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TematicheAfrica SubsaharianaQuale pace per il Sud Sudan?

Quale pace per il Sud Sudan?

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Giovane e ricco, ma con un PIL pro capite tra i più bassi del mondo. È il Sud Sudan, il paese nato con la proclamazione dell’indipendenza dal vicino Sudan solamente undici anni fa. Pur essendo seduti su un terreno che abbonda di petrolio, uranio e ricercatissime terre rare, i Sud sudanesi sono, infatti, tra gli uomini più poveri al mondo. Ma, soprattutto, dal 2011 ad oggi gli abitanti del paese hanno visto più anni di guerra che di pace: un circolo vizioso di conflitti e povertà, cui le Nazioni Unite stanno cercando di mettere fine insieme con Sant’Egidio – “l’ONU di Trastevere” – gli USA, il Regno Unito e la Norvegia.

Il cappello del Presidente: l’indipendenza e la guerra civile

Lo si riconosce facilmente, il cappello texano assunto ormai come segno distintivo: Salva Kiir è stato Presidente del Sud Sudan quando il paese era solamente una regione autonoma e ne è Presidente ancora oggi che è uno Stato indipendente. Vice di John Garang, il “padre della patria”, alla morte di quest’ultimo, nel 2005, ha traghettato il paese verso l’autonomia, allacciando anche importanti rapporti internazionali; il già menzionato cappello, per dire, gli fu donato da George Bush nel 2006, dopo la firma degli accordi di pace che posero fine alla guerra civile in Sudan. 

Nel luglio 2011 Kiir assistette alla cerimonia della nascita del Sud Sudan accanto al Presidente sudanese Bashir, ma i festeggiamenti durarono poco. Il Sudan era un paese complicato, ma il giovane Stato non si è dimostrato da meno: due anni dopo l’indipendenza, infatti, Riek Machar, Vice di Kiir da prima del 2011, venne estromesso con l’accusa di aver pianificato un colpo di Stato, un episodio che trascinò il paese in un conflitto durato fino al 2018, mentre si continuava a negoziare un accordo di pace. Dal 2013, la guerra ha provocato circa 400.000 morti e 4 milioni di sfollati, di cui 2,5 milioni rifugiatisi nei paesi limitrofi. 

Sigle ed etnie contrapposte: il processo di pace

La strada verso un accordo di pace si è aperta nel gennaio 2014, a conflitto appena scoppiato, sotto gli auspici dell’IGAD (Intergovernamental Authority on Development) che riuscì a convocare ad Addis Abeba il governo del Sud Sudan e la coalizione di forze antigovernative. Un anno dopo venne firmato l’ARCSS (Agreement on the Resolution of the Conflict in South Sudan), ma nel 2015 l’accordo di pace era già naufragato. Nel 2018, grazie alla mediazione dell’Uganda e del Sudan, le parti sono infine giunte ad un nuovo accordo, l’R-ARCSS (Revitalised Agreement on the Resolution of the Conflict in South Sudan), che coinvolge sia il partito governativo SPLM (Sudan People’s Liberation Movement) che l’opposizione (SPLM- In Opposition). Tra gli impegni assunti, quello di indire le elezioni alla fine del periodo di transizione, nel dicembre 2022. Nel febbraio 2020 si è formato il Governo transitorio di Unità nazionale e tre mesi dopo è stato riaperto il Parlamento. Gli scontri sono diminuiti, ma l’accordo è fragile e la tregua non viene sempre rispettata. A pesare sul conflitto è, soprattutto, l’enorme diffusione di armi leggere fra la popolazione, ma anche la componente etnica: il Presidente Kiir e il Primo Vicepresidente Riek Machar appartengono, rispettivamente, all’etnia Dinka e all’etnia Nuer, le due più importanti del paese. Storicamente, i rapporti tra queste due popolazioni sono stati altalenanti; se da un lato le due etnie si sono contese spesso i pascoli e le fonti d’acqua per il bestiame, si sono spesso anche unite in matrimoni misti. Tuttavia, il cambiamento climatico – che ha reso più frequenti i periodi di siccità acuendo le contese per le risorse – e la progressiva etnicizzazione del conflitto hanno esacerbato la situazione, mentre si sono fatte più insistenti le accuse di gerrymandering, di voler cioè dividere amministrativamente il paese per assicurare il dominio di un’etnia sull’altra e il controllo delle risorse del sottosuolo. Tra i punti più caldi che si stanno affrontando nel processo di pace, quello dei confini delle unità amministrative è, infatti, il più scottante. Il recente scoppio della guerra in Ucraina, che ha spostato l’attenzione verso l’Europa, non ha fatto che aggravare la situazione: con la diminuzione degli aiuti umanitari e la crescita dell’inflazione, è aumentata anche la percentuale di persone che sopravvive quotidianamente grazie agli aiuti del World Food Program: più di sette persone su dieci. 

