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TematicheItalia ed EuropaGeopolitica della crisi: The worsts of the pigs

Geopolitica della crisi: The worsts of the pigs

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Il comune destino che lega l’Italia e la Grecia risale all’età antica in cui è noto come i due paesi avessero intensissimi flussi commerciali e si influenzassero vicendevolmente grazie a fiorenti scambi culturali. Oggi, però, il loro comune destino è connesso alle loro “cattive” performance economiche, in particolare al fatto di appartenere entrambi alla nera lista dei Paesi meno virtuosi d’Europa. Un primato d’eccellenza nel V secolo, esempi di civiltà, cultura e progresso. Un primato di negatività oggi, esempi da non seguire nella gestione dei conti pubblici.

Secondo le ultime stime dell’Eurostat, infatti, l’Italia, con un debito pubblico che supera il 130 % del PIL (131,8% secondo gli ultimi aggiornamenti), è seconda solo alla Grecia con il 176 % di debito rispetto al prodotto interno lordo. Al terzo posto, il Portogallo, con una percentuale del 131,4, di poco inferiore a quella italiana.

Entrambi, quindi, sorvegliati speciali dall’Eurosistema, anche se su due binari molto diversi. Ed entrambe, per arrivare alla prossima stazione senza deragliare, ci riusciranno soltanto con la ristrutturazione dei vagoni, ovvero le riforme.

In Italia, prima di tutto, la legge di stabilità. È del mese scorso la notizia che Palazzo Koch abbia promosso quasi a pieni voti la manovra finanziaria per il 2015 con cui, grazie ad un coordinato disposto con le altre riforme che stanno intervenendo su investimenti e concorrenza, sembra si eviterà un prolungamento della fase recessiva. Nel bollettino di Bankitalia, infatti, si legge come nella legge n. 190 del 2014 si cerchi di attuare un buon tentativo di risanamento dei conti pubblici, pur se lo sfavorevole quadro congiunturale economico ha impedito di essere più coraggiosi.

Ottima notizia questa, soprattutto in questa fase di stagnazione economica che dura da oltre sei anni e che ha portato ad un pesantissimo impoverimento del Paese e livelli di disoccupazione mai sfiorati prima (in particolare per quello giovanile), ma che lascia dei dubbi circa la reale portata innovativa o meno della nuova manovra finanziaria.

Innanzitutto perché, la stessa Bankitalia, a novembre, di fronte alle Quinte Commissioni riunite,  aveva espresso forti riserve circa la cosiddetta clausola di salvaguardia contenute nel ddl quali ulteriori misure di copertura, che potrebbero far scattare gli aumenti dell’imposta sul valore aggiunto addirittura fino al 25,5 per cento per aliquota di fascia alta e al 13 per cento per quella intermedia, facendo di conseguenza lievitare in maniera consistente la tassazione indiretta che, naturalmente, colpisce l’intera popolazione, senza alcun criterio di progressività.

Nello stesso bollettino, Bankitalia ha pubblicato le sue stime riguardo alla crescita del Pil nazionale, calcolando soltanto un + 0,4 per cento nel 2015, con una crescita modesta quindi, rispetto al + 1,3 per cento calcolato a luglio 2014 che, nonostante l’accelerazione prevista a + 1,2 per cento nel 2016, fa complessivamente collocare il nostro Pil attuale oltre sette punti percentuali sotto il livello del 2007. Le stime di via Nazionale sono in linea con le ultime previsioni del Fondo Monetario internazionale  e della Commissione europea che, ugualmente, hanno rivisto in diminuzione i livelli di crescita del nostro Paese, che avranno, nel 2015, soltanto una tiepida ripresa, pari allo 0,6%, dovuta esclusivamente all’accelerazione della domanda esterna.

