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TematicheMedio Oriente e Nord AfricaLe proteste in Iran proseguono silenziose

Le proteste in Iran proseguono silenziose

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Nel pieno della profonda crisi di legittimità che da mesi minaccia la tenuta delle istituzioni, l’11 febbraio il regime iraniano ha dato prova del proprio potere e del radicamento nella tradizione celebrando il quarantaquattresimo anniversario dalla vittoria della Rivoluzione islamica. La capitale Teheran è tornata ad assumere i connotati di una città islamica, almeno in apparenza. I graffiti delle proteste sono stati coperti dai manifesti della propaganda islamista e gli spazi segregati nelle università, nei trasporti e nei luoghi pubblici sono stati rafforzati; le strade e le piazze principali sono state addobbate con bandiere, palloncini e cartelli che riportano slogan religiosi; mentre l’esercito ha esposto pubblicamente i propri armamenti e droni. Eppure, guardando più attentamente, le anomalie e le inadeguatezze di uno Stato in rivolta emergono irrimediabilmente, supportate da gesti quotidiani e a prima vista banali, di individui che, silenziosamente, costruiscono una nuova, fragile normalità dai contorni trasformativi.

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La fine delle proteste?

Osservando l’evoluzione degli eventi negli ultimi sei mesi, risulta evidente come i manifestanti che si oppongono al regime degli Ayatollah abbiano ridimensionato i propri repertori d’azione. Teheran non è più teatro di quegli episodi dal carattere eclatante che l’opinione pubblica globale aveva imparato a conoscere. Dicembre 2022 ha determinato la fine delle proteste classicamente intese: non circolano più, infatti, i video ritraenti la discesa in strada delle donne intente a bruciare il proprio velo, danzare pubblicamente e tagliarsi i capelli; non sono più state diffuse le immagini degli attacchi in massa contro le forze di polizia o le riprese di folle esasperate che scagliavano pietre e urla contro le immagini della Guida Suprema. Da una parte, le rivolte sono riuscite a incarnare le rivendicazioni di ampi strati della popolazione, coinvolgendo donne e uomini di ogni età, travalicando i confini di classe e le appartenenze etniche, estendendosi dalle piazze alle università, dai social media alle fabbriche, dai piccoli centri rurali ai grandi centri urbani. Tuttavia, questa spinta simil rivoluzionaria che prometteva un rapido sovvertimento dello status quo è stata costretta a fare un passo indietro, o quantomeno rallentare e reinventarsi, di fronte alla dura repressione messa in atto dal regime.

Difatti, a partire dal mese di novembre le autorità nazionali non hanno mostrato esitazione nell’adottare misure via via più punitive, aggrappandosi alla ferma intenzione di porre fine ai disordini ad ogni costo. Inizialmente, è stata firmata dall’Ayatollah Khamenei una direttiva che consentiva alle forze di sicurezza l’uso deliberato della forza contro i manifestanti; in seguito, sullo sfondo degli arresti di massa, il Parlamento iraniano si è espresso a favore dell’adozione della pena di morte in caso di gravi crimini contro lo Stato e in applicazione della legge, a dicembre sono iniziate le esecuzioni. Ad oggi sono quattro i manifestanti vittime della pena capitale, mentre almeno altri dieci si trovano ancora nel braccio della morte. Il dispiegamento di tali strumenti di repressione ha comportato una visibile attenuazione delle espressioni più radicali della protesta, rivelandosi tanto crudele quando efficace. E questa efficacia è visibile anche nelle manovre di “apertura” verso gli oppositori, come l’amnistia concessa a numerosi prigionieri il 5 dicembre, in occasione della celebrazione dell’anniversario della rivoluzione. L’intervento ha permesso il rilascio sia di manifestanti imprigionati negli ultimi mesi, sia di attivisti, dissidenti, artisti e accademici in carcere da molto più tempo. Tra di essi vi sarebbero anche personalità di spicco, quali l’attivista per i diritti civili Farhad Meysami, in sciopero della fame, e l’accademica iraniano-francese Fariba Adelkhah, rinchiusa nella prigione di Evin dal giugno 2019. Questa grazia si giustifica principalmente come una mossa politica, volta a salvare il volto del regime in un periodo di estrema difficoltà, ma difficilmente sarebbe giunta senza una precedente dispersione dei sommovimenti.

A fronte di questa riduzione nell’intensità e nella frequenza degli atti di opposizione, tuttavia, sembra improbabile immaginare che i mutamenti avvenuti negli ultimi mesi risultino facilmente reversibili e che il confine, fisico e ideologico, tra uomini e donne venga ripristinato senza alcuna conseguenza. Difatti, sono molti gli atti di disobbedienza civile che proseguono quotidianamente. Nelle mense universitarie, dove sono nuovamente stati eretti i divisori tra spazi maschili e femminili, gli studenti e le studentesse continuano ad eludere i divieti di commistione di genere, riunendosi nei cortili innevati per mangiare insieme; le donne escono in pubblico senza hijab e, in luoghi come parchi, caffè, ristoranti e centri commerciali, si nota una maggioranza di corpi scoperti anziché velati; pur in maniera meno eclatante, gli slogan antigovernativi vengono ancora gridati dai tetti, i graffiti impressi sui muri e i manifesti di propaganda del regime incendiati e vandalizzati.

