La guerra in Ucraina ha visto l’Italia schierarsi in prima fila al fianco di Kiev e contro Mosca, optando non solo per una dura politica sanzionista contro la Russia, ma anche per armare l’esercito ucraino. Altri provvedimenti, come l’aumento delle spese militari e l’appoggio incondizionato alla politica estera statunitense, hanno rafforzato il peso italiano in seno all’Alleanza Atlantica.
La guerra scatenata dalla Russia in Ucraina ha posto fine al “neoatlantismo” italiano. La trasformazione della Russia in uno “Stato pirata” ha, infatti, privato l’Italia di un partner fondamentale per la propria politica estera; basti pensare alla comune posizione espressa da Roma e Mosca sul negoziato libico che per l’Italia resta d’interesse strategico.
Privata di uno Stato chiave della “sfera creativa” ed autonomista della politica estera nazionale, l’Italia ha dovuto correggere la propria postura rafforzando l’asse securitario con USA e NATO. La scelta contingente, ma che va interpretata in chiave strategica, è stata favorita anche dall’attuale comunanza d’interessi e percezioni di Unione Europea e NATO.
Tuttavia, è bene evidenziare che il “neoatlantismo” italiano era già entrato in crisi a partire dal 2011 con la guerra di Libia contro Gheddafi e la conseguente trasformazione di quello Stato alleato di Roma in uno Stato fallito. Le scelte politico-militari dei governi italiani fino ad oggi hanno eroso, assieme a fattori esterni, l’area d’influenza nazionale nel Mediterraneo allargato. In uno scenario internazionale sempre più instabile, gli spazi per le medie potenze si riducono, costringendole ad appoggiarsi ai propri riferimenti d’alleanza (nel caso italiano USA-NATO ed UE) e perdendo, di conseguenza, autonomia decisionale.
Se è vero che l’impatto della guerra d’Ucraina ha influito in modo determinante sul cambio di paradigma della politica estera e militare dell’Italia, la vera partita per Roma si gioca nel “Mediterraneo allargato”, come se sulla cartina geografica fosse stato tracciato un arco che va dal Donbass a Bamako.
Il Mare Nostrum rappresenta l’1% delle acque del globo, ma è attraversato dal 20% del traffico marittimo mondiale. La regione del “Mediterraneo allargato” (così come identificata e delineata geograficamente fin dagli anni ‘90 dai documenti strategici italiani), che è un’area vasta compresa tra Gibilterra ed il Golfo di Aden e che include anche il Medio Oriente e l’Africa Centrale, soggetta, da qualche anno a questa parte, ad una crescente presenza militare, inizialmente visibile principalmente nel dominio marittimo, ed oggi anche terrestre, dando concretezza al pericoloso fenomeno della “territorializzazione” del Mediterraneo e quindi non solo ad una forma di instabilità diffusa ma anche al rischio di conflitti convenzionali.
Il “pivot to Asia” statunitense ha causato la recrudescenza di vecchi e nuovi conflitti nel “Mediterraneo allargato” e dunque un ritorno di instabilità quasi endemico lungo il fronte meridionale che costringe Roma a coinvolgere UE e NATO in un’opera di revisione delle priorità strategiche delle due organizzazioni, oggi difficile a fronte del revisionismo aggressivo della Russia, come dimostrato nel summit madrileno dell’Alleanza Atlantica.
In questo contesto, con il Trattato del Quirinale ormai operante, l’Italia deve rafforzare la propria collaborazione bilaterale con la Francia, specie a fronte dei gravi rischi per la sicurezza e gli interessi nazionali rappresentati dalla guerra in Libia e dalla presenza terroristica nel Sahel, unita ad una penetrazione massiccia ed aggressiva di Cina e Russia sul territorio in diretta concorrenza con l’Occidente.
A tal proposito, triste presagio di tempi duri per la presenza occidentale in Africa, il 1 luglio sono terminate le operazioni della Task Force Takuba (della quale faceva parte anche l’Italia) a guida francese in Mali.
L’Occidente, ed in particolare le potenze europee, ha scelto di abbandonare il Mali nel momento in cui il Sahel assume nuova rilevanza strategica per il mantenimento della sicurezza sul “fronte sud” della NATO. Dunque una scelta in controtendenza rispetto a quelli che sono gli interessi nazionali di Stati come l’Italia e la Francia, Paesi per i quali il Sahel rappresenta un “cuscinetto securitario” meridionale del Mediterraneo.
Chiudere Takuba e Barkhane significa lasciare campo libero a Russia e Cina nell’area, anche perché le Forze Armate dei Paesi G5 Sahel hanno dimostrato di non essere in grado di combattere, autonomamente e prive di supporto tattico e strategico da parte di forze meglio organizzate, il terrorismo jihadista che, tornato prepotentemente all’offensiva, in Africa subsahariana ha assunto forme ed adottato metodi tipicamente militari.
