0,00€

Nessun prodotto nel carrello.

0,00€

Nessun prodotto nel carrello.

TematicheMedio Oriente e Nord AfricaPakistan, l’attività del governo Khan a contrasto del jihadismo.

Pakistan, l’attività del governo Khan a contrasto del jihadismo.

-

Uno dei momenti più salienti del vertice della Shanghai Cooperation Organization (SCO) tenutosi a Bishkek, Kyrgyzstan, il 14 e 15 giugno 2019 è stato l’incontro tra Narendra Modi e Imran Khan. Ciò ha rappresentato un’ulteriore occasione per risolvere la crisi diplomatica tra India e Pakistan seguita all’incidente di Pulwama del febbraio scorso. A partire da questo evento Narendra Modi si è mostrato restio al dialogo con la controparte pakistana in mancanza di prove tangibili su una decisa presa di posizione del Pakistan nell’opporsi alla proliferazione incontrollata e all’attività di gruppi jihadisti di base nel suo territorio impegnati in attività transfrontaliere. 

 

Imran Khan, di fronte alla possibilità di impegnarsi effettivamente in tal senso, si è trovato sin da subito ostacolato dall’alto costo politico a livello interno che tale scelta comporterebbe, in quanto necessiterebbe di un vero e proprio cambiamento ideologico negli alti vertici del paese, soprattutto quelli militari. 

L’ideologia del Pakistan è infatti profondamente condizionata dalla convinzione che la propria integrità sia costantemente minacciata dal più grande vicino indiano. Questa credenza, sebbene abbia plasmato l’ideologia del paese sin dalle sue origini, ha trovato in parte la sua giustificazione durante la guerra indo-pakistana del 1971. Questo scontro bellico, oltre ad essersi concluso con la più grande sconfitta subita dal Pakistan in una guerra convenzionale, mostrò anche l’evidente inferiorità militare pakistana rispetto alla controparte indiana rendendo perciò ancora più prioritaria la questione della sicurezza nazionale. 

Impossibilitato a un confronto armato di tipo convenzionale con l’India, l’establishment militare pakistano delineò quindi già dai primi anni ’70 una strategia che pone la necessità di rendere l’India debole o in un costante stato di caos mediante attacchi al confine di proporzioni circoscritte, quale unico modo per salvaguardare la propria sicurezza. 

Questa strategia, denominata far sanguinare l’India da mille tagli (Bleed India with a Thousand Cuts), consiste in una guerra per procura condotta mediante una collaborazione con diversi gruppi jihadisti impegnati in attività transfrontaliere sfruttando i sentimenti religiosi e suscitando passioni su linee comuni e settarie sia in patria che oltre il confine. L’uso indiretto di gruppi militanti garantisce allo stato pakistano una facile negazione delle proprie responsabilità in caso di attacco di uno di questi gruppi in territorio indiano, risultando inoltre estremamente funzionale al paese nel superare il suo limitato peso geopolitico. 
Per questo motivo la notizia di 13 campi d’addestramento jihadisti chiusi nel Kashmir apparsa durante il vertice di Bishkek ha suscitato molta sorpresa nei media indiani. 

La decisione di Khan non è stata però delineata da preoccupazioni di possibili rappresaglie militari indianequanto dalla necessità di rallentare se non fermare l’indisturbato proliferare delle attività dei gruppi già menzionati in Pakistan dettata dal timore che la continuazione di questo stato di cose potesse spingere la comunità internazionale a pressioni di tipo economico sul Pakistan nel lungo periodo. 
Questo timore appare particolarmente realistico soprattutto considerando che a maggio di quest’anno persino la Cina, politicamente e strategicamente molto vicina al Pakistan e spesso portavoce delle sue istanze in ambito internazionale, abbia deciso di ritirare la sua opposizione nell’inserire il nome di Masood Azhar, capo del Jaish-e-Mohammednella lista dei terroristi pubblicata dalle Nazioni Unite, rappresentando di fatto un punto di svolta storico nella geopolitica regionale. 

È però lecito domandarsi se il timore pakistano di pressioni sulla sua economia cronicamente debole eserciterà una pressione sufficiente sulle sue dinamiche politiche che hanno reso i giri di valzer con vari gruppi jihadisti uno dei suoi elementi chiave, tale da rappresentare una vera e propria svolta sostanziale. 

Le pressioni economiche 

Il Pakistan soffre di una instabilità economica cronica, considerata da alcuni addirittura congenita, in quanto l’impari divisione dell’ex Raj britannico avrebbe assegnato la maggior parte degli asset economico finanziari e delle competenze per gestirli all’India privando il Pakistan delle risorse necessarie a sviluppare e gestire una solida economia nazionale, rendendolo in molte fasi della sua storia dipendente dall’aiuto economico esterno. La fragilità economica del paese si è acuita sempre più a partire dal 2010-11, da quando cioè il generoso supporto economico americano si è progressivamente ridotto. Questa riduzione è aumentata soprattutto con l’inizio dell’amministrazione Trump, che ha accusato il Pakistan di rappresentare una vera e propria “oasi per terroristi e gruppi jihadisti”, e che negli anni, in cambio di aiuti per un valore totale di circa 33 miliardi di dollari non hanno fornito altro che “menzogne e inganni”. 

Una progressiva riduzione degli aiuti economici statunitensi, per un’economia già di per  debole e poco dinamica, ha spinto più volte quest’ultima sull’orlo della stagnazione. Persino con il nuovo governo Khan, in carica dall’agosto 2018, l’economia non mostra sostanziali segnali di ripresa. 

In ciò si inseriscono iniziative diplomatiche pakistane necessarie a migliorare la propria immagine a livello internazionale per evitare l’isolamento economico, anche se queste si scontrano necessariamente con i gruppi jihadisti precedentemente sostenuti dal governo e con il quale hanno continuativamente collaborato, fattore che potrebbe acuire l’instabilità interna. 

Ad esempio, l’amministrazione Khan ha recentemente intensificato gli sforzi diplomatici per evitare che il Pakistan venisse inserito nella lista nera del Financial Watch Task Force (FATF), organizzazione internazionale che si occupa di monitorare e promuovere un’efficace attuazione di misure legali, normative e operative per combattere il riciclaggio di denaro, il finanziamento del terrorismo e altre minacce correlate all’integrità del sistema finanziario internazionale, in occasione della riunione plenaria del 2019 che si è tenuta a Orlando, Stati Uniti, dal 16 al 21 giugno. 

Il report del FATF illustra come dal giugno 2018, contemporaneamente all’impegno del Pakistan nel collaborare con il FATF per affrontare le sue carenze strategiche relative al finanziamento del terrorismo, siano già stati raggiunti ampi traguardi. Nonostante ciò, persistono ancora molteplici aree sulle quali intervenite. Per questo motivo il FATF ha sollecitato il Pakistan a completare rapidamente il suo piano d’azione entro ottobre 2019. 

Nonostante la già citata notizia di chiusura governativa di 13 campi d’addestramento jihadisti, il timore di ripercussioni economiche non ha però ancora sortito alcun cambiamento visibile e permanente nella politica tradizionale pakistana, soprattutto nella sua cooperazione con gruppi quali il Lashkar-e-Taiba Jaish-e-Mohammed 

Già in passato furono intraprese azioni simili di contrasto a campi di reclutamento e addestramento jihadisti, ad esempio durante il governo Musharraf nei primi anni 2000, ma si trattò di misure momentanee e non durature, che giovarono di una pressione internazionale indecisa e non sostenuta che consentì al Pakistan di tornare a perseguire la sua politica di collaborazione con i suddetti gruppi. 

 Soluzione al problema jihadista 

Nell’ultimo decennio l‘approccio a breve e medio termine adottato dall’establishment militare pakistano, che influenza in maniera decisiva le decisioni del governo, è stato quello di convincere il mondo della necessità di integrare i gruppi jihadisti nella politica pakistanaCiò è motivato sostanzialmente dal fatto che, poiché questi gruppi hanno radici profonde nella società pakistana, e che potrebbero rappresentare un mortale pericolo per quest’ultima se non opportunamente cooptati, un’opzione migliore è quella di impegnare l’attenzione e gli sforzi di questi gruppi verso attività diverse dalla militanza, quali il welfare sociale o la politica.  

Questa particolare strategia politica è stata tentata con il Lashkar-e-Taiba ma non ha funzionato con Jaish-e-Mohammed, un’organizzazione molto chiara sul suo impegno verso il jihad. Il fatto che le agenzie di sicurezza governative evitino persino di arrestare il suo leader, Masood Azhar, indica che il problema è più profondo, se non addirittura fuori controllo. Continuare ad affermare che i jihadisti rappresentino una minaccia, e che sarebbe meglio integrarli piuttosto che combatterli, è problematico. Permettere loro di continuare indisturbati nel proselitismo jihadista o lasciare che si mescolino nella società senza alcun controllo sul loro messaggio ideologico è una formula pericolosa. 

Le pressioni finanziarie sono efficaci solo se supportate dalla creazione di politiche giuste, quali l’introduzione nel paese di un sistema più di antiterrorismo più efficace e trasparente. 

Data la pressione, la comunità internazionale, in particolare la Cina, potrebbe convincere il Pakistan a riconsiderare le sue opzioni, per guidarlo attraverso un riallineamento strategico e politico
Per l’India, l’obiettivo non dovrebbe essere l’annientamento del suo vicino, ma una normalizzazione dei rapporti troppo a lungo rimandata.  

Corsi Online

Articoli Correlati

La Meloni in Tunisia: supportare il Paese nordafricano per fermare i flussi migratori

La premier italiana, Giorgia Meloni, si è recata ieri, 6 giugno, in visita ufficiale in Tunisia, dove ha incontrato...

Erdoğan vince. Una prima analisi

Il Presidente uscente, Recep Tayyip Erdoğan, si riconferma alla giuda del Paese avendo raccolto il 52,16% dei voti con...

La doppia vita di Alireza Akbari: perché si torna a parlare di lui?

Il 14 gennaio 2023 l’agenzia di stampa della magistratura iraniana Mizan ha riportato l’avvenuta esecuzione di Alireza Akbari, cittadino...

Kılıçdaroğlu e la minoranza alevita in Turchia. Storia di un riscatto, nonostante il nazionalismo

“Per i miei genitori non importa se Kemal Kılıçdaroğlu vincerà le elezioni oppure no. Il fatto che un alevita...