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Sala StampaPericolosa la sindrome cinese di Di Maio

Pericolosa la sindrome cinese di Di Maio

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Articolo di Giangiacomo Calovini apparso originariamente su “La Provincia” di Cremona il 24 settembre 2018.

Come spesso accade in questo paese, dove le polemiche contano più dei contenuti, la visita istituzionale di Luigi Di Maio in Cina è finita alla ribalta dei giornali quasi esclusivamente per la scelta del Vice Premier di viaggiare in classe economica. Poco o nulla invece è stato scritto sullo stato delle relazioni tra i due paesi, sul contenuto degli accordi firmati e su qualche contraddizione che è emersa all’indomani della missione del titolare dello sviluppo economico italiano.

Innanzitutto è giusto chiarire che l’Esecutivo guidato dal Presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha deciso legittimamente di puntare molto sul paese asiatico: già il 20 agosto scorso infatti, il MISE annunciò la creazione di una Task Force composta dal leader del movimento cinque stelle affiancato dal sottosegretario Geraci, una figura legata a Pechino da molti anni e da molteplici interessi.
Logico quindi che i due rappresentanti governativi siano, a distanza di venti giorni, volati verso il gigante asiatico per incontrare i più alti vertici cinesi, cosa peraltro già fatto anche dal Ministro dell’Economia Tria per sondare, dicono i maligni, le reazioni del governo di Pechino in merito all’idea di vendere un po’ di debito pubblico italiano.

Ciò detto, l’ottimismo che i rappresentanti governativi ostentano durante le trasferte nel paese della Grande Muraglia stride con l’atteggiamento -ben differente- dei nostri principali partner europei.
Nei mesi scorsi 27 dei 28 ambasciatori europei (Italia compresa) presenti a Pechino, hanno firmato una missiva indirizzata agli uffici che contano in quel di Bruxelles. Il contenuto è tutt’ora avvolto dal mistero ma un diplomatico tedesco ha rivelato che il messaggio era un allarmante fotografia su come Pechino si stia muovendo in modo spregiudicato al di fuori dai propri confini.
Il piano di investimenti che Pechino ha adottato in Africa da qualche anno è sotto gli occhi di tutti: nei giorni scorsi XI Jinping ha convocato a Pechino 50 presidenti di paesi Africani promettendo loro la non indifferente cifra di 60 miliardi di dollari. A ciò va aggiunto il fatto che Pechino ha stanziato a Gibuti un contingente militare proprio, sottolineando come gli interessi in quel continente non siano esclusivamente  economici ma anche geopolitici.
L’atteggiamento spregiudicato cinese pare ora spostarsi anche in Europa e la notizia dovrebbe, almeno in parte, allarmarci. Solamente nei Paesi Balcanici Pechino, sostituendo quello che colpevolmente Bruxelles non ha fatto, ha speso negli ultimi anni 6 miliardi di dollari in investimenti infrastrutturali; le condizioni però sembrano essere molto favorevoli al paese asiatico poiché buona parte di quanto costruito viene direttamente o indirettamente gestito proprio da Pechino.

Vi è, infine, qualche considerazione da fare anche sul tema dei diritti umani che un paese come il nostro non dovrebbe mai dimenticare. Siamo ben consapevoli del fatto che la “real politik” abbia quasi sempre la meglio sull’etica, ma non possiamo dimenticare che Pechino neghi ancora oggi la libertà di culto dentro i suoi confini: i bambini cattolici non possono professore il loro credo in nome dell’ateismo e la Bibbia dall’aprile scorso non può essere venduta. Non possiamo altrettanto dimenticare che la Cina abbia installato postazioni militari sulle isole contese con il Giappone e che, ancora oggi, persegua una politica aggressiva nei confronti di un baluardo della democrazia in oriente come Taiwan, paese che è riuscita a far estromettere persino dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Nessuno, per carità, afferma che Pechino sia un pericolo o come tale debba essere trattata, bisogna però avere la fermezza e la lucidità per sedersi ai tavoli economici consapevoli di rappresentare un paese con una storia, una capacità imprenditoriale e, soprattutto, dei valori non negoziabili.

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