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Nel mondo dell’Isis post-territoriale: terrorismo e obiettivi cristiani, non solo in Sri Lanka

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Troppo presto si è data la notizia della fine dello Stato Islamico. I recenti fatti avvenuti in Sri Lanka, con i sei attacchi terroristici che hanno ucciso 359 persone, pongono alcune questioni di rilievo sull’esistenza dell’Isis, sul terrorismo islamico e sui destinatari degli attentati, sempre più cristiani (proprio oggi sono stati uccisi sei fedeli in una chiesa in Burkina Faso da un attacco jihadista).

Il 21 aprile sono stati colpiti in tre chiese i cristiani nel giorno più importante del calendario liturgico e, con altri tre attacchi avvenuti negli hotel, è stato preso di mira il settore turistico. Secondo alcuni opinionisti, tra cui Guido Olimpio del Corriere della Sera, quest’ultimo obiettivo sarebbe servito principalmente ad attirare a sé le attenzioni dei media internazionali, dando un rilievo globale alla vicenda.

La responsabilità reclamata dall’Isis apparentemente cozza con la sua cessata presenza territoriale e in pochi lo hanno messo in rilievo. Il 23 marzo scorso erano crollate le strenue difese dell’Isis a Baghouz, in Siria, dove erano asserragliati gli ultimi combattenti appartenenti al Califfato. La sua presenza territoriale, che dal 2017 era stata progressivamente intaccata dall’aumento delle forze in campo da parte della coalizione occidentale e dalla Russia, col supporto delle milizie curde, è arrivata alla sua momentanea cessazione due mesi fa.

La rivendicazione degli attentati avvenuti in Sri Lanka attesta alcuni dati di fatto. Anzitutto, la presenza formale su un territorio è un dato non prioritario dell’Isis: il Califfato si propone, nella sua essenza politico-religiosa, come forma statuale geograficamente mobile, non vincolata a un unico e definito territorio. Fa riferimento alla Umma, la comunità islamica sparsa nel mondo, che non definisce la propria appartenenza su basi nazionali, territorialmente circoscritte.

La geografia è pertanto uno strumento di attestazione del proprio potere, non il presupposto per la propria esistenza. La matrice esistenziale dell’Isis è la religione e la condivisione della fede islamica, non un territorio cui appartenere. Ecco allora che la capacità di colpire in tutto il mondo risponde a questo principio di base. Lo Stato Islamico prescinde dalla sua geografia, combatte una guerra nel mondo sulla base della sua proiezione intrinsecamente globale.

La fine dell’esperienza governativa tra Siria, Iraq e Libia non corrisponde dunque alla morte dello Stato Islamico. Esso non è mai deceduto, ma continua a vivere e prosperare nelle menti, nei cuori e nelle azioni di chi perpetua il jihad, che si combatte con il cuore, con la lingua, con le mani e con la spada per la difesa della fede da minacce esterne, internamente (grande jihad) ed esternamente (piccolo jihad).

Se dunque il jihad si combatte per la difesa della fede, esso assumerà alcune caratteristiche che ritroviamo nella guerra globale dell’Isis, combattuta sia regolarmente sia per mezzo terroristico, che è oggi il mezzo attraverso il quale attestare la sua vitalità: 1) non ha limiti spaziali né temporali; 2) la minaccia alla fede può assumere diverse forme; 3) gli obiettivi degli attentati terroristici sono diversificati: cristiani, turisti, occidentali, musulmani non allineati, etc.

Sarebbe teoricamente inutile ribadire quanto rimarcato da molti attenti osservatori delle vicende relative all’Isis: uno degli obiettivi principali del terrorismo perpetrato dal Califfato nel suo periodo post-territoriale è la religione cristiana, spesso o in un assordante silenzio dei media occidentali o in una opacità e scarsa chiarezza dell’informazione e di parte della politica che non aiuta a combattere il terrorismo. Bernard-Henri Lévy, proprio in occasione dell’ultimo attacco in Sri Lanka, sulle pagine della Stampa ha parlato a questo proposito di “un odio planetario”, di “un’onda di morte contro i cristiani”, rimarcando la necessità di difenderli da quella che egli definisce una sistematica persecuzione.

Tra gli ultimi attentati terroristici attribuiti all’Isis vi è infatti quello di Strasburgo dell’11 dicembre scorso, nel Christkindelsmärik, con 5 morti e 11 feriti. Oltre che per ragioni di maggior presenza di potenziali vittime, anche in quell’occasione fu colpito un momento simbolico della cristianità, per di più in una città rappresentativamente importante per tutta l’Europa. Un mese prima, il 2 novembre, un bus con a bordo Cristiani copti diretti verso il Monastero di San Samuele il Confessore, nella provincia di Minya nel Sud dell’Egitto fu preso di mira, con 7 morti e 12 feriti. Per inciso, l’obiettivo non era nuovo: anche il 26 maggio del 2017 fu seguita la stessa modalità esecutiva contro pellegrini diretti nello stesso Monastero, con un bilancio di 28 morti.

Il caso più eclatante della dichiarata guerra dell’Isis al cristianesimo e ai suoi fedeli è quello dei 21 egiziani copti, decapitati nella spiaggia vicino a Tripoli in Libia nel gennaio del 2015 perché “people of the cross”. Il video fece il giro del mondo e le vittime furono poi inserite nel Sinassario, l’elenco che riunisce i santi e i martiri della Chiesa copta. Questa vicenda è ben raccontata dal dettagliato libro di Martin Mosenbech di cui abbiamo recentemente parlato, dando ulteriore rilievo al tema della lotta ai cristiani d’Oriente – di cui, oltretutto, si occupano efficacemente anche giornalisti italiani come Giulio Meotti del Foglio.

Gli altri obiettivi dell’Isis rispondono ad esigenze strategiche ben precise: il settore turistico serve, come nel caso del Bardo e della spiaggia di Sousse in Tunisia, a colpire un paese non schierato nelle posizioni pro-Isis in un suo settore economico vitale o, come nel più recente in Sri Lanka, a dare maggior enfasi agli atti terroristici. In altri casi, come in Turchia o in Egitto, si voleva dare il senso di una ritorsione per il mancato schieramento o per attirare potenziali sostenitori tra le proprie fila. In altri ancora, laddove ad essere colpiti sono stati altri musulmani, gli attentati vanno compresi alla luce delle lotte intestine alle singole realtà territoriali o del tentativo di far prevalere la logica totalizzante salafita nel secolare confronto tra sciiti e sunniti. E ancora: quegli stessi obiettivi hanno rappresentato gli effetti collaterali di attacchi contro occidentali o di guerre civili o di situazioni di particolare caos che all’interno di alcuni paesi si vive, come in Iraq è spesso avvenuto.

L’Isis ha obiettivi diversificati ma mantiene il suo carattere globale: il jihad perpetrato a difesa della fede va combattuto in ogni parte del mondo, perché le minacce percepite sono molteplici e non hanno limiti spaziali: è contro questa mentalità e avendo chiari gli obiettivi e la forma mentis politico-religiosa che ne conseguono, che va combattuta la guerra contro l’Isis, al di là della sua presenza territoriale.

 

 

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