Dall’Accordo di Belaveža (1991) all’attacco all’Ucraina, le ex repubbliche sovietiche e il ritorno all’idea di Urss
O si tratta solo di nostalgia del regime che fu? In queste ore di tensione analisti ed esperti di tutto il mondo hanno di fatto sottovalutato, i più, il disegno offensivo della Russia in Ucraina, ma se andiamo a rileggere gli ultimi trent’anni – dalla firma dell’Accordo di Belaveža – vediamo come la dissoluzione dell’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche Urss era ed è tutt’altro che conclusa.
I sintomi più evidenti di ciò che sarebbe potuto accadere – ma che abbiamo sottovalutato – li abbiamo avuti tra il settembre e il novembre del 2021 quando la Polonia ha dichiarato lo stato d’emergenza nelle aree al confine con la Bielorussia di Aleksandr Lukašenko, presidente della repubblica presidenziale dal 1994, a causa del passaggio di migranti. Da quel giorno, migliaia di immagini hanno inondato media e social internazionali, istantanee di sguardi di donne e bambini persi nel vuoto tra foreste, fili spinati e cieli grigi pieni di solitudine. Lukašenko, con l’evidente aiuto logistico e militare della Russia di Putin ha usato i migranti per costruire un “confine ibrido” ai confini dell’Unione europea, già lacerata politicamente e tormentata dalla crisi pandemica. Ultimo conflitto questo, con i migranti usati dai bielorussi come ostaggi, di una serie (negli ultimi trent’anni) che ci dice come la dissoluzione dell’Unione Sovietica sia tutt’altro che terminata. Anzi.
L’Urss, secondo il Trattato di Belaveža – siglato l’8 dicembre 1991 dal futuro presidente della Federazione Russa Borís Nikoláevič Él’cin – aveva cessato di esistere come realtà geopolitica, come soggetto di diritto internazionale l’Unione Sovietica è in effetti scomparsa tuttavia come realtà geopolitica è ancora viva e, come afferma lo scrittore russo Sergej Lebedev, tra il 1990 e il 1991 si è sciolta in diverse piccole repubbliche socialiste diventando un’Unione Sovietica più piccola, con la naturale eccezione delle tre repubbliche baltiche Estonia, Lettonia e Lituania. Nella maggior parte di queste repubbliche si è, di fatto, mantenuta una continuità sia nelle classi dirigenti sia nelle strutture di potere scivolate negli anni nelle forme più bizzarre di autoritarismo. Dalle statue dorate a intere megalopoli ribattezzate con i nomi dei governanti, dalla scrittura di libri sacri a una liturgia della politica di stampo spesso abbastanza kitsch e poco aderente alla società digitale e proiettata nel futuro in cui viviamo. Demodé si direbbe.
A prendere il potere nelle ex repubbliche sovietiche – a parte i paesi baltici – sono stati gli stessi protagonisti dell’establishment della vecchia oligarchia sovietica, dai segretari di partito a ministri e generali del Kgb. In nessuno di questi paesi si sono registrati processi democratici portatori di una nuova visione della politica, dalle ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale – Kazakistan, Uzbekistan, Turkmenistan e Tagikistan – tutte guidate da regimi autocratici alle ex repubbliche sovietiche transcaucasiche – Georgia, Armenia e Azerbaigian – strette in una tensione regionale e da continui conflitti e micro fratture che non li ha mai permesso di affrancarsi definitivamente dalla pesante eredità autoritaria sovietica.
In Europa Ucraina, Bielorussia e Moldova, in quest’ultima il conflitto in Transinistria non si è ancora sciolto, l’Ucraina è in uno stato di guerra non dichiarata con la Russia da quasi sette anni e la Bielorussia di Lukašenko è poco più che un’appendice politica di Mosca. Fine dei giochi?
Possiamo affermare che l’Unione Sovietica esiste e opera ancora sotto altra mutevole forma, la sua anima è lì pronta ad aleggiare nuovamente sui resti del grande organismo politico che fu, le cui ceneri sono ancora accese. Gli “imperi” de resto non scompaiono del tutto nel momento in cui viene firmato un trattato. I processi politici della storia prevedono temi più lunghi e dinamiche più complesse. Settant’anni di politica del Partito comunista sovietico hanno lasciato un’eredità esplosiva, senza contare i vecchi conflitti nazionali che risalivano all’epoca pre-sovietica come quello tra l’Azerbaigian e l’Armenia.
La storia post-sovietica è una storia costellata di conflitti, scontri etnici e conquiste territoriali. Facciamo un rapido recap: le guerre civili in Georgia (1991-1993) e in Tagikistan (1992-1993); le guerre in Nagorno Karabakh tra Armenia e Azerbaigian (1992-1994; 2020); il conflitto osseto-inguscio del 1992 e le due guerre in Cecenia (1994-1996; 1999-2009 quest’ultima la prima di Putin); e ancora la guerra in Transinistria (1991-1992) tutti conflitti in cui la Russia ha agito in maniera diretta. Arrivando a oggi come non ricordare l’annessione della Crimea nel 2014 e l’aggressione all’Ucraina orientale, ultimi episodi che arrivano a oggi mentre truppe russe puntano dirette a Kiev.
Quale il prezzo di tutto questo? Innanzitutto migliaia di morti, milioni di profughi e città distrutti. Generazioni di donne e bambini segnate, per sempre. Oggi questo meccanismo si sta ripentendo con l’Unione europea, l’offensiva russa all’Ucraina è a meno di mille chilometri dai confini europei, confini di cui il vecchi continente aveva dimenticato. Oggi a trent’anni di distanza dall’ Accordo di Belaveža e dalla dissoluzione dell’Urss l’apparato simbolico sovietico sta vivendo una rinascita post-moderna. E non sono solo i carri armati e il macismo mostrato da Putin a raccontarlo, è un’idea ormai sepolta negli anni Ottanta del Novecento che sta di fatto tornando. Il culto della “grande guerra patriottica” è diventato la principale giustificazione della politica estera aggressiva di Mosca, quel “destino storico” più volte richiamato in queste ore nei proclami di Putin cui il crollo dell’Unione Sovietica è stato definito come “la più grande catastrofe geopolitica del ventesimo secolo”. In questa logica qualsiasi ex repubblica sovietica che tenta di costruire un discorso politico a sé si ritrova a essere considerata nemica della Russia. L’Ucraina è l’ultima, cosa succederà adesso? Probabilmente saremo ancora lontani, per molto tempo, dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica.