Uno dei pilastri del primato internazionale degli Stati Uniti è, da oltre settant’anni, la capacità di proiettare le forze armate a livello globale grazie, soprattutto, alla loro superiorità nei mari. Per Washington di fatto non vi sono zone d’ombra nel dominio marittimo, essendo quest’ultimo centrale per preservare lo status di superpotenza e per mantenere un determinato rapporto di forza con gli altri competitor – soprattutto la Cina. Questo primato è ben evidente se si prendono in analisi le campagne irachene del 1991 e del 2003 in cui furono schierati rispettivamente 500.000 e 175.000 uomini insieme a mezzi ed equipaggiamento. Unito al mantenimento della relativa catena logistica ciò mette in luce la netta superiorità degli Stati Uniti rispetto a qualsiasi altro attore internazionale
Articolo originariamente pubblicato su Scenari del 04/11/2022
Con le rapide evoluzioni che sta vivendo il sistema internazionale attraverso crisi di portata mondiale in rapida successione – pandemica, logistica, bellica – il compito della U.S. Navy risulta ancora più fondamentale per mantenere il ruolo di Washington nello scacchiere globale e rispondere alle sfide poste dai suoi competitor.
Già da poco prima della fine della Guerra Fredda era stato avviato un processo di riallineamento della dottrina relativa alla proiezione delle forze marittime in uno scenario strategico non più bipolare e, soprattutto a partire dagli anni duemila, evidente è stato lo sforzo di far fronte alle nuove e crescenti minacce poste tanto dai cinesi quanto da stati “canaglia” come l’Iran e la Corea del Nord. Washington ha quindi teorizzato – semplificando – due possibili scenari di conflitto: uno asimmetrico di “guerriglia” marittima senza scontri diretti e uno simmetrico di scontro diretto tra forze armate.
Per quanto concerne il caso di conflitto asimmetrico, gli eventi in Ucraina si candidano a pieno diritto per divenire uno dei principali casi studio della letteratura strategica dei prossimi anni. La flotta russa del Mar Nero è infatti costretta nei propri porti a causa della costante minaccia missilistica di Kiev che, va ricordato, al momento non ha una propria marina militare. Tale scenario è stato già ampiamente dibattuto in linea teorica nella documentazione strategica e dottrinale statunitense già dalla fine degli anni ’90, trovando una sua sistematizzazione intorno alla metà del primo decennio degli anni duemila con simulazioni che hanno portato a risultati analoghi a quanto sta avvenendo oggi – oltre 15 anni dopo – nel Mar Nero. Questo caso dimostra una certa continuità – e lungimiranza – nel pensiero strategico statunitense che è stata in grado di anticipare l’evoluzione dei moderni campi di battaglia, cosa che ad oggi porta ad un processo evolutivo dell’impiego delle flotte senza alcuna rottura rilevante con il passato.
Nel caso di un conflitto simmetrico va in prima istanza precisato che, al momento, qualora questo avvenisse sarebbe secondo logiche ben diverse dalle battaglie navali del pacifico della Seconda Guerra Mondiale. La conformazione delle forze armate cinesi – identificate come unico avversario plausibile – è infatti pensata per impedire l’accesso e la proiezione delle forze nemiche nella fascia costiera di Pechino per un raggio che in teoria varia tra 3000 e 5000 chilometri. Si è venuta quindi a creare una dinamica di azione e reazione in cui ad ogni nuovo avanzamento delle capacità di Washington di proiettare le proprie forze in teatri ostili corrisponde un tentativo di Pechino di impedire l’accesso al proprio “spazio vitale”.
Questi scenari, che aprono alla possibilità di veder progressivamente interdetto o ridotta la propria influenza sul dominio marittimo, hanno portato ad un ragionamento lungo più di un ventennio che si è progressivamente consolidato e adeguato all’evoluzione del contesto internazionale ma il cui fine ultimo rimane invariato: il mantenimento della superiorità marittima e delle capacità di proiezione delle forze e degli interessi degli Stati Uniti lungo tutto il globo.
