Le Nazioni Unite, impegnate nel promuovere e mantenere la pace e la sicurezza internazionale – ex. articolo 1 della Carta di San Francisco – si fanno garanti di quegli istituti di diritto internazionale umanitario a tutela del rispetto tanto dello jus contra bello quanto dello jus in bello. Risulta, pertanto, di rilevante interesse verificare quanto dette norme siano effettivamente applicate dagli operatori in teatro che, tenuti a rispettare i dettami del DIU, sono dispiegati sotto l’egida di un’Organizzazione Internazionale che ha contribuito alla stesura di tali norme ma che non è parte contraente dei principali accordi in materia.
Il quadro legislativo di riferimento per gli “agenti” delle Nazioni Unite
Definire in maniera chiara il profilo giuridico degli operatori di pace delle Nazioni Unite, i c.d. “Caschi Blu”, è impresa ardua, non soltanto per le incertezze e lo sforzo interpretativo circa i limiti operativi del personale ma anche per l’annosa questione del fondamento giuridico del peacekeeping, non delineato dalla stessa Carta di San Francisco.
Ciascuna operazione di mantenimento della pace, pur soddisfacendo i caratteri principali delle operazioni di mantenimento della pace, i c.d. “tre pilastri del peacekeeping”, viene strategicamente pensata in relazione al contesto operativo in cui la Forza è chiamata ad operare. Tale peculiarità porta con sé l’impossibilità di codificare regole chiare e precise in materia. In ogni caso, come affermato da Claude Emanuelli – professore di diritto presso l’Università di Ottawa – in “Les actions militaires de l’ONU et le droit international humanitaire” le “forces de maintien de la paix (Casques Bleus) sono identificabili come des organes subsidiaires des Nations Unies constitués sur la base des articles 22 ou 29 de la Charte.” Allo stesso modo, gli operatori delle missioni sono definiti, in numerose risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, con il termine di “agenti” in sostituzione di quello più generale di “personale internazionale”, qualifica assimilabile – secondo il parere della Corte Internazionale di Giustizia (CIG) del 1949 – a quella di un funzionario remunerato o meno, a tempo pieno o no, che svolge una funzione per conto dell’Organizzazione in questione. È opportuno, tuttavia, visto il carattere peculiare delle forze di peacekeeping, citare un ulteriore parere della CIG circa la qualifica di “esperti in missione”, ai quali è stata occasionalmente affidata una missione dall’Organizzazione o da un organo a questa facente riferimento. È evidente che in questa particolare categoria rientrino le forze di mantenimento della pace alle quali, per definizione, viene affidata una missione che non presenta carattere di continuità e che deve svolgersi all’interno di limiti temporali precisi definiti dal mandato.
Questa prima e molto generale distinzione non è sufficiente a sgombrare il campo da dubbi e incertezza legate alla complessità del tema trattato. Una maggiore chiarezza concettuale impone di fare riferimento al doppio vincolo giuridico delle forze impegnate in operazioni di peacekeeping. In primo luogo, nei limiti dell’esercizio della sua missione, l’agente in missione agisce esclusivamente per conto delle Nazioni Unite, eliminando automaticamente il suo ruolo di funzionario dello Stato di invio. Accordi ad hoc stipulati tra Stato nazionale e Nazioni Unite in sede negoziale, tuttavia, sottopongono il contingente nazionale al comando dell’Organizzazione non sottraendolo del tutto alla competenza dello Stato di appartenenza. Nel momento stesso in cui essi agiscono come agenti delle Nazioni Unite, i caschi blu mantengono il loro status di organi dello Stato d’invio non esenti dal vincolo che li lega ai rispettivi Stati nazionali. I Caschi Blu sono, per così dire, degli “agenti doppi”: in essi coesiste un doppio legame giuridico che si manifesta in un doppio status organico. La forza di mantenimento della pace, pertanto, non dipenderà mai, in maniera esclusiva, da un full command, perché i suoi operatori sono sottoposti ad un doppio comando: uno a livello nazionale ed uno a livello internazionale. Occorre precisare, però, che lo stato d’invio, per il fatto stesso di accettare di contribuire alla costituzione della forza attraverso la messa a disposizione di un suo contingente nazionale, accetta che sia il comando strategico sia il comando operativo rientrino nelle competenze delle Nazioni Unite per mezzo del Consiglio di Sicurezza, del Segretario Generale e del comandante di ogni forza che il Segretario Generale si riserva di nominare. I contingenti nazionali sono posti sotto l’autorità di quest’ultimo per tutto ciò che riguarda il comando organico, dalla gestione e amministrazione del personale al delicato ambito disciplinare.
Quest’ultimo elemento è di rilevante interesse nel momento in cui la linea di demarcazione di divisione delle varie competenze sul terreno operativo non è così netta e, molto spesso, gli stati sono poco inclini ad accettare supinamente un comando internazionale. Una delle conseguenze più importanti di questa “zona grigia” nella ripartizione delle competenze riguarda proprio l’individuazione di eventuali illeciti commessi dai membri delle forze di mantenimento della pace nel corso della missione.
