L’ultimo conflitto tra Israele e Striscia di Gaza risale al 2014, una campagna militare durata 50 giorni in cui morirono 72 israeliani e più di 2200 palestinesi. Il conflitto fu il risultato di una serie di eventi drammatici iniziata con il rapimento di tre adolescenti israeliani rapiti in Cisgiordania. Il canale HBO sta mandando in onda una serie televisiva che ricostruisce i fatti di alcuni di quei giorni, una serie che offre uno spaccato dettagliato sulla società israelo-palestinese che vive nell’area della Grande Gerusalemme.
Tutto inizia il 12 giugno 2014 quando Naftali Fraenkel, Gilad Shaer ed Eyal Yifrah vengono rapiti in Cisgiordania. Israele dà la colpa ad Hamas, che inizialmente nega. L’esercito israeliano (IDF) non offre prove, l’Autorità Nazionale Palestinese accusa un clan rivale di Hamas. Il leader di Hamas, Khaled Meshal, non conferma e non smentisce il coinvolgimento dell’organizzazione, ma si congratula con i rapitori. Le IDF lanciano l’operazione Brothers Keeper (traducibile con un “riportiamoli a casa”) durante la quale vengono eseguiti perquisizioni casa per casa e arresti a tappeto in tutta la Cisgiordania. Israele vive questi giorni con grande apprensione e dolore, gli israeliani rivogliono “i loro ragazzi” spariti. I palestinesi invece vivono l’operazione come una punizione collettiva.
Il 30 giugno i corpi dei tre ragazzi vengono trovati ad Hebron, tra gli israeliani esplode la disperazione e si accende la rabbia. Nei giorni delle proteste antiarabe, tre nazionalisti ebrei rapiscono e bruciano vivo il giovanissimo (16 anni) Mohammed Abu Khdeir. Il suo corpo carbonizzato viene trovato nella foresta di Gerusalemme. I tre assassini vengono individuati e arrestati dallo Shin Bet, ora ad essere infuriati per l’assassinio di un proprio figlio sono i palestinesi. In pochi giorni si arrivò a un’escalation su Gaza a suon di razzi lanciati dalla Striscia e al conflitto militare con l’operazione Protective Edge (margine protettivo) lanciata da Israele.
Questa in estrema sintesi è la storia di quelle settimane, una serie di eventi che ha avuto luogo nel cuore di Israele e Palestina, principalmente nell’area della Grande Gerusalemme unificata e annessa da Israele, ma separata dalla Cisgiordania occupata con la barriera di separazione. Una grande città dove israeliani e palestinesi vivono in quartieri vicini ma ben distinti, dove le vite si incrociano quotidianamente in un rapporto profondamente asimmetrico. Se c’è una parte di Israele che può assomigliare a un ipotetico stato unico per entrambi i popoli, è questa. Luoghi dove le culture e le ideologie si scontrano continuamente: ebrei contro arabi ovviamente, ma anche ebrei ashkenaziti contro ebrei sefarditi (o più correttamente, mizrahi), ebrei secolari contro ebrei religiosi, musulmani contro cristiani, arabi che cercano di adattarsi e arabi che vogliono la guerra, destra contro sinistra. Una lista che potrebbe continuare, perché ognuno di questi segmenti sociali, al suo interno, è frammentato etnicamente, culturalmente, ideologicamente ed economicamente.
La serie tv “Our Boys” (i nostri ragazzi) racconta questi luoghi e queste persone in maniera così dura e approfondita che merita di essere vista da chi ha voglia di studiare o semplicemente conoscere meglio la parte più profonda di Israele, quella lontana dalla modernità di Tel Aviv e dall’ormai tipico teatro militare dei Territori occupati. Prodotta da Keshet Studio e HBO, è la prima serie completamente in ebraico e arabo trasmessa negli Stati Uniti, una co-produzione che racconta uno dei lati più oscuri di Israele – il nazionalismo eversivo ultra-ortodosso – senza fare sconti al pubblico internazionale. La serie ha fatto infuriare molti politici israeliani, dalla ministra della cultura Miri Regev fino al primo ministro Benjiamin Netanyahu, che ha addirittura invitato al boicottaggio di HBO definendo “Our Boys” una serie antisemita.
Gli autori Hagai Lev, Joseph Cedar e Tawfik Abu Wael sono stati molto coraggiosi nel toccare ferite ancora aperte ripercorrendo alcune delle settimane più difficili della storia recente di Israele. Soprattutto, sono stati coraggiosi nel raccontare in maniera così profonda due delle comunità meno conosciute: gli arabi di Gerusalemme Est e gli ebrei mizrahi e ultra-ortodossi di Gerusalemme Ovest e delle colonie in Cisgiordania. È proprio questo aspetto a rendere “Our Boys” così interessante, il modo in cui si addentra in alcuni dei lati più oscuri e delicati della psicologia israeliana e palestinese.
La storia si concentra su quello che è successo dopo il ritrovamento dei corpi dei tre adolescenti ebrei rapiti e uccisi, e della sete di sangue e vendetta scatenata dalla loro tragica morte. Il protagonista è Simon, un agente dello Shin Bet specializzato nella unità che si occupa dei crimini d’odio degli ebrei contro musulmani, cristiani e altre minoranze. Fin dal primo episodio Simon è preoccupato della vendetta che potrebbe scatenarsi nel caso in cui i tre adolescenti rapiti dovessero essere trovati uccisi. Quando questo effettivamente succede, Simon scopre rapidamente che gli assassini del sedicenne arabo Mohammed Abu Khdeir, rapito in un quartiere di Gerusalemme e arso vivo, sono stati dei giovani nazionalisti ebrei ultra-ortodossi. Gli autori danno per scontato che lo spettatore sia a conoscenza di particolarità come i “price tag” (attacchi contro le comunità arabe), la “hilltop youth” ultra-ortodossa e le organizzazioni anti-assimilazione come Lehava (cose molto difficili da sapere senza aver approfondito la conoscenza della popolazione israeliana).
Gli autori si sono presi molte libertà nel ricostruire momenti e dialoghi funzionali a raccontare i fatti dalla prospettiva delle vittime, degli assassini, degli agenti che conducono le indagini e di tutte le persone coinvolte. Se “Our Boys” fosse stato un docufilm, non avrebbe funzionato allo stesso modo. Nei primi sei episodi usciti finora si vedono molte cose difficili da capire e digerire per chi ha un’idea stereotipata. Simon è un ebreo mizrahi di origine marocchina che lavoro in un ambiente di ashkenaziti. Le scene in cui si infiltra nelle comunità dei coloni ultra-ortodossi sono piene di conversazioni teologiche e politiche che difficilmente ci si poteva aspettare di veder sottotitolate in inglese. Conversazioni crude, impossibili da capire senza conoscere a fondo il mondo di cui si sta parlando, e proprio per questo degne di interesse per chi studia e analizza la regione.
Potente per esempio anche la scena in cui Mohammad Abu Khdeir viene chiamato al telefono dal padre mentre è a Gerusalemme Ovest: la notizia dell’assassinio dei tre adolescenti è appena stata diffusa, le strade di Gerusalemme si riempiono di nazionalisti ebrei infuriati, il ragazzo e il suo amico devono sbrigarsi a tornare nel quartiere arabo senza farsi notare. Altrettanto drammatiche le scene che riguardano la vita privata degli Abu Khdeir, un padre e una madre che volevano solo occuparsi della propria famiglia senza essere coinvolti in questioni politiche, e si ritrovano invece nella difficile posizione di genitori di un martire della Palestina.
È possibile anche vedere l’azione di alcuni degli straordinari strumenti di indagine dello Shin Bet. Oltre all’ormai nota sorveglianza costante dei droni, viene mostrata l’efficienza operativa dei sistemi di riconoscimento facciale e la disinvoltura con cui si può usare l’infiltrazione degli smartphone. Tuttavia, la serie non è certo un programma di intrattenimento. Senza conoscere a sufficienza la realtà che viene rappresentata, è quasi impossibile capire le innumerevoli sfumature del racconto. Guardare “Our Boys” ha senso perché la visione risulterà molto utile a chi studia, o semplicemente vuole conoscere a fondo, le complessità del conflitto israelo-palestinese e in particolare della popolazione israeliana.
Poco dopo quegli eventi, durante una conferenza dell’ottobre 2014 il presidente israeliano Reuven Rivlin disse che era arrivato il momento di ammettere che la società israeliana era malata, dichiarazioni che suscitarono molto scalpore in Israele e all’estero. Vedere “Our Boys” permette di capire di cosa stesse parlando.