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TematicheRussia e Spazio Post-sovieticoPutin dopo Putin. Verso un TecnoPopulismo?

Putin dopo Putin. Verso un TecnoPopulismo?

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Piccola premessa: questo pezzo è stato pensato – a fine 2020 – come nuovo capitolo di un volume che avrebbe dovuto aggiornare, nel dicembre del 2021, la mia riflessione sui possibili sbocchi della traiettoria strategica tra Berlino e Mosca a trent’anni dalla dissoluzione dell’Urss.

La nuova edizione di GeRussia (Castelvecchi) non è andata in stampa anche perché – alla luce della criminale invasione dell’Ucraina – proprio l’ipotesi di una pacifica evoluzione dei rapporti tra Germania e Russia è di fatto tramontata. Questi appunti sulla possibile successione a Putin, aggiornati al trauma del 24 febbraio 2022 (è chiaro che l’evoluzione politico-militare-diplomatica della crisi in atto ci dirà molto di cosa accadrà anche al Cremlino), diventeranno un capitolo del libro che – già dal titolo – ridefinisce la cornice geostrategica, evocando una dinamica che fatalmente avevamo già conosciuto nel XX secolo: “Fronte dell’Est – Tra russi e tedeschi, l’importanza di uno spazio geografico”.

È come se – ancora una volta – un tragico destino, beffardamente e drammaticamente, si fosse riproposto per congelare le aspettative di modernizzazione e di emancipazione di questi popoli, condannandoli a recitare – ancora una volta – la parte di vittime di una tragedia greca, con il suo corollario di vendette, faide, rappresaglie, hybris. Ma non c’è Antigone, e le Erinni non diventano mai Eumenidi e la pietà non trova un altare dove essere onorata. 

Nessuno che ammonisca: “Lasciate che i morti seppelliscano i morti”. Abbiamo già messo in guardia contro la tentazione di un approccio storicista ma mi sembra che la matrice analitica da me definita “La Russia di Weimar” abbia molto da dirci sul diabolico ingranaggio che si è messo in moto a Est. Nella speranza che non si aggiunga la quarta, possibile e fatale variabile di quella equazione: il Donbass e la Crimea (che Hitler nella sua pseudogeografia chiamava “La testa del Goto”) non siano la Danzica del nostro tempo.

Detto questo, nel chiarire ancora meglio il quadro concettuale da cui prende forma la mia analisi, vorrei aggiungere che, personalmente, ritengo i 2 principali approcci alla lettura di questa crisi – psicologismo (nel mainstream) e cospirazionismo (nei mondi alternativi) – entrambi fallaci (tra l’altro è interessante notare come – partendo dal presupposto che informazione e disinformazione viaggino sugli stessi canali – proprio gli approcci che si nutrono di psicologismo e cospirazionismo annebbiano – in una vera e propria guerra cognitiva – i confini tra sistema e antisistema, mainstream e controcorrente e – citando Eco – tra “Apocalittici e Integrati”. E perché li ritengo fallaci? 

Nel primo caso, se è vero che i leader fungono da detonatori, si sottovaluta come la storia sia guidata dall’interazione profonda tra geografia politica, istituzioni e ideologie. Nel secondo, se – come sanno tutti i pianificatori – i piani (anche i meglio congeniati) si dissolvono al primo contatto con il nemico, lo stesso vale – se non di più – per le cospirazioni, anche le più raffinate. Quindi sul piano analitico siamo al livello di curiosità intellettuale. Inoltre psicologismo e cospirazionismo dimenticano che l’autonomia delle scienze sociali (e tra queste gli Studi strategici) si fonda sul fatto che ‘azioni umane intenzionali generano una cascata di conseguenze inintenzionali’ e su questa cascata ci dobbiamo concentrare. 

