Tra retorica incendiaria e posizioni intransigenti, il riacutizzarsi degli attriti tra Belgrado e Priština ha segnato gli ultimi mesi e posto una sfida impegnativa alla diplomazia. La mediazione europea e statunitense è chiamata a ulteriori sforzi per assicurare la stabilità della regione e favorire una difficile conciliazione.
La “guerra delle targhe”
La seconda metà del 2022 si è caratterizzata per le forti tensioni tra Serbia e Kosovo, di cui Belgrado non riconosce tuttora l’indipendenza. A riportare l’annosa disputa balcanica al centro delle cronache internazionali sono state due vicende: in primo luogo la “guerra delle targhe”, che alla fine del mese di luglio era stata all’origine di forti disordini nel Kosovo settentrionale (dove la minoranza serba è presente in misura rilevante) e che, complice la retorica incendiaria di alcuni degli attori coinvolti, aveva fatto temere una svolta negativa della situazione sul campo, in un contesto internazionale molto delicato caratterizzato, come noto, dal conflitto tra Ucraina e Russia, con la quale la Serbia continua a mantenere un solido rapporto.
Il governo kosovaro, ispirandosi a un “principio di reciprocità” che, nelle intenzioni di Priština, dovrebbe costituire la base delle relazioni con Belgrado, aveva deciso di introdurre alcune nuove norme: da un lato, la fornitura ai veicoli provenienti dalla Serbia di documenti provvisori recanti la dicitura “Repubblica del Kosovo”; dall’altro lato, l’imposizione ai serbi del Kosovo di registrare i propri veicoli presso le motorizzazioni kosovare, con la conseguente adozione di targhe anch’esse contenenti la dicitura “RKS” (abbandonando, dunque, le vecchie targhe serbe registrate prima della proclamazione dell’indipendenza del Paese). Dopo alcune ore di tensione, durante le quali la missione KFOR aveva ribadito di essere pronta a intervenire nel caso di un deterioramento della sicurezza e della pace, e l’attuazione di blocchi stradali nel Kosovo settentrionale per mano della minoranza serba, l’entrata in vigore delle nuove misure, prevista per il 1° agosto, è stata rimandata di un mese, concedendo alla diplomazia una finestra temporale per raggiungere un accordo.
Questo è stato concluso il 27 agosto, al termine di negoziati tenutisi a Bruxelles sotto l’egida dell’Alto rappresentante Josep Borrell. La Serbia, in quell’occasione, ha rinunciato di imporre ai cittadini kosovari in ingresso nel Paese l’utilizzo di documenti provvisori di entrata e uscita, mentre Priština, in cambio, ha accettato di non introdurre il nuovo provvedimento analogo rivolto ai serbi. Se il problema riguardante i documenti, dunque, è stato affrontato con successo, agevolando la libertà di movimento lungo quella che la Serbia considera tuttora come una “linea amministrativa”, la questione delle targhe è però rimasta in sospeso.
Il governo di Albin Kurti, infatti, non ha rinunciato all’implementazione del provvedimento, rispondendo negativamente a una richiesta dei Paesi occidentali di rinviare di dieci mesi la sua messa in atto. Il governo, al contrario, ha ribadito la validità del provvedimento a partire dal 1° novembre, accettando al massimo la sua applicazione graduale: in un primo momento, i veicoli con una targa non registrata presso le motorizzazioni kosovare sarebbero stati oggetto di un “warning”, prevedendo invece l’imposizione di multe nel corso delle prime tre settimane di novembre e, a partire dal 22 aprile 2023, il sequestro dei veicoli non ancora registrati. Kurti ha incentivato i serbi del Kosovo a effettuare la procedura di registrazione entro il 31 ottobre, promettendo l’esenzione dal pagamento della tariffa e delle tasse previste.
