A Madrid i vertici dei Paesi alleati si riuniscono per approvare il Nuovo Concetto Strategico della NATO. Da quando è stato approvato l’ultimo di questi documenti, nel 2010, le cose sono molto cambiate per l’Alleanza Atlantica. La crescita della Cina, il rapido sviluppo tecnologico e il cambiamento climatico pongono nuove sfide agli alleati e impongono un adattamento per certi versi radicale. L’Italia ha sempre offerto un grande contributo alle iniziative alleate, e ora si aspetta che non venga lasciata sola a gestire le sfide provenienti dal fianco sud.
I Paesi membri della NATO si riuniscono oggi a Madrid per approvare il nuovo Concetto Strategico dell’Alleanza, un documento che rappresenta il risultato di una riflessione che gli Alleati hanno intrapreso già da qualche anno con l’obiettivo di adattare la postura della NATO alle nuove sfide globali. Il Concetto Strategico è un documento fondamentale, la cui importanza è seconda solo al Trattato istitutivo dell’Alleanza Atlantica. Esso afferma qual è lo scopo e quali sono i valori dell’alleanza, presenta una valutazione complessiva delle minacce che essa deve affrontare e fornisce una guida per l’adattamento della sua strategia.
Quello che verrà a breve approvato nella capitale spagnola è il quarto Concetto Strategico della NATO dalla fine della Guerra fredda. Ognuno di essi ha rappresentato un fondamentale cambio di passo della strategia alleata. I primi due, approvati nel 1991 e nel 1999, imposero un adattamento sia geografico che strategico, lanciando la NATO fuori dai tradizionali confini dove aveva fino ad allora esercitato la sua azione – l’Europa occidentale – e allargando i suoi compiti, includendo, oltre alla difesa collettiva, anche gli interventi per la gestione delle crisi. Il Concetto Strategico del 2010 formalizzava un secondo grande adattamento dell’Alleanza. Con il lancio della guerra al terrore e l’avvio delle operazioni in Iraq e, soprattutto, in Afghanistan, la NATO diveniva un attore globale. Il terzo Concetto Strategico allargava ulteriormente i compiti dell’Alleanza, includendo, questa volta, anche la sicurezza cooperativa, ovvero la possibilità di stringere relazioni con Paesi non NATO finalizzata all’incremento della sicurezza dei Paesi membri.
Sebbene sia stato approvato una dozzina di anni fa, il Concetto Strategico del 2010 non è più capace di orientare l’azione dell’Alleanza sullo scenario globale. Da quell’anno, il mondo è stato scosso da cambiamenti radicali che richiedono un cambiamento di postura. Innanzitutto, la NATO non gode più del primato militare nel mondo. La Cina cresce velocemente, e il rapido sviluppo tecnologico crea nuove vulnerabilità ai Paesi ricchi e avanzati, mentre rende possibile anche ad attori minori di beneficiare di armamenti sofisticati. In secondo luogo, il sistema liberale internazionale che aveva permesso alla NATO di gestire la competizione e l’equilibrio militare nel post-Guerra fredda appare in crisi: la libera circolazione delle merci è sempre più difficile da garantire e i valori democratici sono messi in discussione in diversi Paesi, mentre il centro della ricchezza mondiale si sposta verso est. Soprattutto, il panorama internazionale è caratterizzato dal ritorno della competizione tra grandi potenze, in particolare Russia e Cina, decise a mettere in discussione l’ordine liberale a guida americana.
Le sfide della NATO
Sono sostanzialmente tre i macro-trend che preoccupano la NATO e che negli scorsi anni hanno convinto gli alleati che fosse necessaria una revisione del Concetto Strategico dell’Alleanza. Si tratta della rapida crescita della Cina – in campo economico, tecnologico e militare –, dell’accelerazione dello sviluppo tecnologico, e del cambiamento climatico. A questi tre macro-trend si aggiungono due ulteriori shock esogeni, più recenti, ovvero la pandemia da Covid-19 e la guerra tra Russia e Ucraina, entrambi capaci di ridefinire la priorità delle minacce della NATO.
