Al culmine di settimane turbolente, si apre un nuovo spiraglio per la ripresa del processo di allargamento dell’UE nei Balcani occidentali. Un concreto passo in avanti dopo anni di stallo, ma ardui ostacoli restano da superare.
Al termine del summit tra i leader dell’UE e di sei Paesi dei Balcani occidentali (Serbia, Albania, Kosovo, Bosnia-Erzegovina, Montenegro e Macedonia del Nord) tenutosi a Bruxelles la mattina del 23 giugno, prima del Consiglio europeo, disillusione e pessimismo prevalevano tra i capi di Stato e di governo giunti per l’occasione a Bruxelles dalle capitali balcaniche. La frustrazione, espressa in particolare dal premier albanese Edi Rama e dal suo omologo macedone Dimitar Kovačevski durante una conferenza stampa a cui ha partecipato anche il Presidente serbo Aleksandar Vučić, è stata dettata non solo dall’assenza di reali progressi in materia di allargamento ai Paesi candidati, ma anche dalla prospettiva di una procedura di ingresso “agevolata” per Ucraina e Moldova, ipotesi ventilata nel corso degli ultimi mesi dopo l’aggressione militare russa nei confronti di Kiev. Pur non ostili all’avvicinamento all’UE di tali Paesi, i candidati balcanici hanno accolto negativamente l’ipotesi di una procedura accelerata “concessa” in virtù di considerazioni prettamente politiche, trascurando invece le problematiche tecniche insite nel processo di adesione che, per i Paesi già candidati all’ingresso, sarebbe avvenuto ancora con le modalità definite in precedenza.
Il “sostegno inequivocabile all’integrazione dei Balcani occidentali nell’UE”, ribadito per l’occasione dai leader europei, non è evidentemente bastato a sopire le inquietudini. È stata presa di mira, anzi, l’azione della Bulgaria, che fin dal 2020 ha posto il veto all’accordo sul framework negoziale riguardante la Macedonia del Nord, mantenendo così in sospeso l’inizio dei negoziati di adesione tanto della stessa Macedonia del Nord quanto dell’Albania, avendo Bruxelles deciso di considerare in modo unitario i due Paesi nel loro percorso di ingresso. La mossa di Sofia fu giustificata con il presunto mancato rispetto del trattato di amicizia e buon vicinato firmato con Skopje nel 2017, nonché la delicata questione della lingua macedone (che la Bulgaria considera come un dialetto della lingua bulgara) e la controversia, di natura storica, sulla nazionalità del rivoluzionario Goce Delčev, vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento. Kovačevski ha dichiarato che la postura della Bulgaria causerebbe un danno per la credibilità dell’Unione Europea, mentre Rama ha definito “una vergogna” il fatto che Sofia abbia “preso in ostaggio altri due Paesi NATO”, oltretutto alla luce di un quadro politico europeo reso fosco dalla guerra intrapresa dalla Russia contro l’Ucraina.
Un primo sviluppo positivo si è però verificato il 24 giugno, quando il parlamento bulgaro si è espresso a favore della rimozione del veto posto nel 2020 (170 voti a favore, 37 contrari, 21 astenuti). Ciò in virtù dell’approvazione di una proposta di compromesso, di cui è stato artefice il Presidente francese Emmanuel Macron, che Sofia ha ritenuto offrire risposte adeguate alle richieste bulgare. Il documento, in particolare, prevede l’impegno da parte della Macedonia del Nord a inserire nella Costituzione un riferimento alla minoranza bulgara tra le popolazioni presenti nello Stato, nonché un richiamo al contenuto del trattato di amicizia e buon vicinato del 2017 e alla firma di un protocollo bilaterale tra i due Paesi, assecondando la richiesta di Sofia di ottenere un impegno contro i “discorsi di odio” indirizzati alla Bulgaria. Al momento del voto, il contenuto del protocollo bilaterale non era ancora pubblico né era avvenuta la sua firma; ciò ha suscitato le critiche del Presidente Rumen Radev, il quale, pur considerando il compromesso francese come adeguato rispetto alla posizione del proprio Paese, ha sottolineato come, attraverso l’approvazione, i parlamentari avrebbero firmato una “cambiale in bianco”, riferendosi proprio al protocollo.