Il boicottaggio delle istituzioni da parte dei serbi
A partire dall’inizio di novembre, però, l’attuazione concreta delle norme ha generato dei problemi rilevanti. Nenad Đurić, comandante della polizia kosovara nella regione settentrionale, è stato sospeso dal Ministero dell’Interno per via del suo rifiuto di applicare il provvedimento sulle targhe; il 5 novembre, i serbi del Kosovo hanno dato inizio a un boicottaggio di tutte le istituzioni della Repubblica: polizia, corti di giustizia, cariche amministrative, governo e parlamento (generando tra l’altro un dilemma costituzionale, in quanto alla minoranza serba sono riservati alcuni seggi nell’assemblea). Il ministro Goran Rakić, di etnia serba e appartenente alla Srpska Lista strettamente legata al governo di Belgrado, ha rassegnato le dimissioni, annunciando che i serbi non avrebbero fatto marcia indietro salvo il ritiro del provvedimento sulle targhe ma anche la formazione di un’unione delle municipalità serbe, sulla scia di quanto previsto dagli accordi di Bruxelles del 2013.
Il presidente Kurti ha chiesto ai serbi di interrompere il boicottaggio delle istituzioni, chiedendo di non cedere a “manipolazioni politiche e giochi geopolitici”, accusando in seguito Belgrado di destabilizzare il Kosovo incoraggiando questa mossa della minoranza serba; il presidente serbo Aleksandar Vučić ha partecipato a una riunione di emergenza del governo di Belgrado, consultandosi con gli ambasciatori di Russia e Cina nonché con i vertici della Chiesa ortodossa serba e, in particolare, con il patriarca Porfirije. Il giorno successivo, un’ampia manifestazione della minoranza serba, dai toni nazionalisti, ha avuto luogo a Mitrovica.
Nel corso del mese di novembre, nuovi negoziati hanno avuto luogo a Bruxelles sotto l’egida dell’UE, con l’obiettivo di raggiungere un accordo prima dell’inizio della seconda fase del provvedimento sulle targhe (con la conseguente applicazione di multe ai veicoli non ancora registrati secondo le nuove procedure). Il 21 novembre, tuttavia, l’esito delle trattative è stato chiaramente negativo; l’Alto rappresentante Borrell ha criticato le due parti, parlando di “comportamento non costruttivo” e di scarsa considerazione per i loro obblighi internazionali, attribuendo la colpa in particolare al Kosovo. Questo, infatti, non avrebbe accettato un piano proposto da Borrell, in virtù del quale non sarebbero state inflitte delle multe ai veicoli dotati ancora delle vecchie targhe, mentre Belgrado avrebbe invece accettato di interrompere il rilascio di nuove targhe serbe.
Solo in seguito a un dialogo con l’ambasciatore degli Stati Uniti, i quali hanno fin da subito manifestato scarso entusiasmo per il provvedimento messo a punto da Kurti, quest’ultimo ha deciso di rinviare di 48 ore l’inizio dell’imposizione delle multe ai veicoli non registrati.
Il giorno successivo le due parti sono infine giunte a un accordo, in virtù del quale la Serbia avrebbe cessato di rilasciare delle targhe contenenti le denominazioni delle città kosovare, mentre il governo del Kosovo avrebbe evitato di intraprendere ulteriori azioni riguardanti la registrazione dei veicoli.
Ritorno delle forze serbe: uno scenario realistico?
Nel corso del mese di dicembre, una seconda vicenda ha però riacutizzato la tensione. In seguito alle dimissioni degli amministratori serbi nei comuni del nord del Kosovo, elezioni anticipate sono state indette in queste località il 18 e 25 dicembre. Intorno all’8 dicembre, una crescente presenza della polizia kosovara è stata registrata nella parte settentrionale del Kosovo, ufficialmente per assistere la Commissione Elettorale Centrale nella preparazione delle elezioni locali. A partire da quel momento, però, hanno avuto luogo diversi incidenti: elementi della minoranza serba si sono scontrati in vari punti con la polizia; una granata stordente è stata lanciata contro una vettura della missione EULEX, causando una reazione di ferma condanna da parte dell’UE. Il 10 dicembre ha avuto luogo l’arresto di Dejan Pantić, un ex poliziotto di etnia serba accusato di aver attaccato gli uffici della commissione elettorale a Mitrovica; a ciò ha fatto seguito la ricomparsa dei blocchi stradali, posti in essere in segno di protesta contro la sua detenzione, e la chiusura delle strade per i punti di frontiera di Jarinje e Brnjak.