La Repubblica Popolare Cinese (RPC) è cresciuta moltissimo negli ultimi trent’anni. Il suo pil è aumentato del 3.000%, e il suo budget della difesa è lievitato in maniera impressionante, evidenziando una crescita rapida e progressiva – l’aumento, in media, è stato del 6,6% annuo negli ultimi 30 anni. In particolare, è soprattutto la marina militare cinese ad aver compiuto i passi più grandi, divenendo in breve tempo la più grande al mondo. Anche l’arsenale nucleare è stato velocemente sviluppato, e Pechino ambisce a quadruplicare il suo arsenale, fino a possedere più di mille testate entro il 2030. La Cina pone una sfida rilevante, poiché difficilmente l’Alleanza potrà fare fronte all’azione di due avversari strategici di pari livello in due fronti diversi, ovvero Mosca e Pechino.
L’accelerazione dello sviluppo tecnologico è un’altra grande potenziale fonte di nuove minacce per tutti gli Alleati. Essa colpisce e influenza i Paesi del globo in maniera asimmetrica, favorendo lo sviluppo di determinate aree e indebolendone altre. La crescita tecnologica ha poi un effetto “democratizzante”: grazie a essa, anche gli attori più deboli e privi di risorse di capacità militari divengono capaci di colpire anche i Paesi più sviluppati. Basta pensare all’azione dei ribelli Houthi in Yemen, capaci di colpire con i loro sciami di droni le strutture saudite protette da sistemi antiaerei all’avanguardia. Un tale sviluppo tecnologico impone agli strumenti militari dei Paesi alleati veloci processi di adattamento, richiedendo maggiori e più frequenti esercitazioni. Peraltro, se da una parte esso fornisce nuove e più potenti capacità, dall’altra lo sviluppo tecnologico crea nuove vulnerabilità. Il riferimento, in questo caso, è soprattutto al dominio cibernetico, ma anche alla tecnologia cloud.
Il cambiamento climatico, sebbene apparentemente scollegato dalla dimensione della difesa e della sicurezza, è in realtà anch’esso in grado di apportare nuove grandi minacce alla sicurezza dell’Alleanza. I fenomeni da esso causati, come alluvioni, terremoti o inondazioni, possono causare nuovi conflitti, dare il via a fenomeni migratori di massa o ancora causare crisi di risorse anche per i Paesi più sviluppati. Esso può poi rendere più difficile la condotta di operazioni anche a forze armate moderne e sviluppate.
I due shock che hanno colpito il globo più di recente, ovvero il Covid e la guerra in Ucraina, sono anch’essi in grado di esercitare un peso nell’ambito della riflessione strategica che ha portato al Nuovo Concetto Strategico. La pandemia ha messo in luce le vulnerabilità di un sistema economico come quello occidentale, generando enormi deficit nella grande maggioranza dei Paesi, e ha evidenziato come la nostra società sia effettivamente molto vulnerabile a eventi di tipo pandemico. La guerra in Ucraina sta già provocando gravi conseguenze al sistema economico globale, vista la dipendenza di molti Paesi europei dalle fonti energetiche russe, ma anche la dipendenza di molti Paesi africani dalle derrate alimentari ucraine. Essa, soprattutto, rappresenta un esempio plastico del ritorno della competizione tra grandi potenze, e testimonia come il compito primario per cui è nata l’Alleanza, ovvero la difesa collettiva, sia ancora più che rilevante.