Tristemente nota è la vicenda della lettera di fine novembre inviata dalla Commissione europea Ue al nostro governo che ha contraddistinto la genesi della manovra 2015 da 32 miliardi: il testo originario del ddl, infatti, prevedeva che il piano di bilancio dell’Italia posponesse il raggiungimento degli obiettivi di medio termine al 2017 e rallentasse la riduzione del debito sul Pil, portando l’Italia verso la pianificazione di una “significant deviation from the required adjustment path towards its medium-term budgetary objective (MTO) in 2015 based on the planned change in the structural balance”, come è scritto nella lettera che il Vice-presidente Katainen ha inviato al nostro Ministro dell’Economia e delle Finanze Padoan. La pubblicazione della lettera, data alle stampe da parte del Tesoro, è stata fortemente criticata dall’ex Presidente della Commissione europea, Barroso, il quale ha dichiarato che sarebbe dovuta rimanere strettamente confidenziale, come indicato nella stessa, e che la Commissione non fosse affatto favorevole alla divulgazione perché ancora in fase di negoziati e consultazioni tecniche, anche con gli altri governi, e che, quindi, fossero necessari degli scambi esclusivamente riservati.

Il governo, dal canto suo, ha accettato la correzione strutturale a 0,3 punti percentuali programmata  per il 2015 utilizzando 2 miliardi dai fondi di riserve previsti nel progetto iniziale del ddl e ha programmato un indebitamento netto del 2,6 per cento del Pil e un indebitamento stimato del 2,2.

A marzo, però, in sede di definizione del Def il Governo dovrà di nuovo fare i conti con l’annosa questione dell’indebitamento pubblico e, qualora il rapporto di questo con il PIl non dovesse soddisfare i parametri europei, la Commissione sarebbe pronta a riprendere nuovamente l’Italia, chiedendo, in aggiunta agli aggiustamenti già richiesti a fine novembre, di contenere il deficit di un ulteriore 0,4 per cento, con una manovra  pari a 6,5 miliardi.

Il Governo, infatti, potrebbe non raggiungere i risultati record di finanza pubblica previsti, stando ai dati del rapporto deficit/Pil che, nel terzo trimestre del 2014, ha toccato quota 3,5 per cento, superiore di 0,2 punti percentuali rispetto a quello misurato nello stesso trimestre del 2013, ma soprattutto di 0,5 punti troppo alto rispetto ai parametri europei, con una punta complessiva del 3,7 per cento nei primi tre trimestri del 2014 e un peggioramento complessivo di 0,3 punti percentuali rispetto ai primi nove mesi del 2013.

Nel quarto trimestre del 2014, invece, la recentissima stima dell’Istat attesta una crescita zero del PIL, ma su base annua le stime restano comunque poco positive perché si è registrata una diminuzione dello 0,4%. La recessione si sarebbe arrestata e il debito pubblico, a detta di Bankitalia, sarebbe sceso, ma le istituzioni di Bruxelles avranno comunque ancora tutto il primo semestre per monitorare e soltanto tra maggio e giugno esprimeranno le proprie raccomandazioni all’Italia affinché sia rispettato il Patto di Stabilità e Crescita.

È opportuno notare come diversamente dai passati provvedimenti di manovra finanziaria, in cui le clausole sono state poste a salvaguardia di un risultato di altre misure di esito incerto, le attuali disposizioni relative agli aumenti IVA sono già in vigore e scatterebbero nel caso in cui non fossero sufficienti le risorse derivanti dalle maggiori entrate ovvero dai risparmi di spesa ottenuti mediante interventi di razionalizzazione e di revisione della spesa pubblica, innescando, a loro volta, un atroce spirale. Di un nuovo incremento della tassazione indiretta, infatti, potrebbe beneficiare ulteriormente l’economia sommersa, generando conseguenze ben più gravi per i conti pubblici poiché si potrebbero rendere necessarie ulteriori misure di austerity a causa del mancato gettito derivante dall’incremento delle aliquote sui beni di consumo, contrariamente all’ultima raccomandazione del FMI che considera invece adeguato smorzare l’austerità per favorire la ripresa economica.

Resta da capire se effettivamente le misure espansive potrebbero aiutare o meno la ripresa. Negli ultimi anni si sono riconcorse tesi, dimostrazioni, suggerimenti e consigli che i più importanti economisti mondiali hanno avanzato come soluzione di tutti i mali di un’Europa schiacciata dai diktat di una Bundesbank inamovibile sulla necessità di misure di austerity. Da una parte all’altra del globo i maggiori esperti mondiali non sembrano condividere la politica dura di Weidmann: Richard Koo, considerato il maggior studioso della crisi asiatica di fine millennio, sostiene che in presenza di crisi sistemiche, solo l’uso della spesa pubblica, secondo una linea di politica espansiva, possa limitare gli effetti di contrazione della domanda privata, poiché spetta allo Stato intervenire in momenti di contrazione economica per non rischiare il crack. Secondo Koo, la Germania avrebbe dovuto riordinare i mercati fino alla sospensione, qualora si fosse resa necessaria, della vendita dei Bund tedeschi, al fine di spingere gli investitori privati a comprare i titoli di Paesi come l’Italia o la Spagna, invece di costringere quest’ultimi a politiche di “lacrime e sangue”, per chiosare un triste slogan coniato per indicare la famosa manovra di paternità montiana.

