord non hanno vestiti, hanno solo uniformi. In Corea del Nord non si può comprare, non si può vendere, si può solo barattare.

La Cina per superare il dirigismo maoista e innescare un processo di crescita ha lasciato libertà di iniziativa economica. Tu pensi che un giorno in Corea del Nord potrà esserci un Deng Xiaoping?

Questo pezzo che tu hai estrapolato é un riassunto di tutti i luoghi comuni sulla Corea del Nord, luoghi comuni di cui avevo sentito parlare prima di entrare nel paese, e che poi si sono rivelati veri solo in parte (in Corea si compra, si usano vestiti civili, si usano i cellulari, solo per fare alcuni esempi.

Insomma anche in questo paese le sfumature sono molte di piú di quelle che potremmo pensare. E la Corea del Nord cambia, anche se piú lentamente di molti altri paesi. Certo l’apertura del paese al mercato potrebbe arrivare solo dopo una sincera e approfondita riflessione su come si cambia la struttura mentale di 24 milioni di persone. 

  • Parliamo di armi. Tu hai visto i residui oramai innocui della resistenza nazionale del Mozambico, hai visto i carri armati a Tunisi nel 2011 e poi quelli a Pyongyang  “La folla è in uno stato che non ho mai visto in nessun altro assembramento in nessun altro luogo del mondo. Una sorta di trance collettiva. Qualche soldato allunga le mani per toccare quelle delle anziane signore e dei bambini”

La Corea del Nord è inclusa nel cosiddetto “Asse del Male” che nel 2002 aveva individuato Bush jr. Credi che il coreano medio abbia una paura reale di possibili attacchi al suo Paese? 

Certo. Credo che i coreani, i coreani normali, quelli che vivono e lavorano al di lá e al di fuori della cerchia dei diplomatici, si sentano sinceramente accerchiati, detestati da gran parte del resto del mondo, e in pericolo. E su questo sentimento di pericolo –sicuramente strumentalizzato e sottilmente utilizzato dal sistema- cresce, in maniera durkheimiana, il senso di identitá e di coesione. (Sull’asse del male e sui danni causati da questa classificazione credo ci siano giá illustri studi, dunque non mi dilungo)

  • Vuoi dirci in breve cosa si intende per “coreano personale”?

Io lo chiamo “coreano personale” perché non mi piace la parola inglese “minder”. Quando uno straniero entra in Corea, vuoi per lavoro, vuoi per turista, viene assegnato a un coreano in genere vincolato al ministero degli esteri. Questo coreano, che parla la lingua del visitatore, é un po’ la sua porta d’accesso sulla Corea e la sua chiave di interpretazione. Serve anche ad evitare che lo straniero faccia cose imprevedibili, entri in luoghi che non sono considerati appropriati, ponga domande che non sono considerate corrette, interagisca in una forma che non é considerata adeguata.

  • Hai avuto l’opportunità di stare seduta vicinissima a Kim Jong Un, hai scritto che è stata l’emozione più forte che tu abbia mai provato. Semplice adrenalina o paura?

Cavolo non ci avevo mai pensato. Credo che si sia trattato dell’adrenalina moltiplicata attraverso le urla e le emozioni della folla. E´una sensazione di pancia. Paura no. Come dico nel libro, io credo nella razionalitá e in una certa prevedibilitá del regime nordcoreano, e soprattutto so che gestisco un potere irrisoriamente limitato: non sono interessante per gente cosí potente.

  • Mi incuriosisce molto la tua opinione sui cooperanti in generale. Collaborare con una ONG in alcuni Paesi è molto rischioso, penso a Silvia Romano in Kenya, era alla sua prima esperienza. Puoi per favore descriverci (secondo la tua esperienza) quale fuoco arde in una ragazza giovane che fa queste scelte? E soprattutto … il rischio di perdere la vita si mette in conto o ci si illude che non succederà?

Io non conosco personalmente Silvia Romano e la sua storia, ma mi pare di aver capito che fosse una volontaria. C’é una grossa differenza tra i (necessari, instancabili, generosi) volontari, e i professionisti della cooperazione. So che puó sembrare paternalista come affermazione, e posso spiegarmi di piú se vuoi.