Le difficoltà dell’Alleanza
Nonostante la NATO sia un’alleanza militare composta dai Paesi tra i più ricchi e i più industrializzati del mondo, essa non dispone delle risorse per poter contrastare in maniera efficace tutte le minacce e le sfide che si sono descritte: è evidente che gli alleati devono stabilire delle priorità. Quale sarà dunque la scelta dell’Alleanza Atlantica? Essa si concentrerà sulle sfide più attuali, quali l’azione aggressiva della Russia o il terrorismo internazionale, o sulle sfide a lungo termine, come la crescita cinese e il cambiamento climatico? Per diversi motivi, la risposta non è affatto facile. Innanzitutto, la NATO non può contrastare in maniera efficace tutte queste minacce perché lo sforzo contro una di esse talvolta impone dei sacrifici nel contrasto a un’altra minaccia. Ad esempio, è difficile esercitare un’azione di contenimento nei confronti della RPC e allo stesso tempo combattere il cambiamento climatico, perché per poter svolgere con efficacia la seconda funzione è necessario cooperare anche con la Cina. In secondo luogo, perché al suo interno la NATO non è affatto priva di divisioni e di tensioni. L’azione esercitata dalla Cina, per esempio, non colpisce allo stesso modo tutti i Paesi, ma al contrario crea vincitori e vinti. Alcuni Paesi vorrebbero una NATO concentrata sulle capacità di risposta alle crisi, invece che sulla difesa collettiva, ed è evidente che anche in questo caso, le due cose non si possono perseguire con uguale sforzo, perché a volte collidono. I Paesi dell’Europa sud-occidentale, per esempio, temono soprattutto il terrorismo, l’immigrazione irregolare e la proliferazione di armi di distruzioni di massa, per cui non supportano l’idea di dare massima priorità alla difesa collettiva, preferendo una NATO concentrata sulla gestione delle crisi. Infine – forse il dilemma più importante – un’ulteriore questione riguarda il futuro dell’ordine liberale internazionale. L’efficacia dell’Alleanza Atlantica pone le sue basi sull’ordine liberale internazionale per come lo abbiamo conosciuto fino ad ora. Messa di fronte a un declino di questo ordine, l’Alleanza deve scegliere se profondere i suoi sforzi nel tentativo di preservare questo ordine, oppure decidere di guardare avanti, e prepararsi a ciò che verrà dopo.
La posizione italiana
Roma guarda con attenzione a quanto verrà scritto nel nuovo Concetto Strategico. Come dichiarato nei documenti strategici italiani – vedasi il Libro Bianco per la sicurezza internazionale e la difesa del 2015 – la NATO rimane l’organizzazione fondamentale di riferimento per l’Italia in materia di sicurezza e di difesa. Grazie alle operazioni a cui hanno preso parte con la NATO, le nostre Forze armate hanno potuto affrontare uno straordinario processo di modernizzazione, divenuto assolutamente necessario dopo la fine della Guerra fredda, che ha permesso al nostro strumento militare di aggiornare la dottrina e dotarsi di mezzi ed equipaggiamenti più agili e moderni. Lo si è visto soprattutto in Afghanistan, durante la missione ISAF, alla quale l’Italia ha contribuito fino all’ultimo con migliaia di uomini, pagando a caro prezzo il suo contributo. Ancora oggi la NATO è l’organizzazione nell’ambito del quale l’Italia conduce gran parte delle sue operazioni militari. I nostri uomini sono impegnati in Iraq, dove guidano la Nato Mission Iraq, in Kosovo, dove partecipano all’operazione Joint Enterprise, nei Baltici, dove conducano operazioni di Air Policing, e in Lettonia, dove forniamo uomini in un battlegroup alleato a guida canadese. La NATO ha poi tradizionalmente rappresentato un limite ai tagli di bilancio dello strumento militare, in un Paese, come l’Italia, dove le spese militari sono tradizionalmente molto impopolari.
Il contributo dell’Italia alle operazioni della NATO rappresenta un assetto importante che Roma può giocarsi quando si confronta con gli altri Paesi membri, specialmente gli Stati Uniti. L’Italia ha tradizionalmente assicurato un contributo di primissimo piano alle operazioni alleate. In Afghanistan abbiamo ottenuto la guida del settore occidentale del Paese, e nel corso degli anni abbiamo sempre mantenuto un contingente corposo sul territorio, lasciando l’area di operazioni solamente poco prima che Kabul cadesse; in Kosovo abbiamo a lungo comandato l’operazione Joint Enterprise, e in Iraq abbiamo da pochi mesi assunto il comando dell’operazione NATO Training Mission Iraq. L’attivismo italiano in seno alla NATO è stato confermato proprio di recente, quando l’Italia si è offerta di prendere la guida di uno dei nuovi quattro battlegroup che il Segretario Generale Stoltenberg ha deciso di inviare in est Europa.
