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NotiziePreservare la leadership americana: il rilancio della diplomazia

Preservare la leadership americana: il rilancio della diplomazia

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Lo scorso 4 febbraio, durante la visita al Dipartimento di Stato, Joe Biden ha tenuto il suo primo discorso di politica estera da presidente nel quale ha delineato i tratti principali dell’approccio che adotterà la nuova amministrazione: alleanze, diplomazia e democrazia, questi i concetti chiave per poter preservare e ripristinare la leadership americana. Nonostante le sue osservazioni abbiano evidenziato un netto cambiamento nei toni rispetto a Trump, il neo-presidente non sembra però voler abbandonare completamente la visione del suo predecessore, soprattutto rispetto ad un dossier cruciale come quello cinese.

Alleanze, diplomazia e democrazia come principi cardine della politica estera

“L’America è tornata. La diplomazia è tornata al centro della nostra politica estera”, questo il messaggio che ha mandato Biden al mondo, sottolineando – come ha già fatto più volte – l’importanza del ripristino delle alleanze e del multilateralismo, anche con i propri competitor quando necessario. A riprova della volontà di un rinnovato multilateralismo, nelle ultime settimane il 78enne democratico ha avuto contatti con alcuni degli alleati più vicini a Washington – tra cui Australia, Canada, Corea del Sud, Francia, Germania, Giappone, Messico, NATO e Regno Unito (da notare l’assenza dell’Italia) – con il fine di ricostruire la forza delle alleanze democratiche che, a detta di Biden, negli ultimi anni si sono atrofizzate e hanno perso rilevanza. Il rientro nell’Organizzazione Mondiale della Sanità e nell’Accordo di Parigi sul clima ne sono un ulteriore segnale importante. Ad ogni modo, non è un caso che la prima visita del neo-presidente sia avvenuta proprio al Dipartimento di Stato, il significato è chiaro: rimettere al centro dell’azione dell’amministrazione la diplomazia, gravemente indebolita da Trump che aveva definito tale Dipartimento come “the Deep State Department”, e che necessita – ora più che mai – di essere ancorata a quelli che sono stati definiti i “valori democratici più cari all’America”. 

“Ci impegneremo nuovamente con il mondo, non per affrontare le sfide di ieri, ma quelle dell’oggi e del domani”. Emerge, dunque, come gli alleati siano fondamentali per rafforzare la sicurezza americana e per affrontare minacce globali come il cambiamento climatico, le pandemie e la proliferazione nucleare. Secondo Biden gli Stati Uniti non investono nella diplomazia solo perché “è la cosa giusta da fare” ma anche perché “è nel nostro nudo interesse”. In questo senso, appare abbastanza chiaro come, ancora una volta, l’America First sia al centro delle politiche di Washington. Va ricordato, infatti, che nonostante l’approccio strategico dell’amministrazione Obama e quello dell’amministrazione Trump possano sembrare in netta contrapposizione, l’America First è un elemento di continuità tra le due presidenze: rilanciare la superiorità americana attraverso un riequilibrio tra impegni e risorse. È verosimile che anche Biden seguirà i suoi predecessori in questa direzione.

La democrazia contro l’avanzare degli autoritarismi

Se nell’inaugural address il tema della democrazia è apparso come una questione prettamente interna, in questo caso è stato trattato in chiave internazionale. Ciò sembrerebbe un elemento di particolare cambiamento rispetto alle amministrazioni Obama e Trump che non avevano considerato la promozione della democrazia come perno strategico del loro approccio. Le parole di Biden, invece, sembrerebbero riportare al centro della propria azione – come fatto da Clinton prima e da Bush Jr. poi – il tema della promozione della democrazia. A tal proposito, il neo-presidente ha ricordato quanto la democrazia sia fondamentale per rinvigorire la leadership americana nel mondo, una leadership che però deve affrontare “un nuovo momento di autoritarismo che avanza” tra cui l’ascesa della Cina e la determinazione della Russia “di danneggiare e distruggere la nostra democrazia”.  

Biden non ha dubbi: la Cina è lo sfidante numero. Ciò conferma non solo quanto sostenuto dal Segretario di Stato Antony Blinken durante la sua audizione al Senato – ossia competere con Pechino da una posizione di forza – ma anche l’approccio più duro adottato da Trump: l’amministrazione Biden si impegnerà ad affrontare direttamente le sfide poste alla prosperità e alla sicurezza americana ma anche ai propri valori democratici, contrastando “la sua azione aggressiva e coercitiva” e respingendo il suo attacco “ai diritti umani, alla proprietà intellettuale e alla governance globale”. Tuttavia, si è detto pronto a lavorare con Pechino “quando è nell’interesse dell’America farlo”: sul dossier cinese questa è la distanza più significativa con il suo predecessore che ha sempre agito al di fuori di una cornice multilaterale e che il nuovo presidente, come già detto, si impegnerà a rafforzarla, non solo cooperando con la Cina ma anche coinvolgendo i propri alleati regionali per contrastarla.

Relativamente alla Russia invece, Biden non sembra voler seguire le orme di Obama attraverso un russian reset, diventando il secondo presidente americano nel post-Guerra Fredda – dopo Trump – a non attuare una politica di riavvicinamento con Mosca. In questo senso, il 78enne democratico ha affermato di aver chiarito “in un modo molto diverso dal mio predecessore” che i giorni in cui gli Stati Uniti si arrendono di fronte all’assertività russa “sono finiti”, facendo riferimento, tra le altre cose, alle interferenze nelle elezioni e agli attacchi informatici – si pensi al caso SolarWinds per il quale è stata aperta un’indagine. Anche nel caso russo però l’elemento del multilateralismo e della diplomazia appare cruciale, sia per contrastare sia per trattare. Biden, infatti, cita il recente risultato dell’estensione per altri cinque anni del New START (che sarebbe scaduto lo scorso 5 febbraio), l’unico trattato in materia di controllo degli armamenti ancora in vigore. Inoltre, il presidente ha espresso le proprie preoccupazioni, e della comunità internazionale, riguardo all’incarcerazione di Navalny – che “deve essere rilasciato immediatamente e senza condizioni” – e ai tentativi russi di “sopprimere la libertà di espressione e di riunione pacifica”.

