Il blocco del porto principale del Sudan, che si protrae ormai da oltre tre settimane, sta causando carenza di beni primari tra cui medicine, grano e carburanti. La situazione, che ha destato inquietudine anche a livello internazionale, aggrava la già precaria condizione economica del Paese. Alla base del blocco di Port Sudan vi sono le rimostranze politiche ed economiche delle sei tribù Beja che popolano l’area nord-orientale del Paese. Il Consiglio Beja riporta il proprio malcontento riguardo la ‘Eastern Sudan Track’, la sezione degli accordi di pace che riguarda la loro regione e che tuttavia concentra il potere nelle mani delle élite di Khartoum invece che degli attori locali. Inserito in un contesto già delicato, il blocco di Port Sudan rappresenta un rischio per la sicurezza nazionale e il sostentamento della popolazione, e rende evidenti le difficoltà e le controversie del processo di pace.
La situazione nel Paese
A due anni dalla rimozione del Presidente-dittatore Omar al-Bashir, il Sudan sta affrontando la propria reintegrazione nel sistema internazionale e la transizione democratica. Quest’ultimo processo si svolge nell’ambito degli accordi di Juba, stipulati nell’ottobre 2020 da un’alleanza storica tra governo di transizione e diverse fazioni ribelli, finora costellato da diversi ostacoli.
Lo scorso mese, il 21 settembre, alcuni ufficiali militari e personalità civili legate al regime di al-Bashir hanno tentato un colpo di stato, rapidamente sventato. Questo evento rappresenta l’esacerbazione della spaccatura tra l’ala militare e quella civile del governo di transizione, il cui Primo Ministro è il civile Abdalla Hamdok. In gioco c’è il potere di orientare il processo di pace, e l’ipotesi che questo venga guidato dall’esercito non piace né agli osservatori internazionali né alle Nazioni Unite, né ad ampie fasce della popolazione, insorte in protesta nelle maggiori città inclusa la capitale Khartoum in supporto delle autorità civili. Gli Stati Uniti hanno inoltre avvertito che un nuovo golpe militare provocherebbe un ritorno delle sanzioni, annullando così quello che è probabilmente il più grande successo del governo di transizione, cioè il reinserimento nell’economia mondiale e l’ottenimento sia della parziale cancellazione del debito internazionale del Paese che di ingenti aiuti finanziari.
Allo stesso tempo, nel Paese continua a salire il malcontento per la lentezza delle riforme e la dura situazione economica. Questa è aggravata anche da alcune delle politiche adottate allo scopo di accedere al sostegno economico internazionale, come il taglio di diversi sussidi e la gestione controllata del valore della sterlina sudanese. Inoltre, per quanto il processo di pace stia complessivamente reggendo, permangono situazioni di violazione dei diritti umani, violenza tra comunità e presenza di gruppi armati, per esempio nella regione del Darfur, già devastata dalla guerra protrattasi dal 2003 al 2009.
Infine, le tensioni del Sudan con la vicina Etiopia rischiano di causare non solo problemi all’élite politica, in termini di sicurezza idrica ed energetica, ma anche una vera e propria crisi umanitaria. I motivi degli scontri sono due. Il primo è la disputa territoriale riguardante l’area di al-Fashqa, sotto l’autorità sudanese dall’era coloniale ma rivendicata da entrambi i Paesi e scenario di un fragile equilibrio spezzatosi con il cambio di governo sia a Khartoum che ad Addis Abeba e con lo scoppio del conflitto nel Tigray. Il secondo motivo di scontro è rappresentato dalla questione del GERD, la diga sul Nilo Azzurro che l’Etiopia ha costruito negli ultimi dieci anni e ora sta riempiendo, pur senza aver raggiunto un accordo con gli altri due Paesi attraverso cui scorrono le acque del fiume, ovvero l’Egitto e il Sudan. Questi ultimi chiedono la condivisione delle informazioni e un controllo coordinato delle operazioni della diga, mentre Addis Abeba si appella alla propria sovranità per portare avanti il progetto in modo indipendente. Il pieno utilizzo del GERD altererà gravemente la fornitura di acqua dolce in Sudan, generando un impatto altamente negativo sulle attività economiche e sul tessuto sociale del Paese. Tuttavia, la mediazione dell’ONU o dell’Unione Africana nelle trattative non ha portato a nessun risultato.