Il paese si trova dunque a vivere un momento di aggiustamento, laddove tanto gli oppositori del regime quanto i rappresentanti del regime stesso stanno rielaborando le proprie strategie d’azione, fissando nuovi confini di partecipazione e ristabilendo i limiti di ciò che è lecito e ciò che è trasgressivo. La complessità delle circostanze attuali richiede dunque uno sguardo più approfondito, che sia in grado di scardinare l’idea secondo cui l’unica forma di partecipazione sia l’insurrezione, la crisi, la sommossa, per aprirsi alle dimensioni micro, quotidiane e quasi banali del mutamento politico. In tal modo è possibile estendere la definizione di mobilitazione alle numerose strategie di lotta o di sopravvivenza individuali messe in atto giorno per giorno dalla popolazione, e, in particolare, da quella sezione della società iraniana che maggiormente rivendica un’aspirazione alla libertà: le donne.

I non-movimenti delle donne

Fin dalla sua fondazione nel 1979, il dominio religioso in Iran si è rivelato particolarmente patriarcale e misogino. Sia dal punto di vista ideologico che strutturale ha reso la politicizzazione del corpo femminile un tratto identitario e legittimante per lo Stato post rivoluzionario. Provvedimenti come il velo obbligatorio e la segregazione sono divenuti uno strumento imprescindibile e non negoziabile del regime, non solo in aderenza ad un obbligo religioso, ma in quanto fattori definitori e caratteristici del nuovo governo. Non sorprende dunque che la resistenza delle donne abbia avuto inizio sin dai primi giorni dopo il 1979, adattandosi alle limitate dimensioni di partecipazione disponibile e ritagliandosi spazi sempre più pervasivi in cui affermare e rivendicare la propria presenza. Per decenni, la resistenza è avvenuta nella pratica della vita quotidiana, in gesti di piccolo calibro, formalmente esclusi dalla definizione di mobilitazione: le studentesse si rifacevano il trucco dopo aver superato i checkpoints all’ingresso delle università; le donne indossavano l’hijab di colori più chiari o ne allentavano il nodo, mostrando una ciocca di capelli alla volta mentre camminavano per le strade di notte; altre correvano e si allenavano nei parchi misti negli orari di minore affluenza; altre ancora si camuffavano da uomini per riuscire ad assistere alle partite di calcio negli stadi, tradizionalmente riservati alla sola componente maschile. 

In risposta alla politicizzazione del proprio corpo, le donne hanno dunque politicizzato la sfera dell’ordinario, attribuendo un significato dirompente ad azioni banali come camminare, correre e vestirsi. Il sociologo iraniano Asef Bayat definisce “non-movimenti” le pratiche conflittuali condivise di un gran numero di persone frammentate, le cui rivendicazioni simili ma scollegate producono importanti cambiamenti sociali. Ed è proprio questo che le azioni quasi impercettibili delle donne hanno prodotto. Nonostante le umiliazioni, le minacce, gli arresti e le vessazioni della polizia morale, hanno proseguito, individualmente, nella propria lotta quotidiana che ha gradualmente costruito i binari dell’azione collettiva. Nel corso degli anni è stata stabilita una nuova normalità e delle nuove regole sul campo, introiettando le imposizioni del regime a tal punto da trasformarle in scelte personali, ricalibrando i confini di potere: laddove il governo ha segregato la presenza femminile in spazi separati nelle scuole, negli autobus e nei parchi, le donne hanno rivendicato con fermezza il proprio diritto ad occupare tali spazi, ad essere presenti e pretenderne la protezione; laddove il regime ha stabilito l’obbligo di indossare il velo, le donne ne hanno fatto una questione di scelta, scendendo in strada non per chiederne l’abolizione, ma per il diritto di poter decidere se indossarlo o meno; laddove le leggi tradizionali iraniane e curde utilizzano il taglio della treccia come una punizione per la donna adultera, le manifestanti hanno reso il taglio dei capelli il simbolo provocatorio della propria adesione alle proteste.

Progressivamente, queste contestazioni all’apparenza inconsistenti e irrisorie hanno alterato i termini della partecipazione femminile e regolato diversamente le relazioni di potere con le istituzioni. Lo Stato si è trovato a dover affrontare ciò che la studiosa iraniana Nazanin Shahrokni definisce una “crisi dei confini di genere”: non potendo più ignorare la questione femminile, è stato costretto ad accogliere la domanda di inclusione delle donne in modi nuovi, ad esempio creando spazi per sole donne anziché escludendole semplicemente da quelli misti. Tali dinamiche si sono sviluppate in un lungo periodo di tempo che ha accompagnato la formazione della Repubblica islamica a partire dalla sua fondazione e hanno dunque intersecato molteplici dimensioni della causalità politica: dallo Stato, all’economia, ai partiti, alle industrie. Eppure, solo indagando la sfera del privato, dell’ordinario, si ottiene un quadro completo del modo in cui le relazioni di potere sono cambiate nel corso del tempo. Senza guardare agli atti di resistenza quotidiana, la conoscenza del mutamento politico interno all’Iran perde una componente significativa che contribuisce a chiarire anche i futuri sviluppi delle recenti proteste. Pur essendo terminate le manifestazioni, pur essendo svanita la loro eccezionalità, non è terminata la resistenza. Citando le parole di una manifestante iraniana “Le manifestazioni sono finite, ma non i gesti simbolici. Fidati che tutti quei manifesti per l’anniversario non resteranno al loro posto ancora a lungo, e anche questa notte canteremo le parole della ribellione dalle finestre, per essere rumorosi ma irriconoscibili”.

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