Il 27 e 28 marzo si è tenuto nella località di Sde Boker, in Israele, il summit del Negev, evento che per la prima ha visto la partecipazione congiunta dei Ministri degli Esteri dei Paesi firmatari degli Accordi di Abramo – Bahrain, Emirati Arabi Uniti, Israele, Marocco – a cui sono aggiunti gli omologhi egiziano e americano. L’incontro non era stato preventivamente pubblicizzato ma ha visto un lavorio di Israele dietro le quinte, soprattutto nella volontà di testare il committment americano nei confronti della sicurezza dei propri partner mediorientali, in una fase di incertezza globale causata dall’aggressione russa all’Ucraina e, sul piano regionale, dalla firma ormai prossima di un nuovo accordo sul nucleare iraniano. L’impressione principale che esce da tale incontro è quella di un aumento della volontà dei firmatari degli Accordi di Abramo, così come di un attore indirettamente legato a tale architettura come l’Egitto, di elevare il tasso di integrazione istituzionalizzata fra di essi, dinanzi alla percezione di un disimpegno americano dagli affari mediorientali difficilmente reversibile.
Il summit è durato complessivamente due giorni. Nella giornata di domenica 28 aprile i sei ministri sono arrivati a Sde Boker nel pomeriggio per partecipare a diversi incontri bilaterali e a una prima sessione serale. La mattina seguente si è tenuto il vertice principale, durato più di due ore e seguito da una conferenza stampa congiunta dei sei ministri degli esteri. L’invito del Paese ospitante ha visto l’iniziale adesione del Segretario di Stato americano Blinken e dei quattro omologhi dei Paesi firmatari degli Accordi di Abramo. A questi si è aggiunto in un secondo momento il Ministro degli Esteri egiziano Shoukry, primo Paese arabo a stabilire relazioni diplomatiche con Israele nel 1979. Grande assente la Giordania, che ha rifiutato la richiesta di inviare un proprio rappresentante. Pur essendo ormai uno storico partner dello Stato ebraico, Amman ha adottato fin dall’inizio un approccio più cauto nei confronti degli Accordi di Abramo, dovendo tutelare il proprio ruolo di storico garante della causa palestinese – dinnanzi alla reazione negativa della leadership palestinese nei confronti della normalizzazione dei rapporti tra Israele e Paesi arabi. Non è un caso che nelle stesse ore in cui si teneva il summit del Negev, il Re Abdullah II è andato a Ramallah per un incontro con il Presidente palestinese Abu Mazen – visita che non svolgeva dal 2017.
Le tempistiche e l’urgenza con cui lo Stato ebraico è riuscito a organizzare un summit di così vasta portata dimostrano l’importanza che i Paesi della regione attribuiscono al particolare momento storico che l’intero sistema internazionale sta attraversando. Due sono le ragioni principali che, sul piano temporale, hanno spinto i partner mediorientali di Washington a ricercare un aumento dell’interlocuzione reciproca e con gli stessi Stati Uniti. Su un piano globale, il conflitto che si sta combattendo in Ucraina sta mettendo a dura prova la stabilità dell’ordine internazionale e, di conseguenza, dei singoli teatri regionali. Il Medio Oriente è tra le regioni che, indirettamente, potrebbe risentire più di altre degli effetti negativi di ciò che sta accadendo in Europa. Su un piano regionale, invece, tali attori sentono l’urgenza di rispondere alla prossima e sempre più probabile firma di un nuovo accordo sul nucleare iraniano che, dalla loro prospettiva, diminuirebbe ulteriormente il committment di Washington nei confronti delle loro necessità di sicurezza. Seppure con gradi di intensità differenti, tutti i Paesi mediorientali presenti a Sde Boker valutano negativamente la firma di un nuovo Jcpoa.
Tra questi Israele è il Paese che percepisce con maggiore preoccupazione la minaccia alla propria sicurezza nazionale proveniente da un’eventualità del genere e, per tale motivo, ha rafforzato il suo ruolo di capofila tra i partner regionali degli Stati Uniti. Dal canto suo l’amministrazione Biden è comunque interessata a rassicurare i propri alleati e a mantenere un grado di deterrenza regionale credibile che funga da contraltare alla percepita necessità di integrare l’Iran, potenza revisionista riottosa, all’interno dell’ordine egemonico a guida americana – sul piano globale, mossa utile all’indebolimento di un potenziale asse sino-iraniano, sul piano regionale, con l’obiettivo di creare un equilibrio di potenza regionale autosufficiente e di sostituire la dipendenza energetica dell’Europa dalla Russia con l’energia iraniana, rispolverando un’idea di matrice obamiana.