È nella “linea di faglia” del supporto militare che va inquadrata la presenza importante dei mercenari russi del Wagner Group in Mali. In particolare la Russia, infatti, fornisce supporto militare agli Stati saheliani, optando per una politica che privilegia l’hard power “da esportazione”, al contrario degli amici/rivali di Pechino, propensi ad una politica di penetrazione neocoloniale in Africa che privilegia, senza ombra di dubbio, il soft power ed una attenta gestione del debito dei partner (ineguali) africani.
Ma la cooperazione militare, oltreché un passepartout politico, è uno strumento che Mosca, in assenza di altri mezzi, utilizza in Africa per ottenere vantaggi sull’approvvigionamento di metalli pregiati e pietre rare, ormai fondamentali per le industrie di tutto il mondo, e concessioni minerarie ed estrattive.
La presenza politica e militare, ufficiale o tramite la longa manus delle compagnie di sicurezza private Wagner e Patriot, del Cremlino in Siria, Libia, Mali, Repubblica Centrafricana, Burkina Faso, Mozambico, Sudan e Madagascar ha, da un lato permesso a Mosca di avere un “coefficiente imperiale” da rivendicare in quest’area, ma dall’altro la costringe ad impiegare risorse che potrebbero essere strategicamente dirottate altrove e con ben altra efficacia.
Se, infatti, avere una forte presenza in Siria (dove, a pochi giorni dall’invasione dell’Ucraina, l’aviazione russa ha condotto massicci bombardamenti d nell’area vasta che va da Deir ez-Zor a Raqqa e nel Governatorato di Idlib contro i rimasugli dell’ISIS) può essere giustificato in chiave strategica per i Russi, vista l’importanza per la loro politica navale della base di Tartus e la possibilità di adattare al mare quanto già viene fatto per terra, cioè costruire una sorta di “cuscinetto” nel quale affrontare un eventuale nemico prima che metta piede sul suolo russo che è tendenzialmente indifendibile; lo sperpero di risorse in Africa non risponde pienamente agli interessi strategici di Mosca o, almeno, questa era una teoria valida fino allo scoppio della guerra contro l’Ucraina lo scorso 24 febbraio.
Quella che si combatte contro la “strana alleanza” tra i reduci dello Stato Islamico ed al-Qāʿida nel Maghreb islamico (caso unico nel panorama dell’islamismo internazionale poiché le due formazioni sono nemiche in altre aree del globo) non è una guerra slegata dal conflitto libico e dall’instabilità sistemica dell’Africa mediterranea. Le milizie tuareg islamiste sono state protagoniste della guerra in Libia, in particolare sul fronte del Fezzan, e sono forze formidabili nel combattimento in scenario desertico, basti pensare alle vittorie ottenute contro l’esercito maliano.
Nella guerra contro gli islamisti nel Sahel, oltretutto, non basta infliggere dure perdite al nemico, poiché a contare sono i chilometri di territorio effettivamente controllato; dunque il fattore geografico surclassa il bruto calcolo numerico.
A maggior ragione, in questo tipo di conflitto, potenze come la Russia, ben disposte a lasciare i boots on the ground senza imporre come condizione per il supporto militare la “democratizzazione” ed il rispetto dei diritti umani, riescono a penetrare le istituzioni e gli apparati degli Stati saheliani con molta più facilità rispetto agli europei occidentali, particolarmente inclini ad avvalorare una concezione liberal-idealistica della politica estera, magari lodevole ma decisamente poco realistica. La scelta francese – certamente determinata anche da questioni legate alla politica interna – di abbandonare il Mali è stata influenzata principalmente dall’instaurazione a Bamako di un governo autoritario a seguito del golpe militare del 24 maggio 2021 guidato dal colonnello Assimi Goïta.
In questo contesto, reso particolarmente fluido dai riflessi della guerra in Ucraina, la cui portata è di molto superiore a quella meramente “territoriale” ed investe l’intero globo, si prospetta un rinnovato attivismo, maggiormente aggressivo ed “arrischiato” da parte della Russia in Africa, dove la scarsità di risorse potrebbe rappresentare certamente un vulnus ma anche la molla per spingere Mosca ad accelerare i tempi per il raggiungimento dei suoi obiettivi imperiali. Inutile dire che la presenza di una “scheggia impazzita” russa in Africa – vista anche la sostanziale estraneità politica di Mosca al tradizionale scramble – rappresenti un rischio concreto per gli interessi e la sicurezza dei Paesi occidentali.
Per i Paesi mediterranei della NATO, Italia e Francia in particolare, il fronte della guerra d’Ucraina non è al confine polacco ma sulla sponda sud del Mare Nostrum e tra la savana e la foresta pluviale degli antichi possedimenti coloniali transalpini. La nuova “Strategia di Sicurezza e Difesa per il Mediterraneo” del Ministero della Difesa italiano ha inquadrato nel problema politico della “revisione strategica in atto” in ambito NATO ed UE e nell’obiettivo strategico-militare della “proiezione di stabilità” nelle aree comprese entro il Mediterraneo allargato le priorità geopolitiche per Roma nei prossimi anni. Resta da vedere, ma questo solo il tempo – che si è fatto inesorabilmente più breve dal 24 febbraio – potrà dirlo, quanto ampia sarà la forbice tra la teoria e l’azione in questo quadrante strategico per l’Italia.