Nella mia visione provo ad avvicinare le intuizioni di Mircea Eliade sulla costruzione delle mode culturali (e di specifici Zeitgeist) al lavoro di Alain Joxe (polemologo marxista) sull’applicazione della Teoria del Caos alla pianificazione strategica per guadagnare un sostanziale vantaggio competitivo nel ciclo OODA (Osservazione, Orientamento, Decisione e Azione – codificato da John Boyd) dell’avversario alterando la stessa capacità analitico-cognitiva della realtà. In questo senso va recuperato – nella lettura efficacemente proposta (alla luce dei lavori di Suzanne Nossel) da Germano Dottori – anche la lezione di Joseph Nye (mutuata dall’economia comportamentale) sull’approccio multidimensionale al/del Potere. Nella nuova arena i giocatori più performanti sono quelli che meglio riescono a dosare Soft e Hard Power, implementando quello che – sempre Nye – ha chiamato Smart Power, riuscendo così a definire la cornice strategica a loro più favorevole, ottenendo i dividendi più elevati. Come a dire: vince chi è in grado di scrivere le regole del gioco o persino riscriverle (o anche decidere di cambiare gioco) se – nonostante tutto – i risultati sul campo non sembrano arridergli. Ma quanto deve tutto questo all’approccio ‘Nudge’ codificato da Cass R. Sunstein?

Questo quadro concettuale ha molto a che fare con il XIV stratagemma dell’Arte della Guerra: “Prendere a prestito un cadavere e rifondergli vita”: come quando gli USA con Margaret Albright (segretario di Stato di Bill Clinton) – esaurita la spinta del Kemalismo – hanno definito una nuova traiettoria strategica per Ankara – riesumando l’Ottomanesimo – come protettrice della diaspora mussulmana nei Balcani (Bosnia, Albania e Kossovo); oppure, come quando nel 2003, nella cornice della “Nuova Europa”, Donald Rumsfeld ha rivitalizzato, in chiave antirussa e antitedesca, i nazionalismi irredentisti dell’Europa orientale.

Altra premessa, vale la pena di ricordare che in Russia il cambio di potere è sempre avvenuto a Mosca o a Leningrado/San Pietroburgo, solo successivamente si combatte per allineare il resto del Paese ed evitare spinte centrifughe sulle periferie dell’Impero (quindi il contrario della principale traiettoria geostrategica da me evidenziata come prioritaria nell’epoca della crisi globale: Periferie vs. centro; un’impostazione poi brillantemente sistematizzata da Emanuel Pietrobon e Andrea Muratore; fattore di cui cui dovrebbero tener conto i nostri strateghi). Quindi è improbabile qualcosa di simile a una rivoluzione arancione per defenestrare Putin e se il cambio ci sarà, ciò dipenderà da una rottura degli equilibri interni al Cremlino. In questo senso l’attacco agli Oligarchi (impossibilitati a trasformare il proprio capitale economico in capitale relazionale e quindi politico) rischia di essere un ulteriore assist a Putin e ai falchi del Regime.

Alla fine di novembre 2020 sul sito Strategika 51 è apparso un articolo dal titolo: “Chi sarà il successore di Putin?” (https://strategika51.org/2020/11/24/qui-sera-le-successeur-de-vladimir-poutine/ – il pezzo è stato tradotto e rilanciato anche su alcuni media italiani (Affari Italiani, Milano Finanza e Italia Oggi). Strategika 51 – nella sua presentazione – si descrive come nata “Nel 2011 durante il caos ingegnerizzato delle guerre ibride di seconda generazione che hanno colpito alcuni Paesi nella regione centrale del mondo”. 

Siamo di fronte a un riferimento che rimanda all’approccio del generale Valerij Vasil’evič Gerasimov  e dell’analista Leonid Savin: “L’uso delle nuove tecnologie – come i social network, le infiltrazioni religiose e i flussi transnazionali (e tra questi le attività dei media) – possono dispiegare tutto il loro potenziale proprio grazie alla ‘Coaching War’”. La rivista viene solitamente citata come una voce “non ufficiale” del Deep State russo (e come tale vuole apparire). Il tema della successione a Putin è tornato al centro della discussione da quando, sui media internazionali, sono filtrate informazioni sul presunto stato di salute dell’inquilino del Cremlino (tema su cui torneremo) e che ha acquistato – ma come dicevo nelle premesse dell’articolo – una centralità fuorviante nel dibattito sulla crisi ucraina.