Se a livello generale Washington ha mantenuto il nucleo centrale alla propria dottrina va compreso se e come negli ultimi anni, alla luce delle crisi che stanno investendo il sistema internazionale, sono stati apportati cambiamenti significativi e se tra le due ultime amministrazioni – Trump e Biden – sia o meno presente una certa coerenza come già avvenuto in passato con l’avvicendamento tra Repubblicani e Democratici alla Casa Bianca.
Con il President’s Budget FY 2021 approvato da Trump (nel 2020) alla U.S. Navy sono stati destinati lo scorso anno 207 miliardi di dollari (circa 10 volte l’intero budget della Difesa italiana). Una delle voci a cui sono state destinate più risorse economiche è il mantenimento di un’alta readiness delle forze per poter garantire una risposta rapida ed efficace anche attraverso una loro proiezione lontano dalle coste statunitensi. Discorso analogo per tutta la parte dedicata agli investimenti in nuovi sistemi e piattaforme che, se hanno subito un taglio rispetto al passato, continuano comunque la ricerca di una posizione ottimale per mantenere la superiorità marittima statunitense.
Per la U.S. Navy risulta chiaro come l’amministrazione Trump abbia dato la priorità ad un tipo di forze “expeditionary” in grado di operare in teatri ad alta intensità e lontano dai centri logistici principali confermando quanto affermato nella National Defense Strategy del 2018 e rimanendo coerente con quanto postulato negli ultimi decenni.
Facendo un confronto diretto con il President’s Budget FY 2023 approvato da Biden (nel 2022) si possono notare profonde continuità nell’approccio alla proiezione delle forze marittime degli Stati Uniti. Centrale rimane il teatro del Pacifico che, nonostante la guerra in Ucraina e l’avventurismo internazionale russo, di fatto ha dato la priorità al contrastare Pechino nella regione dell’Indo-Pacifico. Come espressamente scritto nel documento il mantenimento del potere navale è fondamentale per scoraggiare ogni possibile avversario. Ridondante è anche il concetto di readiness e di capacità di risposta globale alle minacce e di una logica di investimento focalizzata su questi obiettivi.
È evidente che, a prescindere dalle posizioni delle diverse amministrazioni, cui si aggiungono anche gli 8 anni di presidenza Obama, l’importanza del mantenimento della proiezione globale e della superiorità marittima degli Stati Uniti sia un elemento essenziale nello scacchiere internazionale. Come per l’Inghilterra vittoriana e la stessa Washington durante la Seconda Guerra Mondiale, il controllo dei mari si è dimostrato fondamentale per le nazioni che hanno dominato la scena internazionale. Aggiornando quanto scrisse il padre del Sea Power statunitense, l’Amm. A. T. Mahan, un paese come gli Stati Uniti circondato da due oceani non può rinunciare alla sua “vocazione” marittima senza rinunciare al suo ruolo di potenza internazionale – e forse anche regionale.
Storicamente la Marina statunitense è stata quindi un indicatore della visione strategica che ha caratterizzato le diverse fasi della storia del paese, la sua struttura e postura riflettono quali sono gli obiettivi e preoccupazioni degli Stati Uniti nello scacchiere internazionale. Dalla dottrina del contenimento della guerra fredda alla proiezione di potenza dei primi anni ’90 la Marina è stata lo strumento privilegiato per mostrare la forza e preservare gli interessi del paese.
Ad oggi Washington vuole mantenere tale primato e tali capacità, un pensiero che accomuna, seppur con accezioni diverse, le varie fazioni politiche del Paese. L’America First da un lato e la salvaguardia del modello democratico – e dei mercati di interesse – dall’altro necessitano parimenti degli stessi strumenti e la capacità di proiezione delle proprie forze a livello globale è uno di quelli fondamentali. Fino a quando non sarà profondamente rivisto il ruolo degli Stati Uniti nell’arena internazionale difficilmente potranno esserci processi di rottura con l’attuale visione nel dominio marittimo.