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Perché “Califfato” è una serie imperdibile (e perché dovrebbe esserci una seconda stagione)

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Va detto subito. “Califfato” è una serie tv che va vista, per molteplici motivi. È un thriller di produzione Netflix, incentrato sul processo di radicalizzazione immaginato nel contesto della società svedese e sul reclutamento di foreign fighters pronti a colpire in nome dello Stato Islamico [No spoiler]. 

Ottimo thriller – Il primo merito della serie è che si lascia vedere davvero come un ottimo thriller. Non ci sono mai flessioni nella storia narrata. La tensione è tenuta costantemente alta da un’ottima sceneggiatura che non si perde in inutili fronzoli e che va dritta al punto della storia. Califfato ha così il pregio di riservare allo spettatore continui colpi di scena, che impongono una visione attenta e gradevole dove – anche con qualche dettaglio narrativo e di montaggio non perfetto – risulta tutto molto scorrevole, convincente e avvincente.

Le geografie di Califfato – La serie si svolge nel settembre del 2015 su due scenari principali: quello svedese, dove agisce Ibbe, affiliato dell’Isis pronto a colpire in Europa e a reclutare futuri jihadisti e foreign fighters, e quello della capitale siriana dell’Isis, Raqqa, dove una coppia di giovani si è trasferita proprio dalla Svezia e ha giurato fedeltà al Califfato. Le due vicende si mescolano e hanno il loro perno nell’agente dei servizi segreti svedesi, Fatima, che cerca di anticipare le mosse dell’intelligence agendo spesso in maniera indipendente, per tentare di sventare gli attacchi organizzati dall’Isis. Le due geografie, nella serie, convergono, rispondendo perfettamente alla logica politica – e geopolitica – del Califfato, che più volte abbiamo rimarcato mettendone in luce il suo carattere di fondola globalità dell’azione, il suo spingersi al di là dei confini nazionali in una continua tensione verso un’azione senza quartiere, sulla base dei dettami religiosi ben descritti. 

Il Califfato visto dalle donne – È interessante la chiave di lettura data: storie diverse che si intrecciano e che hanno il loro comun denominatore nella centralità di diverse figure femminili. Sono personaggi diversi tra loro: vi è Fatima, l’agente che si intestardisce con proprie indagini e che ha un grande intuito e Pervin, la sposa di un jihadista che si ritrova coinvolta in un contesto più grande di lei, quello di Raqqa. E poi Sulle e Lisha, che mostrano caratteri particolari e una certa repulsione per la società svedese e la madre, che nasconde una vaga simpatia per l’Isis. La loro amica è Kerima, figlia di un uomo violento e alcolizzato, sveglia e simpatica, che si infatua del giovane jihadista Ibbe e delle sue convinzioni. Tutto ruota attorno a loro, donne e giovani che esprimono le diverse e credibili possibilità dell’innesto del jihadismo nella società europea e delle sue più brutali espressioni in Siria. Nella caratterizzazione di Fatima la serie ricorda molto un’altra produzione di successo – che pure consigliamo –, Homeland, la cui protagonista, Carrie Mathison, è un’agente della CIA, anche lei autonoma, dal carattere problematico ma molto forte. 

Racconta fatti verosimili – Il produttore della seria, Wilhelm Behrman, pare essersi ispirato alla foto scattata all’aeroporto di Gatwick, che ritraeva nel febbraio del 2015 tre ragazze inglesi intorno tra i 15 e il 16 anni pronte a partire per la Siria per affiliarsi all’Isis. La dinamica narrata nella serie è esattamente quella che ha riguardato i migliaia di più e meno giovani che si sono radicalizzati in Occidente, nelle sue due principali diramazioni: giovani appartenenti alle seconde generazioni di immigrati, di origine anche musulmana, ma che nelle società più secolarizzate – dove si sono persi i punti di riferimenti esistenziali – trovano un riempimento a quel vuoto esistenziale nell’idea forte del Califfato, che regola la vita personale e ne dà un senso di ritorno alle origini, sebbene in una direzione tragica e distruttiva. Non solo: parla anche di chi ha una vita regolare ma che intenderà trovare la propria ragione esistenziale nell’affiliazione all’Isis. Sembra in questo ricalcare le decine di storie raccontate dalla propaganda del Califfato.

Il jihad come parte del disagio? – Secondo alcuni autori – in particolare Olivier Roy – la radicalizzazione jihadista in Occidente sarebbe un processo relativo prevalentemente al disagio sociale. L’islamista francese parla a questo proposito di una “islamizzazione della radicalità”. La serie racconta questo fenomeno nella descrizione di due fratelli svedesi violenti e disagiati, uno dei quali si è radicalizzato in carcere, uno dei luoghi simbolo della radicalizzazione in Europa, e nei giovani che nella società occidentale non trovano alcun appiglio esistenziale. In questo affiora anche una critica di fondo alla società svedese, al suo essere e alla sua incapacità di offrire valide alternative esistenziali al jihadismo. Quanto descrive Roy – e che si ritrova nella serie ben espresso – è certamente vero, ma è solo parziale: lo snodo cruciale, infatti, è rappresentato da quanti, come Ibbe, sono davvero radicalizzati pur avendo un lavoro regolare, essendo integrati in Occidente, ma che riescono a esprimere e a trasmettere la loro convinzione ai futuri jihadisti, trovando proprio nel disagio un terreno fertile alla loro propaganda. Una delle vicende che meglio racconta l’antitesi alla visione di Roy è quella di Abu Muslim, un giovane canadese che, più o meno al pari di Ibbe, racconta inquesto video della sua perfetta integrazione nella società canadese, del suo essere una “persona regolare”, con un lavoro stabile e passioni normali: sarà un jihadista ucciso sul fronte siriano, considerato un martire dallo Stato Islamico. 

Rifugge il politically correct  Califfato è una serie che ha il vantaggio di fuoriuscire dagli schemi classici con i quali i media occidentali hanno spesso descritto il fenomeno del terrorismo di matrice islamica e della radicalizzazione – per il timore di darne un eccessivo rilievo mediatico, per convinzioni ideologiche o per sottovalutarne volutamente e strategicamente la portata –, smontando la falsa retorica dei lupi solitari o dei folli che agiscono senza motivo. Quello che la serie racconta è avvenuto in moltissime città europee e non solo, producendo quella spirale del terrore che ha sconvolto il mondo negli ultimi anni, le vite di molti di noi e, per molti versi, le stesse società occidentali nel loro complesso. In questa narrazione non si tralascia di raccontare la violenza perpetrata nel contesto del Califfato contro le donne, la possibilità di ripudiarle in ogni momento, la violenza carnale, verbale e fisica usata contro di loro. Si rifugge cioè quella ipocrita narrazione – spesso basata più sulla convinzione del narratore che su fatti reali – secondo la quale anche in quelle realtà, che nulla hanno a che vedere con i diritti delle donne, vi sarebbe un certo grado di autonomia femminile, anche nella costrizione del velo nelle sue diverse sfaccettature. 

La serie racconta, in altre parole, la realtà così com’è, senza filtri interpretativi e senza indugiare in relativismi capaci di cogliere solo parte del problema e che spesso non aiutano a sradicarlo.Per questo Califfato è una serie consigliata a tutti, non solo a quanti si sono occupati in questi anni di Stato Islamico: perché aiuta a comprendere la realtà che non appartiene solo a contesti regionali distanti ma anche tragicamente vicini e che vale la pena conoscere nei suoi diversi aspetti per contrastarla al meglio. Ecco perché speriamo che ci sia una prossima stagione.

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