La proposta di compromesso ha suscitato, però, furiose proteste in Macedonia del Nord, animate nel corso dei primi giorni di giugno dai nazionalisti e dal partito di opposizione VMRO-DPMNE, nonché dalla sinistra del partito “Levica”. Il leader del partito VMRO-DPMNE, Hristijan Mickoski, ha espresso il pericolo di una “bulgarizzazione” dei macedoni come prezzo da pagare per la futura adesione all’Unione Europea, con riferimento non solo alla necessità di modificare la Costituzione inserendovi un riferimento alla popolazione bulgara, ma anche a possibili concessioni a Sofia per quanto riguarda la delicata questione linguistica, per esempio attraverso il riconoscimento delle “radici bulgare” della lingua macedone affermate dalla Bulgaria. Il Presidente Stevo Pendarovski ha assunto una posizione equilibrata, descrivendo il documento come “né un trionfo storico né come un disastro storico”, mentre il Ministro degli esteri, Bujar Osmani, ha parlato di “buona proposta”.
Il 14 giugno, la Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen si è recata in Macedonia del Nord; rivolgendosi all’assemblea parlamentare (Sobranie), ha auspicato l’approvazione della proposta di compromesso, definendola come un documento di “importanza storica”, affermando di condividere la diffusa frustrazione dovuta alla mancata partenza dei negoziati di ingresso. Una rassicurazione è stata espressa con riferimento alla questione linguistica, in particolare alla luce del riferimento alla “lingua macedone” presente nella proposta, e per quanto riguarda le tempistiche dei negoziati, i quali avrebbero potuto essere avviati fin dai giorni successivi a un eventuale voto di approvazione. L’assemblea, i cui componenti sono 120, si è espresso il 16 luglio; i voti favorevoli sono stati 68, suggellando quello che il Primo ministro Kovačevski ha definito “passo storico”. La decisione è stata salutata dai vertici delle istituzioni europee, con il Presidente del Consiglio europeo Charles Michel che ha annunciato l’apertura della Conferenza intergovernativa già nel corso della settimana successiva.
Il giorno successivo, domenica 17 giugno, Macedonia del Nord e Bulgaria hanno firmato il protocollo bilaterale, il quale, pur non essendo stato reso pubblico, consterebbe di circa 10 pagine e conterrebbe disposizioni riguardanti materie specifiche delle relazioni bilaterali, per esempio con riguardo alle controversie in ambito storico. La strada per l’effettivo inizio dei negoziati di adesione all’UE di Albania e Macedonia del Nord, a questo punto, è stata aperta.
Il 19 luglio hanno avuto luogo le prime Conferenze intergovernative a livello ministeriale per l’adesione dei due Paesi, rappresentati per l’occasione dai Primi ministri Kovačevski e Rana, avviando subito la procedura di monitoraggio circa l’allineamento dei loro sistemi legali al diritto europeo. Della delegazione europea hanno fatto parte Jan Lipavský, Ministro degli esteri della Repubblica Ceca, e Olivér Várhelyi, Commissario europeo per l’allargamento e la politica di vicinato.
Numerosi ostacoli restano tuttavia da superare. In primo luogo, il perseguimento dei risultati richiesti con riguardo a ogni capitolo negoziale, un processo la cui durata è indefinita e sulla quale è difficile avanzare delle previsioni precise; poi, con riferimento in particolare alla Macedonia del Nord, la modifica della Costituzione del Paese attraverso l’aggiunta, come previsto dalla proposta francese, di un riferimento alla popolazione bulgara. Questo passo richiede un voto favorevole da parte dell’assemblea parlamentare con una maggioranza dei due terzi, un traguardo al momento reso arduo dall’opposizione del partito VMRO-DPMNE.
L’inizio effettivo del processo negoziale costituisce tuttavia una novità non scontata, soprattutto considerando gli sviluppi negativi verificatisi negli ultimi anni. La questione dell’allargamento dell’UE, tornata con forza al centro delle cronache alla luce delle speranze europee espresse dall’Ucraina, costituisce probabilmente un tema destinato a riproporsi in misura maggiore nel prossimo futuro.