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La “promessa tradita” della NATO alla Russia. Dal mito alla realtà

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«La NATO è il meccanismo per garantire la presenza degli Stati Uniti in Europa. Se la NATO viene liquidata, non ci sarà tale meccanismo in Europa. Comprendiamo che non solo per l’Unione Sovietica ma anche per altri Paesi europei è importante avere garanzie che se gli Stati Uniti mantengono la loro presenza in Germania nel quadro della NATO, l’attuale giurisdizione militare della NATO non avanzerà di un pollice verso est».

Il presente articolo riproduce parzialmente i contenuti di un contributo dell’autore per l’edizione del 6 maggio di “Scenari”, inserto di geopolitica del quotidiano “Domani”.

Questo passaggio del discorso del segretario di Stato americano James Baker, tenuto durante un incontro con Mikhail Gorbachev nel febbraio 1990, è all’origine del mito della “promessa tradita” della NATO nei confronti della Russia, di cui tanto si è parlato sia nei mesi immediatamente precedenti che in quelli successivi al 24 febbraio. Nel tempo il mito della broken promise è divenuto uno dei pilastri polemici del Cremlino nei confronti delle potenze occidentali. È stato usato, infatti, dal presidente russo come cornice generale all’interno della quale iscrivere le mosse compiute in Georgia nel 2008 e in Crimea nel 2014 nonché la guerra in corso contro l’Ucraina. Non a caso, Vladimir Putin lo aveva citato anche lo scorso 23 dicembre nella tradizionale conferenza stampa di fine anno: «ricordiamo come negli anni Novanta ci avete promesso che [la Nato] non si sarebbe spostata di un pollice a est». 

La narrativa russa sull’allargamento – non “espansione” o, peggio ancora, “annessione”, come spesso si sente dire da alcuni commentatori in Italia e all’estero – presenta almeno quattro evidenti elementi di fragilità, anche qualora non si voglia prestare credito al diniego della diplomazia e del governo americani di aver mai assunto qualche obbligo in tal senso con la controparte sovietica. 

La prima fragilità affligge l’origine stessa del presunto impegno degli Stati Uniti. Questo, infatti, non trova fondamento in un accordo scritto o in un trattato ma solo in una battuta, seppur fatta tra esponenti politici di altissimo livello. Non si dimentichi, peraltro, che essa rappresenta solo un frammento nell’ambito di un ciclo di colloqui che – come ammesso anche da Gorbachev – verteva esclusivamente sul “problema” della riunificazione tedesca. Non figurava tra gli scopi dei vertici Usa-Urss del 1990, infatti, il raggiungimento di alcun accordo sul futuro dell’Alleanza Atlantica, come confermato dall’assenza di riferimenti a esso nel Trattato sullo stato finale della Germania siglato a Mosca nel mese di settembre.

Il secondo elemento di fragilità della narrazione putiniana chiama in causa la natura della NATO come alleanza “egemonica”, ovvero contraddistinta da rapporti di potere profondamente asimmetrici tra la potenza leader – gli Stati Uniti – e gli altri Paesi membri. Sebbene tale rappresentazione sia veritiera e trovi conforto anche in un’ampia letteratura occidentale sulle Relazioni internazionali, esso non implica che una battuta fatta da un rappresentante del governo americano in un contesto dove il futuro della NATO non era oggetto di uno specifico mandato degli alleati possa vincolare le politiche dell’Alleanza Atlantica per gli anni a venire. Dimentica, inoltre, almeno due questioni una di natura contingente, l’altra generale. Da un lato, che il destino della NATO non era il tema in discussione nei quattro incontri al vertice che americani e sovietici organizzarono nel 1990. Dall’altro è che non è la NATO a proporre il suo allargamento a eventuali nuovi Paesi membri, ma il processo è esattamente l’inverso. 