Sul colpo di stato in Myanmar, il presidente ha detto di essere in contatto con i propri alleati e partner per sostenere il ripristino della democrazia e dello stato di diritto, non escludendo l’imposizione di sanzioni nei confronti dei responsabili. Ha anche chiesto ai militari di rinunciare al potere ottenuto con la forza e di rilasciare gli attivisti e i funzionari detenuti negli ultimi giorni.  

L’influenza della politica interna sulla politica estera

Una delle novità più significative è stata l’attenzione del neo-presidente nei confronti della classe media. L’obiettivo di Biden è quello di rendere il benessere di tale classe uno dei principi fondanti della politica estera americana, un obiettivo che trova le sue radici nella retorica populista con il quale Trump è arrivato alla Casa Bianca. Il fatto che, secondo il leader democratico, non ci sia più una linea chiara tra la politica estera e quella interna – e che dunque, riprendendo le parole del National Security Advisor Jake Sullivan, l’una influenzi l’altra – comporta necessariamente che ogni scelta a livello internazionale andrà ponderata anche sulla base delle “famiglie americane che lavorano”. Fondamentale, in questo senso, saranno gli investimenti mirati a creare nuovi posti di lavoro che potranno permettere all’America di mantenere un vantaggio competitivo con il resto del mondo. E questo è un chiaro riferimento all’approccio muscolare portato avanti da Pechino, sia in termini commerciali che tecnologici. “Se investiamo in noi stessi e nella nostra gente, se lottiamo per assicurare che le imprese americane siano nella condizione per competere e vincere sulla scena globale, se i nostri lavoratori sono protetti e lo è anche la loro proprietà intellettuale, allora non c’è nessun paese sulla Terra – neanche la Cina – che possa eguagliarci”. 

Germania e Yemen: un progressivo cambio di rotta? 

Durante il suo discorso Biden ha anche annunciato una revisione completa dell’impegno militare americano nel mondo affinché le proprie forze siano adeguatamente allineate al tipo di approccio di politica estera e alle priorità di sicurezza nazionale. A tal proposito, ha dichiarato lo stop al ritiro di circa 12.000 uomini dalla Germania (cosa che non fa piacere all’Italia che avrebbe accolto una parte dei soldati), ritiro che era stata deciso dal suo predecessore dopo numerose critiche nei confronti di Berlino all’interno del contesto atlantico, e la fine del sostegno militare ed economico all’Arabia Saudita nella guerra in Yemen, una mossa che rischia di mettere in discussione i rapporti tra Washington e Riyad a maggior ragione dopo che la nuova Direttrice dell’Intelligence Nazionale, Avril Haines, ha dichiarato di voler declassificare il rapporto sull’uccisione di Jamal Kashoggi – omicidio in cui sarebbe coinvolto Mohammad bin Salman. Tuttavia, ha fatto sapere che non mancherà l’appoggio americano all’Arabia Saudita nel difendere la propria sovranità e integrità territoriale dai continui attacchi missilistici e tramite UAV da parte di alcune milizie sostenute dall’Iran, tra cui gli Houthi.

Su dossier come il nucleare iraniano, i rapporti con la Corea del Nord e la situazione in Afghanistan, questioni altrettanto importanti per Washington, Biden non si è espresso. Ciononostante, al riguardo si sono pronunciati i principali membri del team di sicurezza nazionale durante le loro audizioni ma anche nelle uscite più recenti. È probabile, comunque, che una visione più completa dell’impegno americano nel mondo arriverà soltanto al termine della Global Posture Review, annunciata dal presidente, che vedrà la stretta collaborazione tra il Pentagono e il Dipartimento di Stato.

Non è chiaro quanto tempo servirà agli Stati Uniti per portare a termine questo processo di rinnovamento morale, di valori democratici e di leadership invocato da Biden. Nonostante molti di questi valori siano stati sottoposti a forti pressioni negli ultimi anni e a maggior ragione dopo gli eventi di Capitol Hill, Washington si pone – ancora una volta – come baluardo della democrazia: “il popolo americano emergerà da questo momento più forte, più determinato e meglio equipaggiato per unire il mondo nella lotta per difendere la democrazia, perché noi stessi abbiamo combattuto per essa”. 

Quel che è certo è che Biden ha voluto rassicurare la comunità internazionale che l’era dell’imprevedibilità americana è finita, delineando una visione piuttosto chiara di ciò che faranno gli Stati Uniti per poter guidare di nuovo il mondo in maniera credibile. Illuminante, in questo senso, è il suo editoriale su Foreign Affairs dal titolo “Why America Must Lead Again” nel quale – allora come oggi – rivendicava il fatto che gli Stati Uniti siano gli unici in grado di mobilitare il mondo libero per affrontare “le sfide di oggi e del domani”. L’America è pronta a mettersi il mantello per guidare nuovamente, e in questo la diplomazia giocherà un ruolo cruciale, “non solo con l’esempio del nostro potere, ma con il potere del nostro esempio”.  

Alessandro Savini,
Geopolitica.info

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