Il 25 dicembre 1991 la bandiera dell’Unione Sovietica sul Cremlino veniva ammainata e sostituita con il tricolore russo. In seguito all’implosione dell’URSS, nella neonata Federazione Russa iniziò un periodo di sconvolgimento interno che avrebbe avuto ripercussioni inevitabili anche sulla sua politica estera. Ripercussioni che, in una prima fase, si caratterizzarono per una sostanziale inazione da parte dell’ex superpotenza.
Proprio in queste ultime settimane, le conseguenze di tale inazione stanno presentando il conto al Cremlino, che, il 17 dicembre 2021, ha chiesto ufficialmente a Washington garanzie formali di non espansione della NATO in Europa orientale e la rimozione dei sistemi d’arma giudicati troppo vicini ai confini russi. Una richiesta che ricorda la tacita promessa, mai ufficialmente messa per iscritto, che Gorbačëv credette di aver strappato nel 1990 al Segretario di Stato americano James Baker: in cambio del ritiro delle truppe sovietiche dall’ex Repubblica democratica tedesca, l’Alleanza Atlantica si sarebbe impegnata a non espandersi verso est. Questo eccesso di “fiducia” negli intenti degli Stati Uniti è uno dei grandi errori che Putin imputa all’ultimo leader sovietico.
Se a distanza di trent’anni si è nuovamente giunti alle richieste del 1990, è perché le minacce e le aspirazioni geopolitiche che la Federazione Russa si trova oggi ad affrontare sono le stesse che appartennero agli stati che l’hanno preceduta. La prima espansione della NATO ad est ha ridestato improvvisamente il paese dal disorientamento che era seguito alla “più grande catastrofe geopolitica del XX secolo”. La sindrome della fortezza assediata e la conseguente necessità di assicurarsi una zona cuscinetto che garantisse la sicurezza del paese sono così tornati a essere motivi trainanti nella cultura politica russa già a fine degli anni Novanta.
A questa necessità si aggiunse un desiderio di rivalsa originato dalle umiliazioni subite. Secondo una mentalità ancora tipicamente imperiale, il ripristino di una sfera di influenza sull’Estero Vicino non solo avrebbe attenuato il bisogno di sicurezza ma avrebbe altresì permesso al paese di ritrovare il prestigio perduto. Così, una volta ristabilito l’ordine sociale e messo un argine alle pulsioni disgreganti interne, Mosca avrebbe intrapreso gradualmente, ma incrementalmente, una politica estera volta a far tornare la Russia un polo indipendente in un sistema che essa, per poter continuare a contare, ha bisogno che sia multipolare.
1991-1999: una politica estera disattenta
Lo sconvolgimento sociale, ideologico, politico ed economico interno a seguito della dissoluzione dell’Unione Sovietica condusse dunque, e inevitabilmente, a un’involuzione della politica estera russa. Tra il 1991 e 1999, le poche risorse della neonata Federazione Russa, che non venivano impiegate per garantire la sopravvivenza interna, erano utilizzate per arginare i conflitti innescati dalla disgregazione dell’Unione Sovietica in Caucaso e Asia Centrale (Abkhazia, Ossezia del Sud, Nagorno-Karabakh, Tajikistan) e per fermare le pulsioni separatiste cecene. Quindi, per la Federazione Russa, l’urgenza primaria fu la gestione di alcuni suoi ex territori ora divenuti immediatamente limitrofi ai nuovi confini del paese, mentre la supervisione di quanto stava accadendo in alcune delle sue ex repubbliche e nei suoi ex paesi satelliti diventava sempre più un problema impossibile da affrontare con atti concreti. Ciò anche in virtù del fatto che, per quanto l’ossessione della NATO non si fosse mai assopita, il sincero desiderio che aveva caratterizzato la fase finale della politica estera di Gorbačëv, che consisteva nell’aprirsi al resto d’Europa e cooperare con essa, predominava ancora su ogni altro scenario.