La violazione degli obblighi di diritto internazionale in teatro operativo
Secondo il diritto internazionale, un fatto internazionalmente illecito si compone di due elementi: uno soggettivo, l’imputazione, e uno oggettivo, l’infrazione. L’illecito è quindi definibile come un comportamento, attivo o omissivo, attribuibile ad un soggetto di diritto internazionale che commetta una violazione di un obbligo internazionale che grava sul soggetto in questione.
Come detto, i membri delle forze impegnate in operazioni di mantenimento della pace, godono di un peculiare doppio status giuridico che comporterebbe, almeno in linea teorica, ad una doppia attribuzione di responsabilità essendo, questi, agenti delle Nazioni Unite e dello stato di invio. La Commissione del diritto internazionale nel suo Progetto di articoli sulla responsabilità degli Stati, tuttavia, ha stabilito come non vi sia necessariamente una doppia imputazione di responsabilità. La prassi, inoltre, dimostra che nel momento in cui gli stati mettono a disposizione le loro forze armate per operazioni di peacekeeping accettano che il contingente in questione sia sottoposto all’autorità dell’Organizzazione; ne consegue che i comportamenti dei membri della forza sarebbero imputabili esclusivamente alle Nazioni Unite.
Situazione diversa nel caso in cui l’Organizzazione si limiti ad autorizzare un intervento militare da parte degli stati: in questo caso le forze armate sono poste sotto la sola autorità dello stato di invio con comportamenti che sono imputabili a quest’ultimo. Il principio formulato nell’art. 6 del Progetto della Commissione indica che se l’organo di un soggetto internazionale è messo a disposizione di un altro nel senso che tale organo agisce sotto l’autorità e il controllo esclusivo di quest’ultimo, al soggetto fornitore non sarà imputabile alcuna responsabilità internazionale per fatti illeciti.
La protezione del personale dispiegato nelle operazioni di mantenimento della pace
Se, da una parte, la forza impiegata in operazioni di peacekeeping ha precisi obblighi circa il rispetto degli istituti giuridici del diritto internazionale e del diritto internazionale umanitario, è altrettanto vero che esistono norme atte ad assicurare la protezione del personale dispiegato. In particolare, la Convenzione sulla sicurezza del personale delle Nazioni Unite e del personale associato, conclusa a New York il 9 dicembre 1994 ed entrata in vigore il 9 dicembre 2007, è emblematica di una crescente preoccupazione, in capo al Palazzo di Vetro circa la necessità di garantire l’incolumità degli operatori di pace. Le disastrose operazioni di pace che hanno caratterizzato gli anni ’90 e la necessità politica di maggiore coesione a livello della Comunità Internazionale in ottica di una sempre maggiore necessità di un contributo in termini di truppe, ha portato le Nazioni Unite all’adozione di un documento di tal genere.
La Convenzione, nell’evidenziare la caratterizzazione del personale delle Nazioni Unite e del personale associato, definisce chiaramente le caratteristiche delle operazioni a guida Nazioni Unite, “stabilite dall’organo competente dell’Organizzazione delle Nazioni Unite conformemente allo Statuto delle Nazioni Unite e condotta sotto l’autorità ed il controllo delle Nazioni Unite.” Da evidenziare come la Convenzione non si applichi alle operazioni delle Nazioni Unite autorizzate dal Consiglio di Sicurezza come azioni coercitive, ex. capitolo VII, nell’ambito delle quali il personale viene impiegato come combattente contro le forze armate organizzate, ed alle quali si applica il diritto dei conflitti armati internazionali.
Gli articoli 7, 8 e 9 della suddetta Convenzione, in particolare, si ergono a tutela degli operatori impegnati in missioni di mantenimento della pace, i quali, dal canto loro, hanno l’obbligo di recare un segno distintivo che permetta di identificarli come tali. La Convenzione, infatti, è chiara nell’affermare come “[…] navi ed aeromobili impiegati nell’ambito delle operazioni delle Nazioni Unite recheranno un’adeguata identificazione, a meno che il Segretario Generale delle Nazioni Unite non decida altrimenti […]”. È fatto, altresì, obbligo per il personale delle Nazioni Unite di […] rispettare leggi e regolamenti stato ospite e si astiene dal compiere atti o svolgere attività incompatibili con l’imparzialità e l’internazionalità delle loro funzioni […]. Infine, l’articolo 10 delimita la competenza entro la quale ogni stato parte può adottare le misure necessarie e possa essere competente per quelle infrazioni nel caso in cui “l’infrazione venga commessa sul territorio di tale stato, ovvero a bordo di una nave o di un aeromobile immatricolati in tale stato o nel caso in cui il presunto autore dell’infrazione abbia la nazionalità di tale stato”.
L’impalcatura costituita dalle norme di diritto internazionale e l’impegno profuso per garantire incolumità e sicurezza agli operatori in teatro si configurano, quindi, come un tentativo – seppur non ancora sufficiente – di assicurare regole e principi in ottica di una sempre maggiore efficacia dei dispiegamenti per la pace. Tuttavia, è del tutto evidente come esistano ancora oggi troppe zone grigie del diritto che rischiano seriamente di minare l’autonomia operativa del personale dispiegato. In quest’ottica, una maggiore cooperazione a livello internazionale non è soltanto auspicabile ma assolutamente necessaria.
Stefano Lioy,
Geopolitica.info