Alla luce di quanto detto, cosa si aspetta Roma dal prossimo Concetto Strategico? A partire dal 2015, quando è stato pubblicato il Libro Bianco per la Difesa Nazionale, l’Italia sembra aver dato avvio a una sorta di riorientamento strategico verso un’area che proprio a partire da quell’anno è stata definita sempre più sovente “Mediterraneo Allargato”. Si tratta di un’area che va dal Medio Oriente e Golfo Arabico fin al Golfo di Guinea, percorrendo tutta la fascia del sub-Sahara attraverso il Sahel fino al Golfo di Guinea. Roma ha avviato diverse iniziative nell’area. Ad esempio, abbiamo avviato una missione di assistenza in Niger, e più di recente abbiamo inviato un contingente di forze speciali in Mali, a sostegno dei francesi. La centralità di questo quadrante è stata confermata nelle scorse settimane, quando il Ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, ha annunciato la pubblicazione della nuova Strategia di Sicurezza e Difesa per il Mediterraneo, un documento con il quale la Difesa italiana intende ribadire la centralità di quest’area e dare una dimensione militare più ampia alle iniziative che Roma ha lanciato in questa zona negli scorsi anni. L’Italia ha sollevato la questione in ambito NATO più volte, ottenendo un successo moderato. Nel 2016, al summit di Varsavia, la NATO ha riconosciuto il valore del fianco sud. Tale riconoscimento si è tradotto, in termini concreti, nell’avvio di operazioni navali nel Mediterraneo e nella creazione, nel 2017, del NATO Strategic Direction South Hub, inserito nel Allied Joint Force Command di Napoli. Si tratta, tuttavia, di iniziative limitate. I recenti eventi accorsi in Africa, con la crescita dell’influenza turca in Libia, la fine dell’operazione Barkhane in Mali e il contemporaneo incremento dell’influenza russa hanno creato e stanno creando nuove grandi minacce per tutti i Paesi europei che affacciano sul Mediterraneo.
Sembra un paradosso, ma in un frangente in cui la guerra in Ucraina sembra conferire una nuova centralità al fianco orientale dell’Europa e ridare enfasi al compito della difesa collettiva, l’interesse dell’Italia sembra diametralmente opposto. Come si è spiegato, e come conferma anche la Strategia di sicurezza e difesa per il Mediterraneo, la priorità di Roma è garantire la stabilità nel Mediterraneo Allargato. Sempre questo documento spiega come tra gli interessi fondamentali del nostro Paese ci sia infatti quello di promuovere la rilevanza di questa area nelle organizzazioni internazionali di riferimento. L’Italia difficilmente riuscirebbe a gestire da sola, vale a dire senza l’alleato di riferimento, le minacce provenienti dal sud. Il nostro strumento militare è afflitto ancora da annosi problemi, la cui risoluzione non sembra affatto dietro l’angolo, e la condotta di una politica estera e di sicurezza più “autonoma” in questa zona, soprattutto nel Sahel, rappresenta una sfida inconsueta per un Paese che ha consuetudinariamente agito nell’ambito delle NATO e dell’ONU quando si è trattato di impiegare il proprio strumento militare. Se il fianco sud dovesse essere ancora trascurato, Roma ha due opzioni. La prima è puntare sull’integrazione europea nel campo della difesa, e promuovere con il massimo sforzo il raggiungimento di una maggiore autonomia strategia. L’altra è l’intesa con la Francia, con cui l’Italia condivide molti interessi nell’area e che risulta in possesso di capacità militari all’altezza del compito. La recente firma del trattato del Quirinale, in questo senso, rappresenta una notizia molto positiva per l’Italia.