L’invito ufficiale per Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca a entrare nell’Alleanza Atlantica in occasione del Summit NATO di Madrid del 1997 risvegliò brutalmente la Federazione Russa dal suo torpore. Nonostante i paesi occidentali assicurassero che l’allargamento agli ex paesi del Patto di Varsavia non fosse stato concepito in funzione antirussa, l’evento venne percepito dai russi come un’umiliazione e un tradimento. Sentimenti che vennero acuiti dalla disillusione che la popolazione russa provava nei confronti dell’Occidente dopo le conseguenze nefaste che le politiche di privatizzazioni e democratizzazione improvvisata avevano provocato sulla società. Agli occhi russi, l’Occidente, a cui la Russia si era affidata per essere traghettata sulla via della democrazia e dell’economia di mercato, si stava ora approfittando della debolezza del paese per privarlo della sua storica sfera di influenza attraverso un’alleanza che, sempre ai loro occhi, non aveva più motivo di esistere essendo ormai cessata la Guerra Fredda. Ne emerse una presa di coscienza che richiedeva un ripensamento strategico finalizzato ad arginare la perdita di influenza russa che questi eventi avevano provocato.
A dare sostanza a questo cambiamento fu Evegenij Primakov. Fin dal 1993 Primakov si era distinto come critico dell’unipolarismo statunitense e dei pericoli che questo rappresentava per gli interessi russi. Secondo la dottrina Primakov solo un sistema multipolare composto anche da Russia, Cina, India e Iran poteva controbilanciare lo strapotere statunitense e salvaguardare gli interessi russi. Prerequisito necessario per tornare ad essere un attore indispensabile del sistema internazionale era ripristinare l’influenza perduta sull’Estero Vicino. Questa nuova consapevolezza, ampiamente condivisa anche dalla popolazione, si diffuse presto in seno ai siloviki (ufficiali delle forze armate e delle agenzie di intelligence) fino a giungere a Eltsin che nominò Primakov ministro degli Affari Esteri e successivamente primo ministro nel 1999.
Il bombardamento NATO durante la guerra in Kosovo nel 1999, di uno storico paese filorusso come la Serbia, bombardamento che avvenne eludendo l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite dove Cina e Russia avrebbero potuto usare il loro potere di veto, rinforzò ulteriormente il consenso strategico attorno a quanto sostenuto da Primakov. La volontà di reagire alle umiliazioni subite e di emanciparsi per tornare a condurre una politica estera che difendesse gli interessi russi nell’Estero Vicino aveva ormai preso il sopravvento. Tuttavia, prima di dedicarsi all’ambiente esterno occorreva ripristinare l’ordine interno. Obiettivo che Vladimir Putin perseguì nel suo primo mandato.
1999-2007: i germi per la rottura
La salita al potere di Putin venne favorita dalla Seconda guerra di Cecenia (1999-2009). L’evento ebbe ripercussioni sia interne che esterne. Da una parte, permise a Putin di presentarsi ai cittadini russi come il fautore dell’ordine, colui che avrebbe ripristinato la sicurezza e la dittatura della legge all’interno di un paese finito in mano ai grandi oligarchi e caratterizzato da continue pulsioni secessioniste. Dall’altra, la guerra permise alla Russia di presentarsi nuovamente sulla scena internazionale come attore rilevante.
Il comune problema del terrorismo di matrice islamica avvicinò Russia e Stati Uniti, quantomeno a livello retorico. Non a caso Putin fu il primo capo di stato a chiamare Bush all’indomani dell’attacco alle Torri Gemelle condividendo informazioni di intelligence con gli ufficiali americani sulla topografia afgana. In questo caso la collaborazione con la superpotenza americana fu strumentale e servì ad elevare la reputazione russa sullo scacchiere internazionale dopo l’umiliante decennio degli anni Novanta. Tale collaborazione ebbe però vita breve. Già nel 2003, la Russia, insieme a Francia e Cina, si oppose in seno al Consiglio di Sicurezza dell’ONU all’invasione dell’Iraq, temendo che il regime baatista di Hussein, partner storico di Mosca in Medio Oriente, venisse sostituito con uno filostatunitense.
Similmente, Mosca interpretò le rivoluzioni colorate nelle ex repubbliche sovietiche di Georgia, Ucraina e Kyrgyzstan avvenute tra il 2003 e il 2005 come un nuovo tentativo americano di utilizzare la promozione della democrazia per indurre cambi di regime che favorissero gli interessi statunitensi a scapito di quelli russi. L’entrata nella NATO delle tre repubbliche baltiche nel 2004 portava invece l’Alleanza Atlantica pericolosamente a ridosso dei confini russi acuendo ancor di più la sindrome dell’accerchiamento.
