La Cina rappresenta, per il Giappone, uno scomodo vicino con il quale è aperta una disputa territoriale e la cui crescente militarizzazione preoccupa fortemente. A prima vista il Giappone rappresenta un Paese allineato con gli Stati Uniti per quanto riguarda la contrarietà a modifiche unilaterali dello status quo taiwanese ma nella realtà dei fatti Tokyo, pur non supportando militarmente Taiwan come Washington, sta supportando il governo di Taipei in modo molto meno evidente ma efficace perché sta creando tra i due Paesi un forte senso reciproco di stima e fiducia.
Due Paesi uniti
“Il problema di Taiwan è un problema del Giappone”. Così una frase di Abe Shinzo, ex Premier giapponese sintetizza quella che è la relazione tra due Paesi che devono fare i conti, seppur in termini molto diversi, con la crescente forza militare cinese.
Un nodo costante delle relazioni tra i due Paesi è infatti rappresentato dalla contesa territoriale delle Isole Senkaku/Diaoyu, uno sparuto gruppuscolo di scogli a sud-ovest di Okinawa strategico unicamente per le risorse minerarie che esistono sotto la crosta oceanica ma si può dire che la politica estera giapponese sotto Abe (dal 2012 al 2020) sia stata fondamentalmente una risposta all’espansionismo cinese. Da un lato Pechino lanciava la nuova Via della Seta, dall’altro Tokyo partecipava attivamente ad iniziative multilaterali nell’Indo-Pacifico come il Quadrilateral Secutiry Dialogue, l’Indo-Pacific Security Diamond e la Free and Open Indo-Pacific Strategy.
E pur avendo sempre mantenuto i rapporti aperti con la Cina di Xi, Abe ha rivolto la sua attenzione a Taiwan sottolineando come il suo sistema democratico fosse un pilastro per la stabilità regionale, anche incontrando la Presidente Tsai Ing-wen dopo aver dismesso i panni di Primo Ministro.
Chip, cernie, ananas e inviti all’inclusione: le sfaccettature del supporto giapponese
Nonostante i tentativi di Abe di togliere le limitazioni costituzionali alla capacità militare giapponese (battaglia che Kishida ha promesso di continuare dopo la morte di Abe), è difficile dire se il Giappone interverrebbe militarmente in caso di attacco a Taiwan. Jeffrey Kingston, professore di studi asiatici all’Università di Tokyo, sostiene che è improbabile.
Quello che però è certo invece è come su iniziative di scala più piccola ma anche più simbolica il Giappone si faccia avanti per aiutare Taiwan.
I casi delle cosiddette “ananas della libertà” e dei “pesci della libertà” sono l’esempio perfetto di tutto ciò. In due occasioni le autorità doganali cinesi hanno bloccato in toto rispettivamente le esportazioni di ananas e di cernie da allevamento di Taiwan, che normalmente verrebbero quasi interamente destinate al mercato cinese. E in due occasioni il mercato nipponico si è “aperto” a questi prodotti ma si è appunto trattato di una mossa simbolica. Al di là dell’exploit degli ananas taiwanesi nel mercato giapponese, a fine 2021 l’export del settore era comunque rimasto dimezzato rispetto al pre-sanzioni.
Un mercato invece ben più rilevante per Tokyo è quello dei semiconduttori, settore in cui le aziende taiwanesi e in particolare il colosso TSMC sono leader mondiali, occupando metà della produzione mondiale di microchip e il 90% di quella dei microchip ad alte prestazioni. E proprio TSMC ha in costruzione nella prefettura di Kumamoto un megastabilimento, per il quale è prevista l’espansione e per il quale il governo nipponico ha stanziato 3.6 miliardi di dollari.
Infine va considerato come Tokyo abbia sempre supportato l’inclusione di Taipei nelle organizzazioni internazionali da cui è tenuta fuori per via dell’instancabile ostruzionismo di Pechino. In particolare, il Giappone ha supportato la partecipazione della Repubblica di Cina (il nome ufficiale di Taiwan) all’assemblea dell’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2021 e nel 2022 e dell’Organizzazione Internazionale dell’Aviazione Civile.
A ciò si aggiungono le visite di politici giapponesi e taiwanesi nei rispettivi Paesi, come la delegazione nipponica che ha visitato Taiwan nei convulsi giorni dell’arrivo di Nancy Pelosi o la presenza ai funerali di stato di Abe di una delegazione ufficiale taiwanese.
Un piede dentro e uno fuori
Anche dopo la morte di Abe, la linea in fatto di politica estera del Giappone resta la stessa: restare vicini a Washington e muoversi indipendentemente nella regione per fare quadrato contro la Cina, percepita come un pericolo per il Giappone la cui economia è stata da tempo superata da quella cinese (e che, per giunta, è in stagnazione da decenni) e che non può usare il proprio esercito liberamente. Ciò significa quindi avvicinarsi a Taiwan e offrire supporto ma occorre tenere conto di un fattore importante: nonostante tra la popolazione taiwanese e quella giapponese ci sia affetto, non è certo che l’elettorato nipponico decida di supportare forme di intervento militare diretto a supporto di Taiwan qualora la Cina sferrasse un fatidico attacco militare.
Del resto, l’emendamento all’articolo 9 della Costituzione giapponese è ancora da compiersi e nemmeno Abe, che pure ne aveva fatto un cavallo di battaglia, non è riuscito a compiere la riforma, riforma su cui i giapponesi sono decisamente incerti.
Da qui si intuisce il perché delle azioni di supporto a Taiwan da parte del governo giapponese: un supporto che si sente mediaticamente ma non forte a tal punto da rischiare una retaliation cinese che però allinea con successo i due Paesi.