Dall’atteggiamento verso l’industria dell’Oil&Gas al cambiamento climatico passando per il ruolo del gas e del carbone nel mix energetico nazionale con un’attenzione particolare al fracking.
Non è solo in politica estera (atteggiamento verso la Russia di Putin e gestione delle crisi nei vari scacchieri mondiali) e in materia economica (più o meno globalizzazione) che si delineano ampiamente le differenze tra la candidata democratica Hillary Clinton e il futuro presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Il successore di Barack Obama, che il 23 gennaio farà il suon ingresso nello studio ovale, si troverà infatti a portare avanti una politica energetica molto diversa da quella prospettata in campagna elettorale dall’ex Segretario di Stato. Visioni, quelle di Trump e Clinton, che sotto alcuni aspetti possono essere considerate diametralmente opposte.
Lo scenario energetico americano
Negli ultimi dieci anni il settore energetico americano si è caratterizzato per notevoli e profondi cambiamenti. Se, da un lato, per quanto riguarda la produzione e il consumo di combustibili fossili, il carbone e il petrolio hanno ceduto sempre di più il passo al gas naturale (proprio nel 2016 alcuni analisti prevedono il sorpasso del gas naturale quale principale combustibile per la produzione di energia rispetto al carbone), dall’altro lato la quantità di energia prodotta tramite il ricorso alle fonti rinnovabili (eolico e solare in particolare) è in rapida ascesa. Un mix energetico che, secondo uno studio dell’Agenzia internazione per l’energia (Aie), dovrebbe garantire agli Usa l’indipendenza energetica entro il 2035. Nel frattempo, nel 2017, gli Stati Uniti dovrebbero divenire il primo produttore al mondo di petrolio, sorpassando di fatto l’Arabia Saudita, anche se la recente politica dell’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec) finalizzata a tenere basso il prezzo del barile dovrebbe ritardare tale data.
Non esiste alcun cambiamento climatico
Nessuna guerra al cambiamento climatico, visto dalla Clinton come una delle minacce più urgenti per la nazione e per il mondo intero. Trump, infatti, ha da sempre sostenuto di essere “abbastanza scettico” riguardo al cambiamento climatico indotto dall’uomo. Secondo il futuro presidente degli Stati Uniti il concetto di riscaldamento globale è stato creato “da e per i cinesi così da rendere la produzione americana non competitiva”. Lo stesso Partito Repubblicano, che ha preso le distanze da Trump su varie questioni, ha più volte sottolineato che il cambiamento climatico non è di certo uno dei problemi più urgenti per il Paese a differenza, ad esempio, della sicurezza nazionale. In linea con tale atteggiamento, Trump ha promesso di uscire dall’Accordo di Parigi del dicembre 2015, che punta essenzialmente a limitare l’aumento della temperatura globale al di sotto di 2 gradi Celsius e ad adoperarsi per non superare un aumento di 1,5 gradi. Nel mirino di Trump anche l’Environmental Protection Agency (Epa), alla quale il tycoon divenuto presidente intende impedire di disciplinare le emissioni di anidride carbonica. Conseguenza naturale sarà quindi l’accantonamento del Clean Power Plan dell’amministrazione Obama che, nelle intenzioni di Hillary Clinton, avrebbe rappresentato lo strumento principale per rendere gli Usa “una superpotenza dell’energia pulita”.
Quale mix energetico per il futuro americano ?
Un forte sostegno allo sviluppo di tutte le forme di energia, purché commerciabili, con particolare riferimento a gas, petrolio, carbone (inviso alla Clinton), nucleare e idroelettrico. E’ su questo mix energetico che si dovrà basare lo sviluppo degli Usa secondo Trump. Un mix energetico, quindi, che si accompagnerà a un contenimento degli incentivi per la diffusione delle rinnovabili: secondo il nuovo presidente, infatti, lo sviluppo dell’energia eolica e solare dovrebbe essere finanziato con capitali privati e non con fondi governativi. Non manca nel programma di Trump un sostegno all’industria dell’oil&gas che, al contrario, in caso di vittoria della Clinton, avrebbe assistito a una eliminazione delle esenzioni e delle sovvenzioni fiscali di cui godono appunto le compagnie produttrici di combustibili fossili. Il programma di Trump, poi, prevede l’apertura dei terreni pubblici e della piattaforma continentale esterna alla prospezione e produzione di combustibili fossili, ribaltando la posizione della Clinton per la quale fondamentale sarebbe “ridurre gradualmente l’estrazione di combustibili fossili dai terreni pubblici”.
