Durante la 26° Sessione ordinaria dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 25 Ottobre 1971, viene approvata la Risoluzione 2758 con 76 voti favorevoli, 35 contrari e 17 astenuti, riconoscendo la Repubblica Popolare Cinese come unica rappresentante legittima della Cina alle Nazioni Unite e come uno dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. Dopo aver ripristinato i diritti legittimi della Repubblica Popolare Cinese, la Risoluzione stabilisce inoltre l’espulsione immediata dei rappresentanti di Chiang Kai-shek, leader del Kuomintang e guida della Repubblica di Cina, dalle cariche che ha occupato presso le Nazioni Unite e tutte le sue organizzazioni.
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Termina così il ruolo della Repubblica di Cina (RoC) come rappresentante legittimo di Pechino presso le Nazioni Unite, che ha ricoperto ininterrottamente dalla firma dell’Atto istitutivo dell’organizzazione nel 1945 sino al 1971.
La Risoluzione venne approvata con 76 voti favorevoli e fu il risultato di un lungo dibattito in seno alle Nazioni Unite, cominciato con la nascita della Repubblica Popolare Cinese nel 1949 e proseguito lungo tutta una serie di sessioni ordinarie dell’Assemblea Generale dal 1952 sino al 1971. La durata del dibattito e il ruolo preminente che hanno ricoperto i Paesi africani nella votazione si iscrivono in un contesto dominato dalla Guerra Fredda, dai nuovi e ancora incompleti processi di decolonizzazione e dalla crescente influenza politica ed economica della Cina nel Continente africano.
Infatti, nel 1950 i membri delle Nazioni Unite furono chiamati a decidere il rappresentante legittimo della Cina presso l’Organizzazione internazionale: la Repubblica di Cina o la nuova Repubblica Popolare Cinese. All’interno di un dibattito dominato dalla competizione sovietico-statunitense, Egitto, Liberia ed Etiopia, i soli tre Paesi africani già membri delle NU ed estranei alla controversia cinese, votarono per posporre la votazione schierandosi involontariamente con gli Stati Uniti.
Il supporto agli Stati Uniti cominciò lentamente ad erodersi in seguito alla politica di non-allineamento sancita dalla Conferenza di Bandung (1955) e al processo di decolonizzazione che, specialmente dopo il 1958, favorì l’ingresso di Ghana, Guinea, Mali, Nigeria, Somalia e Sudan alle Nazioni Unite. Inoltre, contemporaneamente alla progressiva presa di distanza dagli Stati Uniti e alla sempre crescente rappresentanza africana presso le NU, la Cina iniziò a perseguire una politica di graduale coinvolgimento nel continente africano.
Gli anni ’60 videro l’intensificarsi dell’impegno politico e diplomatico cinese in Africa: la rottura delle relazioni sino-sovietiche nel 1961 e la progressiva indipendenza di molti Paesi africani (circa 17 nuovi Paesi indipendenti solo nel 1960) rappresentarono per la Cina un’occasione di sfidare l’influenza diplomatica sovietica nel continente e guadagnare il supporto africano. L’Africa divenne così un’arena di competizione fra Cina e Unione Sovietica e in ultima analisi un modo per guadagnare riconoscimento in seno alle Nazioni Unite. Così, fra il 1958 e il 1965, dal sostegno militare al movimento di liberazione mozambicano FRELIMO, passando per il sostegno economico alla Tanzania di Nyerere, sino al supporto ai movimenti indipendentisti angolani, Pechino si fece strada gradualmente nella regione fino ad ottenere riconoscimento da circa quattordici nuovi Paesi africani nel 1965 e circa ventidue alla soglia degli anni ’70.
Questa nuova politica perseguita da Pechino fu determinante per l’ammissione alle Nazioni Unite nell’Ottobre del 1971. Infatti, quando la Risoluzione fu votata, circa sette Stati africani cambiarono il loro voto in favore della RPC: Rwanda, Sierra Leone, Togo, Botswana, Cameroon, Senegal e Tunisia. L’appoggio del fronte africano, sebbene estremamente fragile e frammentato, assicurò alla Repubblica Popolare Cinese l’ingresso nelle Nazioni Unite grazie a 26 voti di matrice africana, circa un terzo del totale dei membri votanti presso l’Assemblea Generale.