Nell’articolo si afferma che “Due nomi stanno cominciando a circolare in alcuni circoli del potere russo. Il primo è Ramzan Ahmadovich Kadyrov – attuale presidente della Cecenia – e Sergey Kujugetovich Shoïgu, ufficiale di lunga esperienza (sia operativa che con incarichi di Stato Maggiore) e attuale ministro della Difesa”. I due uomini godrebbero dell’assoluta fiducia di Vladimir Putin anche se Kadyrov è abbastanza controverso sia per la sua gestione del potere, per la “cecenizzazione” del conflitto nel Caucaso e perché la sua possibile ascesa alla presidenza della Federazione Russa costituirebbe un precedente storico: quello del primo leader russo di fede musulmana dai tempi dell’Orda d’oro. Ostacolo non da poco per il leader ceceno ma sul ruolo geopolitico dell’Islam nella politica imperiale russa possono rileggersi alcuni pezzi apparsi su Foreign Affairs (https://www.foreignaffairs.com/articles/russia-fsu/2014-04-07/putins-khanate) e su al Jazeera (https://studies.aljazeera.net/ar/node/1383).

Comunque sul valore di auto-promozione del personaggio può essere rintracciata l’impronta di uno degli uomini più vicini a Putin (anche se attualmente in disgrazia): Vladislav “Slava” Surkov che è legato a Kadyrov da una profonda amicizia (oltre a essere lui stesso di origine cecena: https://www.huffingtonpost.it/salvatore-santangelo/la-geosofia-della-russia-di-putin_b_4924135.html – https://www.geopolitica.info/putin-licenzia-surkov-ideologo-del-putinismo/). Secondo Strategika51 – comunque – sarebbe Putin a gestire direttamente la sua eventuale successione. E il motivo è che “Vladimir Putin vuole assicurarsi che la Russia non ritorni più all’era disastrosa di Boris Eltsin e degli oligarchi che l’hanno fatta a pezzi e spogliata, trasformando una grande potenza in uno Stato fallito. La Russia non solo ha fatto molta strada, ma è stata in grado di realizzare tutti i suoi antichi sogni geostrategici come l’accesso ai mari caldi, la santuarizzazione senza precedenti del suo immenso territorio, una posizione privilegiata nel mercato internazionale degli armamenti, una politica influente in Medio Oriente, Asia e Africa, con una nuova dottrina per l’Oceano Artico, un’alleanza strategica con la Cina e, infine, un ruolo diplomatico di grande potenza. Dotato di una visione fredda, Vladimir Putin non vorrebbe che questi progressi vadano perduti per colpa di una nuova generazione di tecnocrati deboli di carattere e ossessionati dalle illusioni di un Occidente in stato di ‘morte clinica’ ma che vuole tornare alla ribalta mantenendo la menzogna universale, questa volta tramite i giganti di Internet”. 

Si noti la costruzione di una narrativa funzionale alla logica conflittuale: l’articolo infatti tende non solo a definire il nemico principale – la globalizzazione – ma a polarizzare la maggioranza dell’opinione pubblica contro un avversario interno, quei tecnocrati “Deboli di carattere” e illusi dalle sirene dell’Occidente; “Il successore di Vladimir Putin dovrà essere un uomo forte e non un servile tecnocrate incapace di governare un enorme Paese come la Russia”. Il criterio di preferenza per la scelta del successore è dunque la forza del carattere: “Queste due preferenze avanzate da Vladimir Putin ai suoi strateghi sono illuminanti circa la valutazione russa dell’evoluzione della situazione mondiale a breve termine: il mondo si avvia verso un confronto in modalità hard, ed è fuori questione di consegnare la Russia a burocrati o politici di bassa levatura”. Strategika inserisce la notizia (confermata anche da altre fonti) che Putin avrebbe “riattivato il governo di emergenza”, una sorta di equivalente dell’insieme di procedure, rifugi, comunicazioni sicure che devono garantire all’esecutivo USA di continuare a funzionare anche in caso di guerra atomica, chiaramente questo “in una versione più adatta alla realtà geostrategica russa nel momento in cui gli scenaristi del Cremlino – sui 25 ‘casi’ post-Putin – prevedono per 24 di essi ‘un conflitto con uso di ordigni tattici nucleari e scontri su almeno tre differenti teatri regionali’. In questo caso, sarebbe totalmente deplorevole lasciare le sorti del Paese a un eventuale secondo Eltsin e a un’orda di oligarchi voraci al servizio della finanza predatrice transnazionale”. Siamo già nello storytelling di guerra. Decisamente, da queste parole, “Un secondo Eltsin” come successore di Vladimir viene considerata una possibilità abbastanza concreta se la redazione di Strategika ritiene di doverla esorcizzare con tanta foga.Tanto più che l’articolo prosegue – aggiungendo – che “La questione fondamentale è sapere se una parte rilevante dei russi è a tal punto occidentalizzata nella sua mentalità e quindi permeabile alla cosiddetta ideologia ‘liberale’ promossa dai media, dal cinema, dalle serie tv, dall’entertainment e dai social globali, da rifiutare un uomo forte come Kadyrov o Choïgu i cui principi sono in contrasto con la sottocultura globalista decrepita e debilitante”.

