Negli interventi pubblici rilasciati a partire dall’attacco terroristico del 7 ottobre scorso, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha ribadito più volte alcuni concetti, che stanno alla base della risposta israeliana a Gaza. Anzitutto, il principio che vede Israele come paese colpito ed entrato in guerra “non per sua volontà”. Nella netta contrapposizione con il mondo palestinese incarnato da Hamas, le forze israeliane vengono equiparate dal premier alle forze del bene e della civiltà contro la barbarie fatta di “fear and darkness” (così nel discorso del 29 ottobre alla stampa estera).
Secondo questa logica manichea, si entra appieno nel dominio schmittiano del contrasto tra amici e nemici – categoria sostanziale della politica che si esacerba in tempi di guerra – ma anche dello scontro tra civiltà inconciliabili, nel solco di Samuel P. Huntington. A suggellare tale concetto è stata evocata anche l’idea di un nuovo “asse del male”, coincidente con le alleanze che vedono coinvolti l’Iran, Hezbollah e gli Huthi in Yemen. E infine, l’equiparazione tra Hamas e lo Stato Islamico: si tratta in fondo della stessa cosa, secondo il premier israeliano. In realtà, gli elementi che distinguono i due gruppi sono molti e sostanziali, pur in una comunanza di altri fattori.
Anzitutto, occorre partire dallo “Statuto” di Hamas, elaborato alla nascita del gruppo terroristico nel 1987, che nelle scorse settimane è stato evocato in molte occasioni. Cosa dice e in cosa si differenzia dai principi dell’IS? Il primo articolo fissa il principio-giuda dell’azione di Hamas, che non è quello semplicemente della riconquista della Palestina, ma di una lotta che coincide col jihad da attuarsi in nome della religione e per le pretese territoriali: “la base del Movimento di Resistenza Islamico è l’Islam”. Vi è poi l’identificazione del gruppo nella tradizione politica della Fratellanza Musulmana, in un chiaro recinto storico-ideologico che affonda le sue radici nei principi dell’Islam politico. Si fissa così il principio di una spazialità e di una concezione temporale teoricamente illimitati, essendo “Allah lo scopo, il Profeta il suo modello, il Corano la costituzione e il jihad il metodo”, ma più praticamente definiti nazionalmente. Il riferimento ideale è infatti sì l’estensione “nelle profondità della Terra” e fino alle “nelle sfere più alte dei cieli” (art. 5), ma anche strettamente nazionale, contrariamente alla visione dell’IS. Hamas si percepisce come un anello del jihad globale, non vantando così pretese di primazia su altre organizzazioni, con l’obiettivo di portare la bandiera di Allah “su ogni metro quadrato della Palestina”, unica garanzia per la pacifica coesistenza tra tutti i popoli.
In questo sta un distinguo fondamentale con lo Stato Islamico, che nella sua pretesa universalistica e globale si è sempre posta come organizzazione di riferimento del mondo sunnita, senza lasciare alternative a sé in una logica strettamente imperiale. Hamas, al contrario, riconosce la legittimità di azione di altre organizzazioni jihadiste su altri territori, a patto che “non siano alleate con l’Ovest crociato o l’Est socialista” e “gli Stati arabi – si sostiene all’art. 27 dello Statuto – devono aprire i loro confini ai combattenti, ai figli dei popoli arabi e islamici, per permettere loro di svolgere il loro ruolo, e di unire i loro sforzi a quelli dei loro fratelli, i fratelli musulmani della Palestina” al fine di combattere il comune nemico israeliano. La stessa OLP viene vista come organizzazione sorella, anzi: i suoi membri sono considerati “fratelli e padri”, poiché con essi si condivide la “stessa patria, la stessa tragedia, il medesimo destino” e “un comune nemico”. Il vero distinguo tra OLP e Hamas non è tanto nel riferimento territoriale (l’OLP in Cisgiordania, Hamas a Gaza), quanto nel fatto che l’organizzazione oggi guidata da Mahmūd ʿAbbās avesse in mente uno Stato laico, distante dalla concezione propria di Hamas, fondata anzitutto sulla visione religiosa.
Per Hamas la “liberazione della Palestina” deve avvenire seguendo quelli che vengono definiti i “tre circoli”, tre scale di intervento geografiche, che devono agire all’unisono: il primo anello è quello palestinese, poi quello arabo e infine, in un allargamento ulteriore dell’orizzonte di riferimento, quello islamico. Queste rappresentano le tre scale di riferimento dell’azione anti-sionista elaborata da Hamas. Al contrario, la comunicazione dell’IS si è rivolta molto di più contro il mondo occidentale e “desacralizzato”, rappresentato anzitutto dagli Stati Uniti, e ai popoli della “croce”, incarnati anzitutto dal contesto italiano e quello europeo più in generale. La lotta dello Stato Islamico non è mai stata di tipo nazionalistico, intendendo il jihad solo alla scala internazionale e vedendo le guerre locali solo come tappe “intermedie” dell’affermazione del Califfato su scala globale.