Allo stesso modo, il premio Nobel Paul Krugman ha dichiarato senza mezzi termini che i Tedeschi abbiano inflitto ai propri partner europei una terapia “sadica”, spinti dall’atavico moto di ribellione contro gli eccessi della Roma Papista.

E neppure la più soft versione italiana, quella degli economisti Alberto Alesina e Francesco Gavazzi, secondo i quali in presenza di alti debiti, le spinte per la ripresa economica dovrebbero arrivare dai risparmi e dalle riforme, sembra soddisfare la nuova vague keynesina mondiale.

La politica di austerità sembra quindi andare in soffitta: lo dimostra anche il passo indietro che ha fatto l’FMI, il quale ha dovuto ammettere che, in presenza di una spirale recessiva, una stretta fiscale che utilizzi i moltiplicatori calcolati nel periodo pre-crisi potrebbero provocare effetti ancora più negativi, mentre un intervento di sviluppo potrebbe salvare dalla trappola della liquidità.

Da ultimo, le richieste del nuovo governo di Alexīs Tsipras preoccupano seriamente la BCE, la Troika, ma soprattutto la Germania. Dal giorno della sua vittoria elettorale, il 25 gennaio, il nuovo governo greco anti-austerità sfida prepotentemente gli imperativi di rigore provenienti da Francoforte, Washington e Berlino,  con un incalzare di eventi che preoccupa i mercati finanziari: a partire dalla conferma del Premier greco che si dice pronto a rispettare il programma elettorale; la decisione del 4 febbraio della BCE di non accettare i titoli greci come garanzia della liquidità accordata alle banche elleniche; il viaggio europeo del ministro delle Finanze, che, soprattutto con il suo omologo tedesco Schaeuble, non sembra affatto aver raccolto gli sperati frutti; il vertice straordinario dell’Eurogruppo dell’11 febbraio in cui sembra si sia aperta una piattaforma su cui lavorare ad un possibile accordo e che si è concluso il 20 con una decisione che lo stesso Tsipras ha definito storica, grazie all’estensione di quattro mesi del prestito europeo, vincolato però ad un programma di riforme di cui le istituzioni europee dovranno valutare l’efficacia.

Soltanto dopo una verifica del programma di riforma, Atene riceverà il denaro, intanto Tsipras conferma che il suo mandato elettorale è fermare l’austerity e ristrutturare il debito greco – secondo il Programma di Salonicco – questione che, a parere del Premier ellenico, è un problema politico piuttosto che economico. Il debito greco, ormai salito oltre il 180% per PIL, è in mano, per il 15% al settore privato, per 65% agli altri paesi dell’Eurozona e, per il restante 20%, al Fondo monetario internazionale e alla BCE, le quali non permettono la ristrutturazione del debito. L’economista greco Yiannis Mouzakis spiega che gran parte dei soldi ricevuti da Atene non siano stati utilizzati per risanare il bilancio, bensì per ricapitalizzare le banche greche e, soprattutto, per saldare i debiti con i creditori privati, in gran parte istituti bancari tedeschi e francesi. Quindi la stragrande maggioranza degli aiuti della Troika sono stati destinati, in maniera diretta o indiretta, al settore finanziario nazionale ed estero, in particolar modo alle casse di banche tedesche che in due anni (tra il 2010, anno in cui è stata erogata la prima tranche di aiuti, e il 2012) sono riuscite a ridurre la propria esposizione nei confronti della Grecia dell’80%.