Qui si rimanda al tema del conflitto interstatale tra globalisti e antiglobalisti esasperato dalle conseguenze geopandemiche del Covid19 (http://www.atlanticoquotidiano.it/recensioni/geopandemia-da-guerra-virale-a-guerra-civile-mondiale-a-bassa-intensita/ ) esprimendo chiaramente il dubbio che una parte dell’elettorato russo, occidentalizzato, rifiuti “uomini forti”. Del resto, è sintomatico come dei due che Strategika ritiene ideali successori di Putin, uno sia un ceceno e l’altro un mongolo dell’Altai. Due personaggi che stanno appunto occupando un ruolo centrale nella tragedia Ucraina. Dovremmo chiederci quanto di Putin ci sia in questa visione, oppure se articoli come questi apparsi in concomitanza delle indiscrezioni sulla sua presunta malattia facciano parte di una strategia più articolata. In realtà la Russia non si è mai ripresa dal collasso dell’Unione Sovietica e la situazione fotografata dal collasso demografico e dalla perdita dell’Ucraina (con un rischio di un effetto domino su Bielorussia e Kazakistan) ci mostra come Mosca abbia difficoltà anche nel presidiare la propria sfera di influenza più prossima senza un’azione violenta e muscolare; assieme alla fragilità di un sistema economico troppo legato alle esportazioni di materie prime e quindi vulnerabile alle criticità del contesto internazionale. Le proiezioni di forza in Siria e Libia e anche una vittoria in Ucraina difficilmente potranno trasformarsi in un reale cambio di rapporti di forza e rischiano nel medio periodo di logorare le già scarse risorse.

Tornando al fronte interno, Putin avrebbe prima giocato una partita al centro (come Mao con Lin Biao) facendo filtrare informazioni al fine di far emergere i confini di eventuali cordate e alleanze o voci potenzialmente troppo assertive, ossequiose oppure contrarie e regolare conseguenza la propria reazione di conseguenza. L’attacco a Kiev è la dimostrazione che alla fine si è affidato proprio ai falchi.

La variabile “esterna”

All’evoluzione dello spazio post-sovietico si può applicare una matrice di analisi che definiremo “modello di Weimar”.

Qual è questo parallelismo possibile tra la Germania di Weimar e la “Russia di Weimar”?

Quando nel 1918, lo Stato Maggiore tedesco, guidato da Hindenburg e Ludendorff, si presenta al cospetto del Kaiser e confessa che il Paese “Non è più in condizione di combattere”, questo messaggio arriva all’opinione pubblica come un fulmine a ciel sereno. Non è un caso che proprio da ciò sia scaturita la leggenda “della pugnalata alle spalle”.

La frustrazione era violenta perché – nonostante l’ingresso in guerra degli Stati Uniti – nel novembre 1918, le truppe tedesche erano posizionate saldamente all’interno del territorio francese, avevano piegato la Russia, costretta al una pace diseguale con il trattato di Brest-Litovsk: i confini del II Reich a Est erano arrivati dove nemmeno il III Reich di Hitler sarebbe giunto al momento del suo apogeo, e comprendevano la Polonia, tutte le Repubbliche baltiche, la Bielorussia e l’Ucraina; contemporaneamente era stato dato il via a un processo di disgregazione che aveva portato alla creazione di tantissime Repubbliche autonome e filo-tedesche nel Caucaso. L’esercito imperiale tedesco era quindi una forza che appariva vittoriosa, anche se Hindenburg e Ludendorff, quando si presentano dal Kaiser, sono consapevoli che queste posizioni sono estremamente fragili e che l’ingresso degli Usa nel conflitto ha cambiato totalmente gli equilibri; soprattutto il blocco navale aveva reso la posizione del fronte interno insostenibile, con milioni di tedeschi che stavano soffrendo la fame. Quando l’Esercito smobilita, le truppe tornano a casa scosse da un profondo senso di frustrazione e successivamente, tutta la storia di Weimar sarà costellata dalle vicende dei Corpi franchi, dalla violenza politica nelle strade e da numerosi tentativi di colpo di Stato. Lo stesso accade in Russia: quando Gorbaciov inizia il processo della Glasnost e la successiva Perestroika (per cercare di resistere alla sfida che militarmente, culturalmente e politicamente, il Blocco occidentale gli aveva lanciato), l’Esercito sovietico – nonostante la battuta di arresto in Afghanistan – è saldamente a Berlino, a Varsavia e a Praga, e tutti coloro che contrastavano l’ordine neoliberista avevano come punto di riferimento proprio Mosca.