Qui sta il maggior elemento di distinzione tra i due organismi jihadisti: da una parte Hamas che interpreta la sua lotta come prettamente nazionalistica, sulla base dell’appartenenza alla Fratellanza Musulmana: in tal senso, il nazionalismo viene inteso come “parte legittima del credo religioso” (art. 12), fatto non solo di elementi territoriali ma anche di riferimenti divini e storici, primo tra tutti la rivendicazione della Moschea di Al-Aqsa, la terza per importanza nel mondo islamico, a Gerusalemme Est. Ecco perché per Hamas la lotta per la liberazione della Palestina risulta di vitale e cruciale importanza: cedere una parte della Palestina significherebbe cedere anche una “parte della religione”. Perciò la liberazione della Palestina è un “dovere morale” che unisce appieno il piano religioso e quello politico, poiché è stata destinata ai musulmani “fino al giorno del giudizio” (art. 11).
Per lo Stato Islamico il nazionalismo va invece eradicato e sconfitto come un male assoluto, poiché la scala di riferimento dello Stato Islamico è prettamente quella globale: ne offre una vivida testimonianza il suo nome, cambiato nel corso del tempo, passando da una connotazione definita nazionalmente (ISI – Stato Islamico dell’Iraq, dove è nato), a una più estesa (IS – Stato Islamico dell’Iraq e della Siria), a una ancora più ampia (ISIL – Stato Islamico dell’Iraq e del Levante) fino a quella definitiva che si richiama apertamente all’esperienza del Califfato e dello Stato Islamico tout court senza confini. Il nazionalismo mina infatti l’unità della Umma, la comunità islamica sparsa nel mondo. Nella propaganda del Califfato si è più volte ribadito tale concetto. In particolare, nel video del centro mediatico Al Hayat dal titolo “No Respite” si fa riferimento alle differenti provenienze geografiche, “United by Islam” ben al di là delle divisioni nazionalistiche. Così come si mostra un jihadista schiacciare la scritta “nationalism”, su cui viene issata la bandiera nera del Califfato.
Un altro simbolo della lotta contro la dimensione nazionale è uno dei riti di passaggio richiesti al momento del giuramento di fedeltà allo Stato Islamico: bruciare il proprio passaporto. Si tratta di un atto altamente metaforico che sta a simboleggiare non solo il rifiuto della propria identità nazionale quale parte di un complesso internazionale rigettato in toto (qui il parallelismo con Hamas è cogente), ma anche l’ineluttabilità della scelta e l’impossibilità di tornare indietro. Il nazionalismo ha anche prodotto le suddivisioni volute dall’Occidente nel contesto vicino e mediorientale: il riferimento storico più evocato dalla propaganda del Califfato come male originario è agli Accordi di Sykes-Picot del 1916, richiamati nello stesso video propagandistico, che videro la sostanziale spartizione dei territori tra Iraq e Siria tra la potenza britannica e quella francese.
Hamas si richiama inoltre a categorie politiche contingenti alla pubblicazione del proprio statuto, nel 1987: uscir fuori dalla dicotomia liberalismo-socialismo, che rappresentano i due poli di riferimento culturale dell’Occidente e dell’Oriente, formando un “terzo polo” incardinato nella religione e volto a ripristinare la supremazia dell’Islam quale garante dell’ordine in senso regionale e globale è uno degli obiettivi dichiarati dal suo statuto. Nel quale si sancisce anche il rifiuto per tutti gli organismi internazionali e sovrannazionali e le conferenze di pace, ritenute una perdita di tempo e “giochi da bambini” (in ciò collimando con la visione dell’IS), mentre il vero cardine della pace sarebbe rappresentato dalla vittoria del fronte islamico: “non c’è soluzione alla questione palestinese se non il jihad”. In tal senso, si evoca un ordine coincidente con la sharia e con la sottomissione delle altre religioni, “all’ombra dell’Islam” (art. 6). Poiché – citando lo stesso articolo – «è quando l’islam è assente che nasce il disordine, che l’oppressione e la distruzione si scatenano, e che infuriano guerre e battaglie» (sic).
L’equiparazione tra Hamas e Stato Islamico, sebbene possa avere un qualche senso in ottica comunicativa e contrappositiva – come vuole qualsiasi logica politica –, avendo una scarsa aderenza storico-ideologica rischia infatti di mostrare le sue debolezze e contraddizioni, ottenendo paradossalmente l’effetto opposto a quello desiderato. È invece necessario – e deve farlo anzitutto la comunicazione esterna al conflitto, teoricamente imparziale – osservare tali fenomeni geopolitici con il necessario sguardo analitico.