Un aspetto da non sottovalutare è il simbolismo che si cela dietro la decisione di tenere questo incontro a Sde Boker, villaggio nel cuore del deserto israeliano del Negev. Due sono i piani di lettura che devono essere presi in considerazione. Sul piano del simbolismo religioso, come evidenziato in conferenza stampa dal Ministro degli Esteri israliano Lapid, il Negev è il luogo biblico dove, secondo la Genesi, giunse il patriarca comune delle tre fedi monoteistiche Abramo dopo essere arrivato nella Terra di Canaan e aver giurato fedeltà a Dio. Su un piano politico Sde Boker è il villaggio in cui ha vissuto gran parte della sua vita e dove è sepolto Ben Gurion, padre fondatore di Israele. A tale livello si può evincere un’implicita volontà dei rappresentanti arabi di dare un forte segnale di legittimazione politica nei confronti dello Stato ebraico. Seguendo questa interpretazione, la firma degli Accordi di Abramo non può essere interpretata solamente come un’intesa tattica volta a tutelare interessi contingenti, ma come un tentativo di rivoluzionare alla radice la struttura dell’interno equilibrio regionale e le premesse storico-ideologiche su cui esso si fonda.
Come annunciato in conferenza stampa dai sei ministri, il vertice del Negev si è concluso con dei risultati concreti rilevanti. Tra questi va evidenziata la decisione di rendere questo incontro nel formato multilaterale un forum permanente che si riunirà con cadenza semestrale o annuale, ospitato a turno da tutti i Paesi partecipanti. A ciò si aggiunge la nascita di sei working groups, cioè tavoli di lavoro inter-ministeriali e inter-statuali permanenti che lavoreranno sulla cooperazione nei seguenti settori: sicurezza, energia, turismo, sanità, istruzione, sicurezza alimentare e idrica. Entrambe le decisioni citate vanno a colmare parzialmente un punto di debolezza che fino ad ora aveva caratterizzato il format di Abramo, il quale mancava di un vero coordinamento multilaterale in quanto si basava unicamente su linee di cooperazione bilaterali tra Israele e i singoli Paesi arabo firmatari. Quest’ultimo formato ha dato vita a un processo di integrazione differenziata, a seconda del Paese considerato, il quale aveva come punto di forza principale la libertà concessa a ciascun Paese di decidere le tempistiche e le modalità della cooperazione con lo Stato ebraico, conformandole alle proprie esigenze domestiche e alla propria politica estera. Con la creazione di un dialogo multilaterale permanente, al contrario, si potrà assistere a un’integrazione istituzionalizzata multilaterale e permanente. Tale evoluzione è in linea con l’idea originaria su cui si basano gli Accordi di Abramo: quella di sostituire il disimpegno americano dal Medio Oriente con un maggiore tasso di integrazione tra i partner regionali di Washington, i quali stanno progressivamente accettando un quoziente maggiore di responsabilità nel mantenimento dell’architettura securitaria regionale.
Sul fronte iraniano è stata inoltre discussa, ma non ancora decisa, la creazione di un meccanismo di coordinamento regionale di contrasto alle minacce aeree provenienti da missili a droni – due dimensioni su cui l’industria bellica iraniana è all’avanguardia. Anche su questo fronte va ribadita la volontà degli attori regionali di costruire meccanismi di integrazione istituzionalizzata su singole dimensioni. È quindi improbabile al momento che la cooperazione in materia di difesa sfoci nella creazione di un’alleanza politico-militare vera e propria, una sorta di Nato mediorientale. Sul fronte dei risultati impliciti va registrato il sostegno dell’amministrazione Biden agli Accordi di Abramo. Dopo una fase iniziale di incertezza quindi – dovuta più alla lotta politico-elettorale interna che a calcoli di natura strategica – anche l’attuale amministrazione americana ha colto l’opportunità di proseguire la politica inaugurata dal suo predecessore.