Non si dimentichi – e così passiamo al terzo elemento di fragilità – che la richiesta di membership deve essere approvata all’unanimità. Tale meccanismo sottende una forte coesione tra gli alleati sulle minacce che gravano sulla NATO, i suoi obiettivi e la strategia per conseguirli. Come confermato da Mary Sarotte nel suo Not one inch, dove pure l’autrice comprende alcune delle preoccupazioni di Mosca negli anni Novanta e Duemila, nel 1990 tra gli alleati non vi era affatto accordo sul da farsi. Il primo ministro inglese Margaret Thatcher – ragionando su un sistema internazionale al cui interno era ancora presente l’URSS – pensava che sarebbe stato necessario mantenere in vita il Patto di Varsavia, come foglia di fico per Gorbachev che altrimenti avrebbe visto crollare la sua legittimità interna. La Germania, dal canto suo, oscillava tra la posizione del cancelliere Helmut Kohl, che pur di incassare la riunificazione sosteneva la necessità che la NATO ne pagasse un prezzo a Mosca, e quella del suo ministro degli Esteri Hans-Dietrich Genscher, che vagheggiava la possibilità di fondere la NATO e il Patto di Varsavia in un nuovo progetto di sicurezza collettiva. Gruppi di ex dissidenti dell’Europa centrale, dal canto loro, chiedevano la completa demilitarizzazione dell’area. Alla Casa Bianca, dove nessuno era d’accordo con queste opzioni “minimaliste”, si paventavano due diversi tipi di evoluzioni. La soluzione “scandinava”, ovvero l’allargamento dell’Alleanza senza quello delle strutture e delle forze della NATO nei Paesi appena entrati, o quello di un “secondo livello di garanzie”, ovvero l’istituzione di rapporti ufficiali con i Paesi dell’Europa orientale che avrebbero implicato addestramenti e operazioni congiunte così come un dialogo permanente tra i rispettivi Stati maggiori, ma non la piena membership e soprattutto l’articolo 5 (quest’ultima soluzione fu quella inizialmente adottata dall’Alleanza con la creazione della Partnership for Peace del 1994).

La quarta fragilità, infine, chiama in causa il modus operandi internazionale della Russia. Quand’anche si accettasse che lo spirito dei colloqui del 1990 andava in qualche modo nella direzione del “non allargamento”, sembra incredibile che un freddo Realpolitiker quale il presidente russo si meravigli della loro disapplicazione a decenni di distanza. Assumendo le lenti interpretative del realismo, gli accordi tra Stati – per via della struttura anarchica del sistema internazionale – non possono essere slegati dalle condizioni materiali da cui scaturiscono. Il venir meno di queste ultime, infatti, costituisce la ragione della loro eventuale inosservanza da parte dei contraenti. 

Va da sé che nel giro un paio di anni il mondo del 1990 era svanito improvvisamente. Già a fine 1992, da ambo le parti, i protagonisti dei colloqui che posero fine alla Guerra fredda erano usciti dalla scena politica. Washington, inoltre, aveva risolto i dubbi sul suo futuro impegno in Europa in assenza di un competitor strategico con la pubblicazione del Concetto Strategico Nato del 1991, il primo pubblicato nel post-Guerra fredda. La Russia di Boris Eltsin, nel frattempo, aveva accettato di buon grado il sostegno diplomatico ed economico degli Stati Uniti in cambio di una sostanziale acquiescenza nei confronti del loro primato globale. E, soprattutto, erano scomparse dallo scacchiere internazionale sia il Patto di Varsavia che l’Unione Sovietica.

Piaccia o meno il principio pacta sunt servanda, rebus sic stantibus, non è comunque possibile negarne il peso che esercita sugli accordi formali tra le grandi potenze e, tanto più, su quelli informali. La Russia, d’altro canto, non si è fatta mai scrupolo di applicarlo quando le è tornato utile. Come nel caso della stessa invasione dell’Ucraina, avvenuta in palese violazione del memorandum di Budapest del 1994 con cui Mosca si impegnò a rispettare l’integrità territoriale dell’Ucraina e ad astenersi dall’uso della forza nei suoi confronti in ragione del trasferimento del suo arsenale nucleare in Russia. Ancor meno, ha avuto problemi a disattendere le reiterate promesse di non ricorrere all’opzione militare contro Kiev fatte dai suoi vertici politici prima del 24 febbraio.

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