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Cosa ci dicono il discorso di Pompeo e il Quarto Plenum del PCC sulla relazione USA-Cina?

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Mentre quasi 400 persone affollavano la sala dell’Hotel Jingxi per il tanto atteso Quarto Plenum del 19esimo Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese, il 30 ottobre scorso il Segretario di Stato americano Mike Pompeo teneva un discorso di fronte agli ospiti di un evento di gala dello Hudson Institute. Il giorno dopo le porte del Plenum del PCC si riaprivano e veniva diffusa la risoluzione adottata dai delegati convenuti. I due momenti testimoniano in maniera speculare la visione del mondo che Washington e Pechino hanno e con cui si preparano ad affrontare la futura competizione.

Dall’eloquente titolo “La sfida cinese”, l’intervento di Pompeo conferma alcune parole chiave e linee guida della politica estera trumpiana nei confronti della Repubblica Popolare Cinese e dimostra che anche dopo la dipartita di John Bolton la linea “dura” della Casa Bianca nei confronti di Pechino non si è attenuata.

A parere di chi scrive sono tre le considerazioni principali da trarre dal discorso del Segretario di Stato. Eccole di seguito:

  1. «The communist government in China today is not the same as the people of China». In questo passaggio si coglie una dimensione cruciale della politica estera statunitense così come della cultura politica americana in generale: la distinzione tra classe governante e popolo. È il Partito Comunista Cinese ad essere «realmente ostile» nei confronti degli Stati Uniti e dei loro valori, non la popolazione cinese che, invece, «ama la libertà». Questa divaricazione tra élite repressiva e popolo rientra perfettamente nella dottrina di politica estera di Donald Trump, il “principled realismpropugnato nella National Security Strategy 2017. Questa linea di pensiero se da un lato, infatti, si ispira alle correnti jeffersoniane e jacksoniane dentro e fuori il GOP e patrocina un maggior isolazionismo e il primato della dimensione nazionale su quella internazionale tra le priorità politiche, dall’altro non riesce completamente a rigettare alcuni assunti tipici della politica estera wilsoniana. Il continuo richiamo alla natura autoritaria dei regimi cinese, russo, iraniano e nord-coreano ne è una conferma lampante e pesa nella valutazione strategica degli obiettivi e delle minacce fatta dall’Amministrazione Trump. Come sostenuto nella NSS-17, infatti, la competizione odierna è tra «coloro che difendono regimi repressivi e coloro che supportano società libere».
  2. «Slow to see the risk of China». Pompeo ripete qui uno dei mantra della visione trumpiana degli affari internazionali. Gli Stati Uniti sono stati ingannati da potenze come Cina, Russia, Iran che hanno simulato di voler trasformarsi in «attori benigni» (NSS 2017) mentre erano determinati a rendere le proprie economie sempre meno libere e corrette e i propri regimi sempre più repressivi. Stando a quanto dice Pompeo, tale inganno si è reso possibile per due motivi interconnessi: perché in quanto americani gli Stati Uniti sono portati a «sperare» nello sviluppo democratico degli altri paesi; perché le amministrazioni precedenti hanno perseguito politiche miopi di “coinvolgimento” (engagement) permettendo alla Cina di crescere forte e minacciosa.
  3. La lista di doléances. Il Segretario di Stato conferma qui i fronti più rilevanti nella relazione tra Washington e Pechino: Taiwan, i diritti umani, la disonesta competizione economica e commerciale, la politica di coercizione cinese nei confronti di Filippine e Vietnam. L’elenco ricalca perfettamente il discorso fatto un anno fa dal Segretario in occasione del secondo round dello U.S.-China Diplomatic & Security Dialogue.

Il giorno seguente il discorso di Pompeo, il Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese ha approvato una delibera in sessione plenaria che è stata poi pubblicata sul Quotidiano del Popolo. Il documento riguarda prettamente le questioni di governance della Cina che sono state il nodo centrale delle discussioni durante il Plenum. Con governance si intende il consolidamento del predominio e del controllo del Partito su tutti gli aspetti della vita politica della RPC. Il «PCC comanda ogni cosa: il Partito, il governo, I militari, la società, l’educazione, l’est, l’ovest, il nord e il sud» recita il comunicato finale del Plenum. Nonostante molti commentatori ventilassero la possibilità di un indebolimento della leadership di Xi Jinping, il Quarto Plenum non sembra aver dato adito a quest’ipotesi. Xi, infatti, esce dalla sessione plenaria con la conferma di essere il «nucleo del Partito». La supposta nomina al Comitato Permanente di due membri aggiuntivi non si è verificata e la massima nomenklatura cinese è rimasta immutata. Il vertice del Partito, quindi, manca ancora di un possibile successore di Xi Jinping essendo gli altri sei membri del Comitato Permanente troppo vecchi.

Intanto, il governo del Cile ha fatto sapere che a causa dei tumulti in corso nel paese non sarà più in grado di ospitare il vertice dell’Asia Pacific Economic Cooperation previsto inizialmente per il 12 dicembre. In occasione del summit, ci si aspettava la firma della “fase 1” dell’accordo-tregua sulla trade-war in corso tra Stati Uniti e Repubblica Popolare. Data la decisione cilena, le due parti starebbero cercando una nuova occasione per siglare il cessate il fuoco.

La sensazione è che a spingere Trump a chiudere l’accordo siano più motivi di carattere elettorale visto l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali del prossimo anno. Le parole di Pompeo, inoltre, confermano che l’opinione sulla Cina dell’Amministrazione in carica non è cambiata anche in seguito alla fuoriuscita di Bolton e Mattis. In questa fase di stallo, quindi, le due potenze sembrano continuare a scivolare sempre più verso una “pace inquieta”.

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