Uno studio di devex del 2011 fa divideva i cooperanti in 3 categorie: missionaries, misfits and mercenaries. Io non credo che questo sia molto diverso dalla realtá. Ognuno di noi fa poi i conti con le proprie scelte, e a volte per alcuni l’adrenalina, il rischio (sequestro, omicidio, assalti, violenze) é parte del gioco, addirittura una parte stimolante.

Quando io ho deciso di prendere la strada della cooperazione ero giá un’adulta, una militante, un’attivista. Avevo sempre guardato alla cooperazione come a un modo per riuscire ad avere impatto sul reale. In fin dei conti volevo (voglio, vorrei) cambiare il mondo, non meno di quando facevo la militante, peró avevo bisogno di una cornice che fosse socialmente accettata e accettabile.

  • Hai scritto questo libro a L’Avana,Cuba, mi ha colpito scoprire della foto del Che a Pyongyang, appesa nel mausoleo dove riposa il corpo imbalsamato di Kim Il Song e mi sono domandata due cose: perché sei attratta dai Paesi in cui governano dittatori? E poi che hanno in comune La Corea del Nord e Cuba?

Giá, perché? In effetti, tra Corea e Cuba, ho vissuto due anni in Birmania, un altro paese la cui situazione politica non é certamente vicina alla democrazia.

In generale ti potrei dire che, anche dal punto di vista professionale, tutti questi paesi sono piuttosto simili, nel senso che hanno delle strutture decisionali paragonabili (pur con tutte le differenze contestuali) e un simile atteggiamento nei confronti delle ONG. Credo che nel libro emergano alcune similitudini, ma mi riprometto di scriverne un altro dove questo aspetto sia piu evidente!

Mi ha sempre attratto, l’altro lato della Cortina di Ferro. Forse perché era un’alternativa ideologica a qualcosa che non mi convinceva. E non sto dicendo che sia la giusta alternativa. Un altro mondo possibile. Mi interessa vivere questo senso di straniamento quasi brechtiano nelle mie giornate. Non sono mai a casa, non sono mai comoda.

Ultimissima domanda: “Che paura che fa l’amore a Pyongyang. Che paura che fa l’amore quando per sopravvivere bisogna controllare ogni sentire?”

Certo che sei attentissima!
E’ cosí. 
Ogni insieme umano ha i suoi codici. In un posto come Pyongyang ( e come molti luoghi dove si fa cooperazione) gli elementi esterni sono cosí imprevedibili, lontani dai nostri canoni culturali e potenzialmente pericolosi che il codice interno alla comunitá diventa piuttosto stretto. Insomma, esistono un comportarsi bene e un comportarsi male. Oltrepassare queste linee di confine mette a disagio, puó rischiare di provocare isolamento e crea degli elementi di disturbo che turbano il quieto vivere della comunitá internazionale. Bisogna rimanere nel cordiale, nel medio, nell’accettabile. E quindi, quando capitano queste cose imprevedibili e completamente irrazionali tipo gli innamoramenti, ci si spaventa, perché si perde il controllo.

Il libro

Cosa succede quando una giovane donna risponde al precariato del sistema capitalista trovando lavoro in una delle ultime realtà comuniste rimaste? In gioco ci sono la propria visione del mondo, le relazioni amorose e amicali, la ricerca di stabilità e dignità.Attrezzata con un master in diplomazia e una precedente esperienza in Corea del Sud, in questo libro Carla Vitantonio presenta la Corea del Nord con uno sguardo inedito, che arricchisce di sfumature e sottigliezze la consueta rappresentazione del regime monolitico per eccellenza.
Il suo punto di vista, fresco e ironico, incrocia due riflessioni principali: quella su un modello ideologico sopravvissuto a un’epoca scomparsa, e quella generazionale sul modello di flessibilità lavorativa che il sistema capitalista ha imposto.

Carla Vitantonio è atterrata la prima volta all’aeroporto di Pyongyang con un lavoro come insegnante di italiano, era poco più che trentenne e non sapeva che avrebbe trascorso quattro anni della sua vita in Corea del Nord, diventando nel frattempo capo missione di una Ong internazionale.
La sua lettura del Paese è trasmessa attraverso esplorazioni esistenziali e relazionali, in un quotidiano ordinario e straordinario, in cui la vita stessa è un atto politico.
Seguendo il ritmo delle stagioni e la ciclicità senza scampo della natura, l’autrice propone un parallelo con gli andamenti ossessivamente ripetitivi delle fasi politiche nazionali di calma e di tensione domestica e internazionale.

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