La sfida di Sant’Egidio: un accordo più inclusivo per una pace duratura

Un paese dimenticato e una guerra civile decennale: come il Sud Sudan, anche il Mozambico di trent’anni fa era caratterizzato da un conflitto – tra nazionalisti e comunisti – che aveva continuato a dividere il paese dopo la fine della Guerra Fredda. La firma della pace a Roma, nel 1992, nella sede di Sant’Egidio, segnò, per l’organizzazione di Trastevere, l’inizio di un impegno umanitario a favore del continente africano, da cui, più tardi, sarebbe nato l’interesse per il dossier sud-sudanese, quando la regione era ancora un unico Stato con il Sudan e nel Paese imperversava una guerra civile. 

Tuttavia, sebbene una delegazione dell’organizzazione fosse presente alle celebrazioni per l’indipendenza sud-sudanese nel 2011, durante le prime fasi del conflitto scoppiato nel 2013 Sant’Egidio non ha svolto un ruolo preminente. Da allora, però, “l’ONU di Trastevere” ha continuato a mantenere rapporti preziosi con una delle poche realtà apparentemente immune alle divisioni etniche del paese: il South Sudan Council of Churches (SSCC). E mentre i canali ufficiali cominciavano a muoversi sotto la guida dell’IGAD e della “Troika” (USA, UK e Norvegia), Sant’Egidio decideva di coinvolgere i vescovi sud sudanesi dell’SSCC. In un primo incontro a Roma nel 2019 i mediatori di Sant’Egidio li hanno accompagnati dal Papa, che si era interessato personalmente della questione. Poi, dopo pochi mesi, sono volati a Roma anche Riek Machar e Salva Kiir, per un ritiro spirituale insieme con l’SSCC, l’Arcivescovo di Canterbury e un rappresentante della Chiesa scozzese. A determinare un coinvolgimento ancora maggiore dell’organizzazione trasteverina nei negoziati ufficiali è stato, poi, il rapporto che quest’ultima intrattiene con il SSOMA, un altro gruppo di opposizione che si era rifiutato di firmare il trattato di pace (R-ACSS) ed era stato, pertanto, escluso dal processo negoziale. In tale gruppo confluiscono il National Salvation Front del Generale Cirillo, appartenente all’etnia degli Equatoriani, e Pa’gan Amum, uno dei leader dell’indipendenza insieme a Cirillo. All’inizio del 2020 Sant’Egidio è riuscita a a far sedere al tavolo delle trattative dapprima il governo e il SSOMA,  poi anche l’IGAD, la Troika, l’ONU e l’UE. Con la “Dichiarazione di Roma” del gennaio 2020, il SSOMA è stato riconosciuto come parte del processo, con l’avallo dell’IGAD. Da quel momento, l’azione di Sant’Egidio non è stata più vista come un processo “alternativo”, ma come parte integrante  del percorso che porta alla pace. 

Verso quale Sud Sudan?

Il 2022 avrebbe dovuto essere l’anno delle elezioni, ma il 4 agosto scorso Salva Kiir e Riek Machar, di comune accordo, hanno esteso di due anni il periodo di transizione. Una mossa necessaria ad arginare il rischio di una guerra – secondo il Presidente Kiir – che però non è stata vista di buon occhio dalla Troika. Già in precedenza, gli USA erano usciti da due gruppi di monitoraggio della pace “per mancanza di progressi”. E se nello stesso mese di agosto è stato raggiunto uno degli obiettivi dell’accordo del 2018, l’integrazione delle forze armate con gli ex soldati ribelli, sono ancora molti i fattori che continuano a destare preoccupazione. Da una parte, l’ampia diffusione di armi e il clima di violenza che l’ONU cerca di mitigare con un embargo sulle armi (tanto che i militari hanno giurato senza pistole); dall’altra, le tensioni latenti tra contadini e allevatori, esacerbate dal già citato cambiamento climatico.In questo scenario, nonostante le molte difficoltà che minano il processo di pacificazione, l’ONU continua ad insistere sulla necessità di implementare l’accordo di pace, mentre Sant’Egidio continua a lavorare sottotraccia, fedele al principio di “cercare ciò che unisce e mettere da parte ciò che divide” durante le mediazioni internazionali. Un impegno che – come spera la comunità internazionale – potrebbe replicare il successo del Mozambico e portare finalmente la pace nel Paese più giovane del mondo.

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