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Prigioniero tra “multivettorialità” e conflitto etnico: Il caso del Kirghizistan

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La Repubblica Socialista Sovietica Kirghisa dichiarò la sua indipendenzanell’agosto del 1991, formalizzata poi il 5 maggio del 1993, con l’entrata in vigore della Carta costituzionale.La Repubblica kirghiza è uno dei cinque stati che compongono la macroregione dell’Asia Centrale.  A quasi trent’anni dall’indipendenza il Paese cerca ancora una propria identità. La piccola repubblica ex-sovietica è ormai intrappolata in una fitta rete di relazioni  politiche, economiche e militari tra Cina, Russia e Stati Uniti, tanto da aver acquisito, suo mal grado, il ruolo di “termometro centroasiatico”. Pur non essendo un mero oggetto nelle mani di altri attori internazionali, il ruolo geopolitico e geostrategico del Kirghizistan, rappresenta un fondamentale indicatore nella comprensione delle dinamiche del Nuovo Grande Gioco in Asia Centrale.

La polveriera etnica.

Con un passato fortemente influenzato dal nomadismo e dal tribalismo, i confini kirghizi furono tracciati quando l’Unione Sovietica diede vita ad una serie di repubbliche, non concepite come veri e propri Stati in senso etnico-nazionale, ma solo, e parzialmente, in senso amministrativo-burocratico.La migrazione campagna-città che accompagnò la crisi dell’economia sovietica nella seconda metà degli anni Ottanta portò ad un progressivo spopolamento delle zone rurali, generando di contro, un sovraffollamento delle aree urbane, che si tradusse inun serio problema abitativo. È opportuno infatti ricordare che il 94% del territorio kirghizo è occupato da montagne, rendendo difficile l’insediamento in nuove aree della popolazione, che rimane, ad oggi, concentrata nelle due principali città: la capitale Bishkek e il distretto di Osh. Quella che oramai è una vera e propria frattura, sia etnica, tra kirghizi e uzbeki, sia territoriale, tra nord e sud del Paese, nacque come lotta per la terra. Il primo violento scontro tra kirghizi e uzbeki ruota proprio intorno alla questione abitativa. Un cambio di appalto, per la costruzione su alcuni appezzamenti di terreno alla periferia di Osh, nel maggio 1990, tra due ditte, la prima uzbeka e la seconda kirghiza, fece da casus belli per quello che verrà ricordato come giugno di sangue. Fondamentale fu, per la risoluzione del conflitto, l’intervento di Mosca. Il Cremlino giocò la carta dell’identità religiosa (comune appartenenza al credo islamico di kirghizi ed uzbeki), incaricando il muftì di Tashkent di mediare tra le parti in lotta, mossa che si rivelò risolutiva. La questione etnica ha influenzato le dinamiche della piccola repubblica centroasiatica nel corso di tutta la sua storia. Vent’anni dopo la strage di Osh, il Kirghizistan ritornò ad essere teatro di scontri violenti tra le due etnie.La vera e propria caccia all’uzbeko del giugno 2010, si dimostra un’onda di ritorno di un’ascia di guerra mai sepolta veramente. Nello stesso anno l’OSCE inviò una forza internazionale ausiliaria di sicurezza, con il compito di assistere le forze dell’ordine nel ripristino della legalità nelle regioni meridionali sconvolte dagli scontri di giugno. Sebbene nell’ultimo decennio il conflitto sia rimasto quanto meno latente, i rapporti delle organizzazioni internazionali presenti sul territorio, in particolare quelli della Human Right Watch, denunciano come nel sud del paese continuino ad essere commessi gravi abusi da parte della polizia e delle forze di sicurezza kirghize contro la minoranza uzbeka, ammonendo che il perpetuarsi di queste pratiche rischia di far esplodere, di nuovo,il conflitto etnico.

Una democratizzazione difficile.

La storia costituzionale post-indipendenza kirghiza è altalenante, oscilla tra tentativi di democratizzazione e accentramento del potere, tra proposte di liberalizzazione del mercato e svolte stataliste, rendendo instabile il Paese, sia da un punto di vista economico sia politico. Difficile crederlo oggi, ma nell’immediato post-indipendenza la repubblica kirghizaveniva definita“isola di democrazia” in Asia Centrale. Il Kirghizistan uscì rapidamente dalla zona del rublo, introducendo una propria valuta, (il som), fondatore della CSI (Comunità degli Stati Indipendenti) nel 1991, fu il primo Paese centroasiatico ad essere ammesso all’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC-WTO) nel 1996. La piccola repubblica si presentava al resto del mondo come una società civile in fermento, ben integrata nel sistema della organizzazioni internazionali, caratterizzata da un sistema politico simil-pluralista.