Il futuro del fracking
Se gli Usa riusciranno davvero a raggiungere l’indipendenza energetica, è proprio alla tecnica del fracking, e alla connessa rivoluzione dello scisto, che dovranno dire grazie. Shale gas e shale oil stanno spingendo la produzione interna di gas e petrolio. Se per quest’ultimo la produzione da riserve non convenzionali è oggi il 52% della produzione totale, per quanto riguarda lo shale gas si è passati dai 2 trilioni di piedi cubi del 2005 ai 13,2 del 2014. Ed è proprio su questa strada che il futuro presidente Donald Trump intende continuare, abrogando ogni tipologia di moratoria per l’utilizzo del fracking. Una strada, quella della fatturazione idraulica, che in realtà non è poi così certo che sarebbe stata abbandonata dalla Clinton. L’ex Segretario di Stato, infatti, nel suo programma prevedeva maggiori e più stringenti controlli ambientali per l’uso di questa tecnica, piuttosto invasiva e responsabile, secondo alcuni, di lievi terremoti. Ma non è da dimenticare che fu proprio Hillary Clinton a farsi promotrice della “Global Shale Initiative” nel 2010.
Verso la realizzazione dell’oleodotto Keystone
Il veto posto dal presidente americano Obama alla realizzazione dell’oleodotto che avrebbe dovuto collegare il Canada con il Messico ha rappresentato uno dei pilastri della politica energetica dell’amministrazione uscente. Keystone, con i suoi 1.897 km, una volta giunto a regime avrebbe dovuto trasportare dalle sabbie della canadese Alberta alle raffinerie del Golfo del Messico sino a 800 mila barili di petrolio al giorno. Grande oppositore del progetto è stato il Segretario di Stato John Kerry per il quale “portare avanti questo progetto avrebbe minato in modo significativo la nostra capacità di continuare a essere una guida nella lotta al cambiamento climatico”. E sulla stessa linea del suo successore alla guida della diplomazia americana si era posta nel corso della campagna elettorale Hillary Clinton. Donald Trump, al contrario, ha già assicurato che l’oleodotto verrà completato (manca, infatti, la realizzazione della quarta fase dell’opera) precisando, al contempo, che “un’importante quota dei profitti dovrà rimanere negli Stati Uniti”. Con buona pace dei canadesi e dei messicani.
I rapporti con l’Opec
Al di là delle manifestazioni di apprezzamento per la Russia di Putin che possono portare ad ipotizzare un sostegno americano nella “lotta” tra la Russia e l’Opec, nel corso della campagna elettorale Trump non ha mai affrontato il problema dei rapporti con l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio. L’elezione del magnate americano non è certo una buona notizia per l’Opec e per la sua politica finalizzata a tenere basso il prezzo del petrolio proprio per mettere fuori dal mercato, tra gli altri, i produttori americani di petrolio non convenzionale. Non solo, infatti, i produttori americani stanno resistendo al basso costo del barile al di là di ogni previsione, ma il futuro presidente degli Usa intende aumentare la produzione interna di petrolio aprendo all’apertura dei terreni pubblici per l’estrazione dell’oro nero. Ma sono gli equilibri stessi interni all’Opec che potrebbero essere scossi dalla politica di Trump, specialmente quella mediorientale. Il futuro presidente, infatti, ha da sempre criticato l’atteggiamento della comunità internazionale nei confronti dell’Iran e il conseguente accordo sul nucleare, prospettando, una volta eletto, il rafforzamento delle sanzioni nei confronti della repubblica islamica. Proprio quando è nuovamente alta la tensione tra l’Arabia Saudita e Teheran, i due principali player interni all’Opec.