Il blocco di Port Sudan
È in questa situazione di malcontento e instabilità che si inserisce il blocco di Port Sudan e delle infrastrutture circostanti da parte delle tribù Beja. Queste hanno chiesto come condizioni per la terminazione del blocco la cancellazione della Eastern Track degli accordi di Juba, da sostituirsi tramite la creazione di un consiglio più inclusivo e rappresentativo degli abitanti dell’area di Port Sudan, che assicuri che una porzione adeguata delle entrate generate in loco restino nella regione stessa. Inoltre, si richiede la sostituzione del Primo Ministro Hamdok e la revisione di tutti i progetti (per esempio quelli agricoli) nella zona.
Da un lato, le richieste degli esponenti Beja possono apparire giustificate: la regione, infatti, è impoverita e marginalizzata, e fino ad ora il governo centrale non si è mostrato sensibile alle istanze della popolazione. Gran parte delle richieste dei manifestanti risulta tuttavia inaccettabile per il governo, sia nel contenuto sia nella forma. Il Ministro della Finanza e leader del Movimento per la Giustizia e l’Uguaglianza, Jibril Ibrahim, appoggiato dal leader dell’alleanza tra diverse fazioni ribelli, El Hadi Idris, ha già affermato come la revisione di qualsiasi parte degli Accordi di Juba sia inattuabile, pena il collasso del processo di pace e dei tentativi di raggiungere gli obiettivi di sicurezza e giustizia nel Paese. L’Alto Consiglio delle Tribù Beja è stato dunque accusato di star minando il sottile equilibrio del Paese, di incitare violenza tribale (dato che la regione è abitata da diverse altre tribù oltre che da quelle Beja), nonché di sabotare l’economia nazionale.
Un accordo tra i due contendenti a fine settembre ha fatto sì che le importazioni di greggio dal Sud Sudan riprendessero, ma le altre (come quelle di gasolio e altri beni) sono ancora bloccate, così come le esportazioni, e la raffineria di Khartoum non può provvedere all’intero fabbisogno nazionale. Le navi aspettano fuori dal porto impossibilitate a scaricare le merci, anche perché le strutture di stoccaggio hanno raggiunto piena capienza. Il disagio ha anche già colpito la popolazione, con code fuori dalle panetterie perfino nella capitale. Oltre a evidenziare una rottura nella relazione del governo di transizione con la popolazione (o almeno parte di essa), le vicende di Port Sudan riflettono anche le tensioni intra-governative. Infatti, alcune personalità civili hanno tacciato l’esercito (che ha negato le accuse) di voler perpetuare il blocco. La situazione ha anche iniziato ad attirare la preoccupazione di diversi attori internazionali, con il Regno Unito, gli Stati Uniti e la Norvegia che hanno chiesto ai dimostranti di interrompere il blocco e di impegnarsi in un dialogo con le autorità.
Per ora il blocco non ha portato a benefici per nessuna delle fazioni coinvolte. Il governo, pur non potendo permettere che gli accordi di pace del 2020 vengano messi in discussione, dovrà compiere delle scelte. Ha infatti la responsabilità di evitare un’escalation di violenza tribale, mantenendo invece il focus sulle vere cause della ribellione a Port Sudan, cioè le difficoltà economiche, la distribuzione iniqua dei proventi delle attività portuali e un’insufficiente rappresentanza e/o autodeterminazione della popolazione locale. La sfida è dunque riconoscere la gravità della crisi e farla rientrare il prima possibile, cercando un contatto con attori locali oltre al Consiglio Beja.