Il primo vero tentativo di democratizzazione del Paese avvenne a circa vent’anni dall’indipendenza,dopo due disastrose amministrazioni, Akaevsalito al potere nel 1990 e deposto dalla rivoluzione dei tulipani nel 2005, Bakiev,eroe della rivoluzione, deposto nel 2010. Dal golpe bianco ai danni di Bakiev, emerse la figura di Roza Otunbajeva, promettendo una svolta politica basata sul rispetto della legge e dei diritti. Svolta che si concretizzò il 27 giugno 2010, quando,con referendum confermativo, il Kirghizistan divenne repubblica parlamentare. Il problema principale fu il palesarsi dei limiti di un sistema parlamentare in un territorio eccessivamente frammentato politicamente: se da una parte promette maggiore rappresentatività delle minoranze, dall’altra rischia di degenerare in un ostacolo alla governabilità del Paese impedendone una concreta stabilizzazione

L’amministrazione Atambayev (2010-2017), si dimostra esempio concreto di questo pericolo. Alle elezioni del 2010,il 60% dei voti espressi fu destinato a partiti che non superarono la soglia di sbarramento del 5%, ma soprattutto, la formazione che raccolse la maggioranza relativa dei voti fu quella del partito Ata-Zhurt (Madrepatria), compagine composta da sostenitori dell’ex presidente Bakiev. Le elezioni di Almazbek Atambaev, sebbene viziate da irregolarità, rappresentarono un passo in avanti verso la democratizzazione, anche se il clima politico rimase comunque instabile, soprattutto per i continui scandali legati alla corruzione.

La successiva presidenza Jeenbekov, eletto nel 2017 ed ancora in carica, forse schiacciata dalla pesante eredità politica-amministrativa, non è riuscita a completare l’iter di democratizzazione.Il Kirghizistan odierno,oltre alla frattura etnica intestina, è afflitto da una dilagante corruzione e da seri problemi di criminalità organizzata, che attua un vero e proprio lavoro di lobbying, assolvendo quasi al ruolo di contropotere allo stato centrale. Con un’economia in pesante recessione, resta completamente dipendentedalle organizzazioni internazionali e regionali che operano nel territorio.

Le sabbie mobili della multivettorialità.

Al centro dell’Heartland, il Kirghizistan costituisce un’importante cerniera tra la Cina e l’Asia Centrale, oltre ad essere al centro dei naturali interessi russi nella regione. Anche gli Stati Uniti hanno ricoperto un ruolo fondamentale nella repubblica ex-sovietica, ma la parentesi statunitense, iniziata nel 2001, volge a conclusione nel 2014. Gli interessi americani ruotavano intorno alle sorti della base militare di Manas, e dal ruolo svolto da quest’ultima nella strategia anti-terroristica.

Come detto, Russia e Cina puntano ad attrarre l’ex repubblica sovietica nella loro rispettiva sfera d’influenza in modo da rafforzare la loro sicurezza e proteggere i loro interessi strategici nell’area. Mosca può vantare importanti legami storico-culturali ed energetici. La forte ingerenza russa nella repubblica dipendeda stretti legami in campo energetico. Protagonista indiscusso è Gazprom, che dal 2015 ha avviato un progetto di investimenti nel quale spicca l’acquisto di KyrgyzgazProm e l’esplorazione dei blocchi Kugart (2,1 miliardi di metri cubi di gas) e Mailu-Suu IV (0,5 milioni di tonnellate di petrolio). Una partnership strategica che consente da un lato a Gazprom di rilanciare la Russia come principale fornitore di gas mondiale e permette dall’altro al Kirghizistan un afflussod’investimenti e una modernizzazione infrastrutturale del Paese. Anche l’azione del colosso russo del petrolio Rosneft, incide nell’economia kirghiza grazie all’acquisto della Bishkek Oil Company. Controllo delle forniture del gas, presenza militare sul territorio e progetti di mercato economico comune sono destinate a legare ulteriormente il Kirghizistan alla Russia, grazie anche all’ingente somma di denaro, circa 500 milioni di dollari, che nel 2014 furono donati da Mosca a Bishkek per accelerarne l’adesione all’Unione Doganale Euroasiatica e all’Unione Economica Euroasiatica

La Cina si è imposta comunque come un attore molto influente nelle relazioni internazionali kirghise. Di recente, Bishkek ha chiuso con Pechino alcune dispute di confine e ha rafforzato i legami sul piano commerciale. Tra i tanti appalti che il governo kirghiso sta cedendo alle imprese cinesi per la costruzione di infrastrutture, vi è quello dell’autostrada che collegherebbe Pechino con l’Europa occidentale. Inquadrabile nella classica strategia cinese win-win, nella nuova autostrada che sta costruendo in Kirghizistan, Pechino ha investito circa 855 milioni di dollari tramite la Export-Import Bank of China, d’altro canto, secondo l’accordo stipulato  con il governo kirghiso, il 30% degli operai saranno cinesi e il 70% kirghisi.

La situazione kirghiza pone l’accento sui dubbi relativi alla strategia multivettoriale che, in questo caso, contribuisce alla formazione di un clima di incertezza generale, andando ad aggravare un sistema politico interno già frammentato e fragile. La Repubblica Kirghiza risulta essere prigioniera tra strategie di politica estera che la rendono “amica di tutti e di nessuno” ed una frattura etnica mai sanata veramente.

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