2007-2014: la rottura
Grazie a livelli di crescita annui del pil che toccarono il 7%, la Russia di Putin aveva acquisito ora una fiducia tale da sentirsi intitolata a criticare apertamente quell’unipolarismo statunitense che non era più disposta ad avallare. A livello dichiarativo questa svolta arrivò con il celebre discorso di Putin alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco del 2007. Da quel momento Mosca si dichiarò pronta ad operare in maniera indipendente per perseguire un ordine multipolare e per salvaguardare i propri interessi nazionali in quella che reputava essere la sua sfera di influenza. Come precisato in un incontro di Putin con i diplomatici russi nel luglio del 2012, questa indipedenza non era da leggersi né come isolazionismo, né come ricerca dello scontro, ma come una modalità di partecipazione agli affari internazionali che sottolineasse l’unicità russa.
Alle parole seguirono le azioni. Quando il Summit NATO di Bucarest dell’aprile 2008 aprì alla possibile membership per Ucraina e Georgia, la reazione russa non tardò ad arrivare e nell’agosto 2008 le forze russe invasero la Georgia. Mosca motivò il suo intervento a sostegno della repubblica separatista georgiana dell’Ossezia del Sud, prendendo come punto di riferimento proprio l’intervento NATO contro la Serbia in favore del Kosovo. Oltre a manifestare la propria superiorità militare sulla piccola repubblica ex sovietica, sostenendo le aspirazioni secessioniste delle repubbliche dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud Mosca intendeva indebolire la sovranità georgiana rendendone così l’accesso all’Alleanza Atlantica molto più problematico da un punto di vista formale (per poter accedere i candidati non devono avere dispute territoriali in essere). L’intervento militare russo, sebbene di successo, evidenziò tuttavia l’arretratezza delle forze armate russe che da quel momento divennero oggetto di un profondo programma di modernizzazione.
Lo stesso scenario si replicò con la crisi ucraina del 2014, che condusse all’annessione della Crimea alla Federazione Russa e allo scoppio della guerra nelle province separatiste ucraine del Donetsk e del Lugansk nel Donbass. Nel momento in cui il Presidente ucraino filorusso Janukovyč venne spodestato nel febbraio 2014 a seguito delle proteste di Euromaidan, Mosca giudicò opportuno intervenire e la sua prima mossa passo fu l’assicurarsi il controllo della penisola di Crimea che ospitava la base navale russa di Sebastopoli. In quell’occasione furono utilizzati i cosiddetti “omini verdi” (soldati con uniformi verdi senza mostrine in modo tale da non essere ricondotti a un esercito di appartenenza) che andarono a presidiare le zone strategiche dell’area. Una volta ottenuto il controllo sul campo, venne indetto un referendum popolare che segnò il passaggio della Crimea alla Federazione Russa. L’atto successivo fu quello di fornire sostegno indiretto alle regioni separatiste del Donbass.
Se si esclude la questione degli armamenti strategici, dagli eventi del 2014 in poi la rottura fra Mosca e Washington è stata definitiva portando all’isolamento politico ed economico della Russia dal resto del continente europeo. Per fronteggiare questa nuova condizione la Russia si è strumentalmente avvicinata a Pechino sulla base di un comune approccio revisionista del sistema internazionale, giudicato troppo incentrato sugli interessi occidentali. Ciononostante, per attenuare l’impressione di essere il junior partner di un paese che Mosca ha sempre guardato con sospetto, il Cremlino ha continuato a perseguire una politica estera sempre più assertiva e multivettoriale, che rendesse evidente il suo ritorno da grande potenza sullo scacchiere internazionale quale attore autenticamente indipendente.
2014-2021: una politica estera assertiva, multivettoriale e indipendente
L’evento che più segna la rinnovata volontà e capacità di Mosca di perseguire una politica estera autenticamente indipendente volta a proteggere i propri interessi in quelle che ritiene essere le sue zone di influenza è dato dall’intervento militare in Siria a sostegno del governo di Bashar al-Assad nel settembre 2015. Dopo un discorso di Putin presso l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite in cui il Presidente russo elogiava apertamente il sistema di Jalta e metteva in guardia dei pericoli che sarebbero emersi a causa di vuoti di potere in Medio Oriente e Nord Africa, le forze aeree russe intervennero a sostegno delle truppe di Assad contro i gruppi ribelli.
