Con l’inizio della guerra tra Russia ed Ucraina lo scorso 24 febbraio e la crisi di Taiwan, in questo 2022 il mondo è entrato in una fase nuova della sua storia. Certamente il processo di globalizzazione, che aveva raggiunto il suo zenit negli anni immediatamente precedenti al “fatidico” 2020 pandemico, aveva portato con sé non solo lo sviluppo di una fitta rete di scambi commerciali e finanziari ma causato anche l’emergere di discrepanze e disuguaglianze nel sistema delle relazioni internazionali, generando una nuova fase di concorrenza tra attori a vocazione imperiale.
In sintesi, il “ritorno della storia” – che, in verità, non ha mai smesso di essere materia viva e pulsante, checché ne dicano i sostenitori di Francis Fukuyama – ha portato consequenzialmente al ritorno degli imperi in una forma mista che non è più solo militare né esclusivamente tecnologica, ma che risponde alle necessità ed alle logiche della guerra diretta ed indiretta per le egemonie.
La nuova e più forte polarizzazione dello scenario internazionale impone ad una media potenza come l’Italia di serrare i ranghi attorno al suo maggiore alleato, cioè gli Stati Uniti. Visti i titolari dei ministeri ed anche le idee espresse nel corso degli anni dal Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, si può pensare a buon titolo che il nuovo governo italiano avrà e manterrà una condotta rigidamente atlantista sui principali dossier della politica internazionale che coinvolgono Roma a vario titolo.
All’aumento della polarizzazione tra blocchi, agli alleati della potenza imperiale spettano più responsabilità – che non in fase di stabilità sistemica – per garantire la tenuta del complesso sistema egemonico a guida occidentale, oggi sotto attacco su vari fronti.
Il ruolo dell’Italia nel “Mediterraneo allargato” è un caso di scuola di questo tipo, specie riguardo a due dei principali checkpoints per la politica estera del governo Meloni, come la Libia e le rotte migratorie. Nel caso di Roma, potenza che ha tutto l’interesse a mantenere lo status quo nel Mediterraneo, ad un’idea conservatrice delle relazioni internazionali, che è connaturata alla sua appartenenza al blocco egemone attualmente sotto pressione da parte delle potenze revisioniste, deve necessariamente corrispondere una postura assertiva e decisionista nella propria area di pertinenza, la quale, in uno spazio geograficamente stretto e geopoliticamente conteso come il Mediterraneo, diventa anche “area di sopravvivenza” ed insieme di proiezione.
Un dato di fatto, che è insieme geografico e politico, analizzato fin dall’800 dalle scuole di geopolitica italiana e tedesca e ripreso dai teorici del “Mediterraneo allargato”, è che ogni unità geografica del Mare Nostrum è parte di due o più campi di forza geopolitica. Ogni conquista, ogni acquisizione di terra porta a nuove controversie e attriti con le vicine strutture geopolitiche, in un confronto serrato fra potenze di terra e potenze di mare, che hanno prevalso l’un l’altra in epoche e situazioni diverse. In un quadro del genere, che risponde alle trasformazioni dovute alla fase regressiva della globalizzazione, che nel Mediterraneo s’è manifestata addirittura prima del previsto con le “primavere arabe”, è difficile se non impossibile garantire per quelle acque lo status di regione geopolitica autonoma e di “mare aperto” contemporaneamente, senza subire le spinte globali provenienti dalle grandi potenze interessate a sfruttarne ed a controllarne la specificità di mare di collegamento tra oceani contesi.
Adottando una linea rigidamente realista nel Mediterraneo, con l’obiettivo di restaurare la propria influenza ed aumentare la capacità di proiezione degli interessi nazionali, l’Italia può sia garantire la propria “continuità atlantica” sia ricostruire la “sfera creativa” della propria politica estera messa in crisi dalla guerra d’Ucraina. Non si tratterebbe tanto di rispolverare il “neoatlantismo” storico della politica estera italiana, definitivamente archiviato dopo l’invasione russa dell’Ucraina ed il tramonto della Belt and Road Initiative; quanto di svolgere un ruolo più attivo in seno all’Alleanza Atlantica, il cui campo d’azione per l’Italia non può che essere la “cintura geografica” che va dal Canale di Sicilia alle coste levantine e poi, virando a sud, al Corno d’Africa ed all’Oceano Indiano.
Lo ha ribadito anche il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni alla Camera dei Deputati nel suo discorso programmatico, dal quale sono emersi alcuni tratti fondamentali della politica estera nazionale, rispondenti all’idea di preservare l’appartenenza alla NATO – mai messa in discussione – coniugandola con una tradizione geopolitica attenta all’Africa ed al Levante.
L’attivismo italiano nel Mediterraneo “allargato” deve esplicarsi, secondo il nuovo esecutivo, nell’attuazione di un “piano Mattei” che all’azione del leggendario Presidente dell’AGIP si ispira e che prelude, inevitabilmente, ad un rinnovato protagonismo di Roma nel suo “giardino di casa”, con l’obiettivo di garantire la stabilità politica regionale e di non subire i contraccolpi di una crisi energetica che, considerati i mutamenti dello scenario internazionale in atto, rischia di diventare sistemica, imponendo, dunque, ad un Paese privo di risorse come l’Italia la “scelta obbligata” dell’attivismo in politica estera.