Dopo il cosiddetto colpo di stato finanziario del 4 febbraio, come l’ha definito l’economista francese Michel Husson, per il momento le quattro principali banche greche sopravvivono grazie al rubinetto dell’ELA (Emergency Liquidity Assistance). Infatti, dei 56 miliardi che a dicembre dello scorso anno la Grecia doveva all’Eurosistema, solo 8 miliardi erano garantiti da titoli greci, quindi la reazione della BCE di non accettare i titoli greci in garanzia non sembra per il momento creare altri problemi.

Ma la Grecia rimane comunque sotto pressione: il vaglio delle riforme greche per accedere alla dilazione di quattro mesi e i cadenzati Consigli direttivi della Banca centrale europea tengono sotto smacco Atene, perché non bisogna dimenticare che le riforme dovranno convincere lo scettico Schauble, mentre i fondi Ela vengono erogati con decisione totalmente discrezionale della BCE e, sulle prossime erogazioni, Weidmann ha già espresso dubbi sull’opportunità di continuare a sostenere le banche greche.

Intanto Francoforte ha annunciato che l’Ela ormai diventerà il canale permanente di liquidità delle banche al posto del normale programma dell’Eurosistema, esponendo quindi le democrazie europee ad un grave rischio di deriva totalitaria in cui, stavolta, non sarebbero politici visionari a costruire modelli non autocratici di governo, ma i numeri della finanza, dietro la quale potentati senza volto, celati dall’inconsistente nebulosa della governance mondiale, potrebbero ricattare le democrazie.

Le riforme dunque, e non più l’austerity, sembrano essere le uniche vie d’uscita dalla crisi. La Grecia dovrà a brevissimo varare un consistente piano a cui Tsipras è già a lavoro, mentre l’Italia ha già fatto la sua parte con la riforma fiscale, anche se di questa mancano alcuni decreti legislativi, il jobs act, la riforma della giustizia. A breve arrivano le liberalizzazioni e la riforma delle banche popolari è già legge. Ma molto manca ancora da fare: ridurre la corruzione, rilanciare la produttività e una formula efficace per aumentare liquidità, su cui si starebbe studiando l’ipotesi di costituzione di una bad bank pubblica per aiutare gli istituti di credito con il deterioramento del credito. Certo che riforme strutturali così importanti e profonde dovrebbero essere fatte con un consenso più ampio e la condivisione parlamentare che una seria responsabilità politica impone. Perché, pur se è vero che la nostra forma di governo parlamentare stia sempre di più abbandonando la vecchia e malsana degenerazione assembleare che ha impantanato l’Italia per l’intera prima Repubblica, è anche vero che la nostra Costituzione non prevede un governo presidenziale quale ultimamente sembra essersi delineato grazie all’abuso del disposto costituzionale sulla decretazione d’urgenza e la delega legislativa.

A questo punto, la prima riforma da fare dovrebbe essere quella della forma di governo, e certo non nelle forme in cui è ora attualmente all’esame del Parlamento, bensì in direzione di un rafforzamento sostanziale del premierato al fine di conferirgli anche una regolamentazione costituzionale e non soltanto una roccaforte politica, cui si vuole giungere con le scelte maggioritarie della legge elettorale e lo svuotamento di ogni funzione legislativa e di bilanciamento della seconda Camera.

Nel frattempo è l’Europa che controlla i nostri conti, l’Ocse che decide della bontà delle nostre riforme e l’FMI che suggerisce le politiche economiche da attuare. Si dovrebbe ricordare, almeno sporadicamente, che il primo articolo della nostra Costituzione declama la sovranità popolare, caposaldo di tutte le democrazie, la cui etimologia viene presa in considerazione soltanto nei discorsi di qualche politico che vuole arraffare consensi attraverso una facile demagogia. Infatti, ben ci si ricorda dei cittadini quando si deve presentare loro il conto. Perché, quando la finanza sbaglia i conti, è l’economia reale a pagare.

E questo la società civile l’ha capito bene, visto che, i cittadini, ad Atene, votano Tsipras, a Roma, scendono in piazza per sostenerlo.

Intanto, Varoufakis allerta l’Italia con un twitter con cui racconta di alcuni funzionari italiani che gli avrebbero confessato del rischio default del nostro Paese,  il Ministro Padoan prontamente risponde che i nostri conti sono saldi, Tsipras chiama Renzi per ringraziarlo dell’intercessione italiana durante l’Eurogruppo. E le clausole di salvaguardia, riforme o meno,  sono lì pronte a scattare

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