La Serbia, nel corso di questi sviluppi, ha ventilato anche la possibilità di chiedere alla missione KFOR il dispiegamento di unità militari nel Kosovo, in accordo con la risoluzione 1244 del 1999 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Il punto 6 dell’allegato 2 stabilisce che delle unità di personale serbo, in “numero concordato”, avrebbero potuto fare ritorno in Kosovo per esercitare una serie di funzioni ben specificate: rimozione dei campi minati, salvaguardia dei siti culturali serbi, mantenimento di una presenza nei punti di frontiera. La richiesta è stata inoltrata ufficialmente il 16 dicembre, come annunciato dal Ministro della difesa Miloš Vučević.
Tuttavia, è evidentemente improbabile che tale richiesta venga considerata, soprattutto alla luce delle implicazioni anche politiche di un’eventuale presenza riconosciuta di forze serbe nelle aree del Kosovo settentrionale a maggioranza serba. I siti culturali, inoltre, sono da lungo tempo presidiati con efficacia dalle forze internazionali (con gli italiani protagonisti nello svolgimento di questo compito), la cui composizione può costituire un elemento aggiuntivo di salvaguardia per questo patrimonio culturale.
Una richiesta analoga venne effettuata, tra l’altro, all’inizio del 2003 dall’allora Primo ministro Zoran Đinđić, con la motivazione che le forze serbe avrebbero potuto sopperire all’eventuale riduzione delle forze NATO presenti sul terreno, in particolare in vista di un loro possibile impiego in Iraq. La risposta, anche in quel caso, fu negativa.
La presidente del Kosovo Osmani, in un discorso in parlamento, ha respinto nettamente la prospettiva di un possibile ritorno di forze serbe in Kosovo dopo il 1999. Con una mossa volta a ridurre le tensioni, le elezioni locali sono state rinviate al 2023, un passo salutato positivamente dal Ministro degli esteri tedesco Annalena Baerbock.
Quali prospettive?
Il quadro, nel complesso, mostra un peggioramento delle relazioni tra Belgrado e Priština e l’allontanamento, almeno per il momento, della prospettiva di un accordo volto a porre fine alla lunga disputa che segna la regione balcanica. Nel corso dei negoziati degli ultimi mesi, tra l’altro, sarebbe stata respinta una proposta generale di accordo franco-tedesca; secondo quanto emerso sulle testate giornalistiche, questa avrebbe contemplato un sostanziale riconoscimento dell’indipendenza kosovara da parte della Serbia, un passo che Vučić ha dichiarato di non voler intraprendere.
Per quanto nessuna possibilità sia da escludere, la prospettiva di una riaccensione del conflitto in Kosovo non è ancora imminente. Agire in modo unilaterale esporrebbe la Serbia non solo a risvolti militari imprevedibili, data la presenza sul campo della missione KFOR, ma anche a conseguenze molto forti sotto il profilo economico e politico. Mantenere alta la tensione senza giungere al punto di rottura, al contrario, rappresenta per le leadership politiche dei rispettivi Paesi un modo per legittimarsi di fronte alle proprie opinioni pubbliche e di ergersi a garanti delle istanze nazionali di fronte alla controparte, traendo dalla situazione il massimo profitto in termini di consenso. È tuttavia opportuno mantenere alta la guardia e, attraverso un costante lavoro della diplomazia, favorire la risoluzione dei problemi più urgenti sul tavolo e più in generale la conciliazione tra le parti, un compito impegnativo soprattutto considerando la posizione intransigente degli attori in campo.