Quando l’Armata Rossa dismette le conquiste che erano state pagate con un esorbitante prezzo di sangue e i suoi uomini ritornano in Patria, il risentimento covato dall’armata – dopo questa tragedia e dopo una latente ostilità nei confronti dell’ordinamento pseudo-democratico – esplode anch’esso in un tentativo di colpo di Stato contro Eltsin, tentativo che viene duramente represso. Quindi, primo parallelismo: frustrazione dell’esercito e spinte centrifughe che rischiano di disgregare le due realtà statuali. Secondo parallelismo: la percezione che una parte del popolo viene strappato alla Madrepatria. Con la ridefinizione dei confini, dopo la pace di Versailles, la Germania perde una significativa percentuale del proprio territorio; pensiamo alle regioni che erano state conquistate dopo il 1870, come l’Alsazia e la Lorena, ma anche realtà che facevano storicamente parte dell’area germanofona: una parte della Slesia che viene ceduta alla Polonia, come anche il corridoio di Danzica; la creazione della Cecoslovacchia porta all’amputazione dei Sudeti e milioni di tedeschi diventano una minoranza discriminata.

Tutto ciò accade anche nella Russia post-sovietica, perché – dopo la disgregazione della costruzione imperiale dell’Urss e la nascita delle tante Repubbliche – ci sono milioni di russofoni, o meglio sovietici, che restano incagliati all’interno di assetti statuali dove si sentono cittadini di serie B. Terzo parallelismo: nella Repubblica di Weimar e nella Russia post-sovietica, c’è una piccolissima fetta di popolazione che si è straordinariamente arricchita in questi drammatici frangenti. In Russia sono gli oligarchi, nella Germania di Weimar quelli che i demagoghi populisti definiscono come “i profittatori di guerra”: entrambi questi gruppi riescono a costruire, grazie ai loro network politici e a un senso di amorale opportunismo, degli immensi imperi economici. Questo genera nella maggior parte della popolazione che si trova a sostenere difficili condizioni di vita e di profonda indigenza economica, un risentimento nei confronti di quella minoranza che invece è riuscita a cogliere, come accade nelle grandi crisi, delle immense opportunità. La Repubblica di Weimar verrà stravolta dalla crisi economica del 1929, la Russia dal default del proprio debito sovrano. Nella Germania di Weimar queste tre variabili porteranno come soluzione dell’equazione, l’avvento al potere di Adolf Hitler.  Le stesse – nella “Russia di Weimar” – hanno prodotto come risultato Vladimir Putin, che non è certamente Hitler. 

Anzi, Putin – fino all’azzardo del 24 febbraio – aveva dimostrato grande intelligenza nel riuscire a risolvere tutte le sfide che aveva di fronte, cercando allo stesso tempo di avvicinare la Russia all’Occidente. Sinceramente, pur condannando con tutta la forza possibile l’invasione, non possiamo non percepire come l’antioccidentalismo di Putin sia in gran parte esito di una reazione, poiché il suo obiettivo è sempre stato quello di trovare un posto dignitoso alla Russia nel contesto internazionale, superando la visione unipolare e ridando credibilità e forza al suo Paese dopo la tragedia del 1991.

In questa parabola evidenzierei però tre momenti, nel 1999 con la secessione del Kosovo, poi nel 2003 con la costituzione di un fronte comune contro l’avventura neoconservatrice, che vede uniti Francia, Germania, la diplomazia vaticana e appunto la Russia. Il terzo si avrà nel 2014, con l’apertura della crisi in Ucraina che sappiamo essere uno scacchiere imprescindibile per Mosca. Si tratta di quell’area che i russi considerano “Estero prossimo” e che di fatto è la matrice genetica e culturale dell’Impero zarista che, a partire dall’anno mille, avrà il suo primo embrione proprio attorno agli insediamenti di Kiev e Smolensk. Proprio la vicenda Ucraina ha totalmente sbilanciato il processo decisionale russo portando Putin verso una soluzione senza profondità strategica che – a prescindere dal risultato sul campo – condanna il Paese a diventare una sorta di super Corea del Nord dietro lo scudo della deterrenza nucleare. E la cui stessa esistenza, per logoramento, potrebbe essere minacciata – come ho provato a spiegare in altre analisi di scenari – chiusa la parentesi Obama-Trump si torni a una cogestione sino-americana della globalizzazione. 