L’intervento in Siria era motivato da molteplici intenti: evitare la diffusione dell’instabilità nel Caucaso; testare sul campo i primi risultati del programma di modernizzazione avviato a seguito della guerra di Georgia; convalidare la narrazione secondo cui la Russia, a fronte di un Occidente decadente, rimane l’ultimo baluardo alla lotta contro il terrorismo islamico; e, soprattutto, difendere lo storico alleato siriano ospitante l’unica base militare russa nel Mediterraneo. Dopo aver assistito a un nuovo cambio di regime in Libia (dove la Russia aveva investito 10 miliardi di dollari), Mosca ha così segnalato la sua determinazione a impedire questa pratica laddove i suoi interessi ne risentano.
Contemporaneamente, l’influenza russa si è riaffacciata anche in Africa, soprattutto in Libia, Sudan e Repubblica Centroafricana, attraverso il gruppo di mercenari Wagner affiliato al Cremlino. La Libia è così divenuta terreno di scontro fra le aspirazioni da grande potenza sia russe che turche. Storicamente rivali strategici, Russia e Turchia hanno tuttavia per il momento trovato un’intesa, almeno tattica, che garantisce un modus vivendi tra i due paesi in Libia, Siria e Caucaso in cui si trovano a difendere interessi contrapposti.
Esemplare in questo senso la gestione della riaccensione del conflitto nel Nagorno-Karabakh tra Armenia e Azerbaijan nell’autunno 2020. Come in passato, Mosca si è trovata a dover mediare il conflitto per ribadire il suo tradizionale ruolo di potenza di riferimento nell’area. Un ruolo sempre più insidiato dalle rinnovate aspirazioni panturche della Turchia di Erdoğan che ha apertamente sostenuto l’Azerbaijan. Pur assicurandosi di non coinvolgere i rappresentanti turchi alla firma degli accordi di cessate il fuoco, salvaguardando così la propria primazia quale referente ultimo della questione, Mosca ha comunque dovuto assecondare la vittoria dell’Azerbaijan ottenuta proprio grazie all’equipaggiamento militare fornito dalla Turchia.
Differenziare la propria politica estera per presenziare in tutte le questioni internazionali rilevanti è un’altra tecnica adoperata dalle aspiranti grandi potenze. È quanto fatto dalla stessa Russia in occasione dell’accordo sul nucleare iraniano del 2015 e quanto perseguito attraverso la diplomazia del vaccino Sputnik V durante la pandemia di Covid-19. Nel primo caso, la Russia ha presenziato quale attore imprescindibile del settore essendo dotata del più grande arsenale strategico al mondo, ultima vestigia del passato da superpotenza. Nel secondo caso, in una vera e propria corsa al vaccino, il paese è stato il primo ad annunciare la creazione di un vaccino contro il Covid-19 e a favorirne l’esportazione in quanti più paesi possibile.
Infine, con l’arrivo alla Casa Bianca dell’amministrazione Biden l‘attenzione di Mosca sul quadrante europeo è tornata a intensificarsi. Bielorussia e Ucraina costituiscono infatti le ultime zone cuscinetto che separano la Russia dalla NATO. In Bielorussia le proteste popolari a seguito della rielezione del Presidente bielorusso Aljaksandr Lukašėnka nell’agosto 2020 sono state interpretate da Mosca come un tentativo di organizzazione di una nuova rivoluzione colorata. Mentre in Ucraina si è assistito all’escalation delle tensioni nella primavera e nell’autunno 2021 circa una possibile adesione dell’Ucraina alla NATO. Senza più possibilità di retrocedere, Mosca ha dapprima qualificato Ucraina e Bielorussia come le linee rosse che l’Occidente non deve superare e successivamente ha richiesto a Washington garanzie di sicurezza formali che escludano un’ulteriore allargamento ad est dell’Alleanza Atlantica. Minacciare l’identità di un paese dal grande spessore geopolitico, e che si sente sotto attacco, mirando a tenerlo con le spalle al muro, è una considerazione sulla cui opportunità i paesi europei dovrebbero riflettere con grande attenzione.
Conclusioni: caratteristiche della politica estera russa
Nell’evoluzione trentennale che ha vissuto, la politica estera russa è passata da una disattenzione per mancanza di risorse e un’iniziale disponibilità nei confronti dell’Occidente a una profonda presa di coscienza della necessità di preservare una zona d’influenza che permettesse al paese di ritrovare non solo sicurezza ma anche il prestigio perduto. Tale consapevolezza venne raggiunta già a metà degli anni Novanta ma reperì i mezzi per poter venire applicata con gradualità solo a partire dal 2007, per culminare con la definitiva rottura con l’Occidente nel 2014.
La politica estera russa è così diventata incrementalmente assertiva sebbene alla base sia mossa da intenti difensivi. Nella mentalità di Mosca, atti apparentemente offensivi sono in realtà volti a riacquisire il terreno perduto negli anni Novanta. Vi è una costante ricerca di sicurezza lungo un perimetro che Mosca fa coincidere non con le frontiere della Federazione ma con quello dello spazio post-sovietico su cui ritiene di aver diritto a una zona d’influenza esclusiva. Se queste condizioni sono ancora rispettate nel Caucaso e in Asia Centrale, nonostante le infiltrazioni turche e cinesi, in Europa la zona cuscinetto è stata sempre più erosa dai successivi allargamenti dell’Alleanza Atlantica.
Contemporaneamente, il Cremlino ha reso esplicita l’intenzione russa di cessare la condizione di docile allievo dell’Occidente per tornare a perseguire una politica estera neohobbesiana profondamente incentrata sugli interessi materiali del paese. Si tratta di una politica estera pragmatica, opportunistica e flessibile che mira a sfruttare crisi potenzialmente pericolose per il paese per trasformarle in situazioni utili a ripristinare la grandezza perduta, come avvenuto in Georgia, Crimea o Siria. È un approccio che mira a creare fratture in seno gli schieramenti, come dimostrato dalla questione del Nord Stream 2, e che predilige le strutture bilaterali a quelle multilaterali, poiché nelle prime, Mosca può fare leva sul suo alto peso specifico che nella maggior parte dei casi le permette di sovrastare l’avversario.
Nonostante la poderosa crescita economica dei primi anni Duemila e la riuscita modernizzazione militare degli anni Duemila dieci, la Federazione Russa non è più una superpotenza. Ha aspirazioni da deržavnost’ (essere una grande potenza ed venire riconosciuta come tale) che si reggono tuttavia su debolezze strutturali che la portano ancora a fare profondo affidamento sul suo arsenale strategico come garanzia ultima della propria sicurezza e grandezza. Del resto, rinunciare a perseguire la deržavnost’ significherebbe perdere l’essenza stessa che ha caratterizzato lo stato russo nelle sue diverse configurazioni da Pietro il Grande in poi.
Il Cremlino è cosciente del disavanzo materiale che gli impedisce di competere con Stati Uniti e Cina. Puntare a diventare il terzo polo potenzialmente in grado di spostare in modo decisivo gli equilibri nella rivalità sino-americana è quindi ciò a cui punta Mosca per amplificare ulteriormente il proprio prestigio al di là della sua effettiva potenza materiale. La stessa logica ispira il tentativo di Mosca di diversificare i dossier in cui è coinvolta così come il numero di attori con cui interloquisce. Malgrado l’isolamento che gli Stati Uniti vogliono imporle, la Russia intende continuare ad essere un attore imprescindibile nello scacchiere internazionale.
A fare da involucro a questa politica neohobbesiana subentra infine una narrazione conservatrice volta a dare l’immagine di una Russia garante dell’ordine pronta a intervenire contro cambi di regime destabilizzanti e contro i movimenti terroristici. Un conservatorismo che si dispiega nella difesa di valori tradizionali così come in un approccio alla politica estera ancora radicato nei meccanismi della politica di potenza ottocentesca. Incurante del fatto che oggi tali logiche possano essere giudicate superate, la stella polare che indirizza la politica estera russa consiste nel fornire continui riscontri fattuali alla sua capacità di presentarsi come un paese autenticamente sovrano, un paese che ha ritrovato la sua via e la sua voce.