Queste brevi considerazioni, servono proprio per mettere in luce le contraddizioni che un leader come Putin ha dentro di sé: non è un reazionario, non lo è per formazione, non lo è per storia, non lo è neanche per orizzonte mentale e rammentiamo che nel suo famoso discorso dove ha messo in discussione il modello della democrazia liberale (che di fatto è entrato in crisi), non ha risposto abbracciando le tesi del controverso filosofo Alexander Dugin e degli eurasisti ma quelle di coloro che da questi ultimi sono considerati i nemici giurati della Russia tellurica e asiatica, gli Zar illuministi e illuminati, che hanno voluto spingere sull’acceleratore della modernizzazione del Paese. Nonostante tutto ciò, Putin si trova schiacciato su posizioni esattamente antitetiche. Tra l’altro, le azioni che ha messo in campo il Cremlino, sono azioni di retroguardia, come in Siria o in Crimea e oggi in Ucraina. Ci colpisce la spettacolarità di queste re-azioni, come occupare Sebastopoli o puntellare il regime di Assad, ma si tratta di mosse tattiche che in pochissimo tempo esauriscono le risorse a disposizione di un corpo – come quello russo – già profondamente stremato.

Attenzione a non fare un errore di prospettiva e di profondità: la Russia è una potenza declinante e come tale, fa di tutto per arrestare questo declino. E questo lo ha compreso perfettamente Trump che non a caso ha teso una mano a Putin (prontamente stretta) rilanciando lo spirito dell’Elba, in ricordo dello storico incontro tra le truppe americane e sovietiche sulle sponde del fiume tedesco nel 1945, invocandolo, “come esempio di come i loro Paesi possono cooperare”. Questo approccio avrebbe potuto avere la portata della diplomazia del ping pong inaugurata da Nixon e Kissinger, determinante nello spaccare il fronte comunista, allontanando Pechino da Mosca e segnando in questo modo l’esito dell’epico confronto. 

Trump, staccando Mosca da Pechino, avrebbe favorito l’isolamento della Cina, isolamento amplificato dall’offensiva comunicativa sulle celate responsabilità rispetto all’esplosione dell’attuale pandemia. Ma il pendolo, con la crisi in Bielorussia, l’avvelenamento di Alksej Navalny e le tensioni militari nel Caucaso meridionale fino all’attacco contro Kiev ha – in breve tempo – ripreso a oscillare in direzione contraria e forse definendo una traiettoria da cui non sarà più possibile tornare indietro. A questo punto vale inserire una digressione di natura geografica/cardinale suggerita da Francesco Marradi: “I discorsi di guerra (e non poteva forse essere diversamente) hanno sostanzialmente reso l’evoluzione internazionale un processo markoviano, nel quale per definizione non c’è profondità storica e geografica (Il concetto di “processo markoviano” proviene dall’Intelligenza artificiale: è la costruzione matematica/statistica che sta alla base del reinforcement learning. Al contrario esiste una analisi multidisciplinare della complessità che non può essere evitata per l’analisi dei fatti sociali). Altro frammento: noi guardiamo ad Est, la Russia oggi torna a puntare verso Sud, non più a Ovest. Per l’Occidente è tutto a Est; per gli altri no.

A noi non dovrebbe importare tanto di San Pietroburgo e Mosca, queste sono già europee. Ci dovrebbe importare di Vladivostok. Se perdiamo Mosca, perdiamo tutto il territorio fino a Vladivostok, qualcun altro lo occuperà”.Vale la pena notare che si tratta di una delle sottotrame del romanzo distonico di Maurice Dantec: “Babilon Babies”. Sarà questa evoluzione a determinare lo sbocco della successione. O paradossalmente proprio la drammatica accelerazione in Ucraina potrebbe appunto consegnarci – con riferimento alla successiva evocazione del congelatore per eccellenza, il nucleare – un puntinismo eternato. Un Putin dopo Putin.

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